approfondimenti

MONDO

I padroni del fútbol argentino: viaggio ai confini della città

Dopo dodici anni di divieto di trasferte, un campo di calcio della periferia ovest di Buenos Aires torna a essere teatro di un clásico a porte aperte. Un racconto di immagini e parole che va ben oltre i novanta minuti di calcio giocato, dimostrando il vincolo quotidiano di co-appartenenza tra soci e club, che travalica le gradinate dello stadio e produce spazi di partecipazione collettiva sul territorio, a pochi mesi dall’ennesimo tentativo fallito di Macri di trasformare le società sportive in imprese

«Per quale squadra tieni?». È una delle domande più ricorrenti che mi viene fatta da quando vivo in Argentina, dando per scontato che venendo dall’Italia ed essendo un ragazzo debba per forza piacermi il calcio. Non importa che si stia parlando di fútbol o che sia l’inizio di una conversazione qualsiasi, per rompere il ghiaccio, da lì non si scappa. Un quesito chiaro e semplice, a cui tutto sommato, confermando lo stereotipo, rispondo sempre con scioltezza e decisione: «Sampdoria». Cuore cerchiato di blu, senza sfumature. Cuore di periferia. Sull’interrogativo che solitamente mi si pone dopo, e cioè per chi faccio il tifo qui, invece mi trovo ancora impreparato, perché una squadra per cui tifare, qui, non ce l’ho. E forse non ce l’avrò mai.

 

River o Boca è il grande dilemma mainstream che mi attanaglia, il derby argentino per eccellenza. Ma poi c’è anche il clásico di Avellaneda tra il Racing e l’Independiente, il San Lorenzo de Almagro, la cui storia meriterebbe un articolo a parte, l’Argentinos Juniors (prima squadra di Maradona) e chi più ne ha, più ne metta.

 

A Buenos Aires, con mediamente dieci squadre che militano in Primera división (la nostra Serie A), il derby è un concetto allargato e fluido. So che sarò sotto osservazione fino a che non avrò scelto. Ma come si fa a decidere una cosa così? Non c’è alcun vincolo emotivo che ci unisce, né storia di vita da giustapporre alle vittorie o alle sconfitte. Nessuna passione alimentata nel tempo, né alcuno zio che da piccolo mi abbia fatto innamorare dei colori di qualche camiseta portandomi per la prima volta allo stadio. Troppa la distanza tra me e le imponenti storie di trionfi del fútbol argentino d’élite.

Dice va beh, prendila una posizione, perdio. Macché. Non ce la faccio. Mi sento perduto. Per capire meglio devo ridimensionare la questione e andare laddove il club è tutt’uno con la vita delle persone, o almeno così mi dicono. Ho bisogno di andare a ovest.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Oltre la furia e il cemento.

 

«Domenica c’è il clásico Ituzaingó-Argentino de Merlo. Devi venire», mi dice Nacho, nato e cresciuto a Ituzaingó e oggi addetto stampa del club. Colgo l’invito come un evidente segnale e domenica mattina prendo il treno che collega Once, una delle cinque stazioni terminali di Buenos Aires, con l’hinterland occidentale. A guardare Google Maps, si distingue solo quella che qui chiamano Gran Buenos Aires, ovvero l’area metropolitana che include, senza soluzione di continuità, la capitale argentina (Ciudad Autónoma de Buenos Aires, per tutti CABA) con il conurbano bonaerense, la sua cintura urbana esterna. Il centro con la periferia. Secondo la divisione federale del paese due territori a sé.

 

Dal finestrino della carrozza è evidente quanto, mano a mano che ci si lascia alle spalle il centro e ci si addentra, direzione ovest, in provincia, gli spazi cambiano. La densità e la mole degli edifici della capitale diminuisce di colpo.

 

Buenos Aires “città della furia” termina sotto i pilastri della General Paz, l’autostrada che la circonda, aprendosi a un panorama più orizzontale. La speculazione edilizia che sta devastando molte aree della capitale – con i relativi processi di gentrificazione caratterizzati dall’aumento dei prezzi dei terreni e degli immobili, sgomberi, repressione e lotta ai poveri camuffata da riqualificazione degli spazi urbani  – qui non è pervenuta.

Le persone che a causa di queste politiche vengono di fatto espulse dal governo porteño spesso trovano proprio nel conurbano l’accesso a una casa dignitosa e una seconda occasione. Siamo nella Provincia di Buenos Aires. Le case basse, il verde e la vita di quartiere, el barrio. Ma anche uno dei più alti tassi di disoccupazione del paese, quasi 3 punti percentuali al di sopra della media nazionale, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (INDEC). Negli orari di punta i treni che collegano il conurbano con la capitale si riempiono di pendolari, che in città lavorano e nel conurbano vivono. Oggi però è domenica, i treni sono semivuoti e c’è la partita.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Il clásico tra divieti, deroghe e choripanes

 

La partita non è come le altre perché sarà presente anche la tifoseria ospite. Fatto del tutto eccezionale sui campi da calcio argentini visto che dal 2007, dopo gli scontri tra ultras di Nueva Chicago e Tigre – iniziati all’interno dello stadio e terminati in guerriglia urbana, con decine di feriti e un morto, Marcelo Cejas, tra i tifosi del Tigre – la AFA (Asociación del Fútbol Argentino) ha deciso di vietare le trasferte organizzate, su ogni campo e categoria del ascenso, ovvero dovunque ad eccezione della Primera División. Divieto esteso nel 2013 anche in Primera a seguito di un altro episodio tragico in cui durante il match tra Independiente e Lanús, un tifoso del Lanús, Javier Jerez, venne ucciso con un colpo di fucile dalla polizia.

Negli ultimi anni quindi le rarissime occasioni in cui gli incontri si sono disputati con pubblico ospite sono state frutto di accordi tra ultras e organi regolatori per la sicurezza di ogni provincia.

Caso emblematico di come le misure di sicurezza possano letteralmente rubare la scena ai tifosi – e di come questo sia direttamente proporzionale agli interessi economici legati al calcio – è la scorsa finale della Copa Libertadores tra Boca e River, che si è disputata eccezionalmente in Europa dopo essere stata rinviata per scontri avvenuti fuori dallo stadio del River, prima dell’inizio dell’incontro di ritorno. Sponsor e televisioni hanno avuto un peso preponderante al momento di decidere dove, come e quando giocare. Si è giocato a Madrid cedendo alle logiche del mercato, offrendo un prodotto da comprare, ma senza tutti quei tifosi che per identificazione con il club avrebbero riempito “El Monumental”, rimasto vuoto qui a Buenos Aires.

 

«Non c’è niente di più vuoto di uno stadio vuoto», diceva Eduardo Galeano. A Ituzaingó è la seconda volta in dodici anni che si gioca con entrambe le tifoserie presenti.

 

Qui in Provincia di Buenos Aires, l’organo competente (Agencia de Prevención de la Violencia en el Deporte) ha concesso delle deroghe in questi anni «sempre a mo’ di prova o per mostrare un’immagine di lotta agli ultras violenti», mi dice Nacho, che fin da subito ha reputato ingiusto il provvedimento restrittivo visto che per quanto accaduto in altri stadi viene pregiudicata la possibilità a tutti i club di ricevere tifoserie ospiti o di organizzare trasferte proprie.

 

 

Il clásico tra Ituzaingó e Argentino de Merlo, pur non essendo l’unico derby dell’ovest ma una delle tante rivalità sportive della zona, conta con un alto numero di precedenti: 36. Sono attesi duemila tifosi dell’Argentino de Merlo e c’è fibrillazione tra dirigenti e addetti ai lavori, non più abituati a gestire anche questo aspetto organizzativo dopo tanti anni di divieti.

 

«Per chi come noi è nato su questa sponda, è inconcepibile un calcio senza entrambe le tifoserie», afferma Martín Paratcha, della commissione direttiva del Club Atlético Ituzaingó.

 

La sua prospettiva da dirigente in merito alla presenza dei tifosi ospiti negli stadi è chiara. Sa che ciò obbligherebbe le società sportive ad avere un’organizzazione più rigorosa e a compiere con l’intera comunità «un lavoro di presa di coscienza per comprendere il senso dello spettacolo», puntando sul ruolo educativo e di costruzione collettiva del club piuttosto che su divieti e formule repressive. Ma è evidente che il ritorno alle competizioni aperte a tutti, padroni di casa e ospiti, sia un auspicio che, con lui, hanno in molti.

«Una cosa che capita spesso in ogni club –mi racconta Nacho – è che i tifosi decidono di andare in trasferta simulando di essere sostenitori della squadra di casa. Ed è qualcosa di irrazionale, di incredibile, perché decidono di trattenere la propria ammirazione per la squadra, solo per poterla vedere, circondati da tifosi avversari che non hanno niente a che vedere col proprio club. E, viste le situazioni di violenza avute in passato, sanno che in qualche modo stanno correndo il pericolo che possa succedere qualcosa».

Quando arrivano i pullman con le due squadre, all’interno dello stadio ci sono più forze di polizia che tifosi. I giocatori entrano e vanno subito ad “assaggiare” l’erba mentre a bordo campo iniziano a piazzarsi operatori video, fotografi e fotografe.

 

Di fianco al bar dello stadio, sul lato corto del campo, a dieci metri dalla bandierina del calcio d’angolo, non passa inosservata una brace di dimensioni importanti che accoglie una considerevole quantità di salsicce, generando una nube altissima e un profumo che invita gli atleti a sedersi con un panino in mano, più che a correre per un’ora e mezza dietro al pallone.

 

Viste le persone attese oggi – all’incirca 5000 tra tifosi di casa e ospiti – bisognava effettivamente essere preparati, e non c’è evento popolare in Argentina che non si svolga senza garantire una fluente e giusta distribuzione di choripan. Bambini e bambine giocano in attesa del calcio d’inizio, chi a pallone, chi facendo finta di guidare il piccolo trattore tagliaerba parcheggiato vicino al campo. A poca distanza due signori anziani chiacchierano seduti all’ombra di un muro. Ne arriva un terzo che con un ghigno si rivolge a uno dei due: «Che, quando te ne occupavi tu il campo faceva schifo! C’era sabbia dappertutto!». Faccio fatica a distinguere i tifosi dai dirigenti e dagli addetti ai lavori.

Il terreno di gioco è in perfette condizioni e alle 15:30, dopo le foto di rito al centro del campo, l’arbitro Yasinski fischia l’inizio dell’incontro. È un pomeriggio di cielo terso e di erba brillante: azzurro e verde, Argentinos e Ituzaingó.

Uno stadio pieno come non lo era da tempo risuona di cori ed eccitazione da entrambe le parti. Dopo anni passati a prendersi in giro senza nemmeno potersi vedere, oggi le tifoserie riescono finalmente a giocare la loro partita, chiamarsi a vicenda e rispondersi a tono, le une alle altre, cantando più forte, mostrando lo striscione più grande, sperando di gioire almeno una volta in più degli “altri”, quelli che stanno nella gradinata opposta.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Il club del quartiere e la costruzione collettiva di uno spazio comunitario

 

«In Primera división la gran maggioranza dei tifosi non ha niente a che vedere con la realtà dei propri club. Lì c’è un calcio più visibile, più bello, perché ci sono i giocatori migliori, che sono coloro i quali lo rendono migliore tecnicamente, ma nell’ascenso ogni cosa è più reale perché tutti quelli che hanno idee, voglia e iniziativa di collaborare in un club lo possono fare, trovano sempre le porte aperte e sono loro che trasformano i club, in modo diretto, senza trappole, senza distanze, senza le transenne, le pareti, gli accessi impossibili, la sicurezza privata che non ti fa passare. Qui le persone si vedono in faccia tutti i giorni, e questo rende tutto più reale, qualcosa da poter vivere davvero: viaggiare in treno con i giocatori, conoscere la loro vita privata, pranzare insieme ai dirigenti. Tutto è più quotidiano, tutto si avvicina a quella che è la nostra vita in quanto lavoratori, a differenza di un club di primera, con giocatori che guadagnano fortune, dirigenti che hanno vincoli politici, vincoli con il potere, e nessuno può avere incidenza in ciò che si decide nelle commissioni direttive dei club». Le parole di Nacho fanno eco all’enorme slogan che campeggia sopra la curva degli ultras: “MI BARRIO – MI VIDA”.

 

Essere di Ituzaingó, tifare per la squadra e partecipare alle attività del club, a qualunque livello, significa anche intessere una relazione di reciprocità che genera ricadute sul tessuto sociale del quartiere di cui i tifosi/soci sono parte. Il club in tal senso è un attore politico.

 

Innanzitutto perché conforma uno spazio entro cui i soci sono soggetti agenti che mettono in gioco il proprio potere, tanto nei processi decisionali previsti dallo statuto quanto in ambito di partecipazione/fruizione delle attività. Al contempo, il medesimo club concorre alla disputa del potere nel territorio, occupando e offrendo spazio fisico e simbolico di fronte all’orizzonte di possibilità che quotidianamente definiscono la vita nel quartiere, soprattutto per i più giovani.

Il club è spesso soggetto attivo in mobilitazioni sociali e di interesse comunitario, sostiene vincoli inclusivi in contesti di vulnerabilità e propone alternative ai modelli relazionali e ricreativi incentrati sull’individuo. Trascorrere del tempo nel club, agire “in” e “con” esso, significa assumere la costruzione di un processo collettivo e condiviso, in cui i rapporti si articolano in modo più orizzontale e negoziabile di quanto non accada normalmente e dove lo sport è solo una delle possibili espressioni. I club hanno un «ruolo sociale di vitale importanza»,  perché «si complementano con lo Stato per essere luogo di contenimento di adulti e ragazzi», sottolinea Martín.

 

Il settore calcistico è la punta dell’iceberg, si tratta infatti quasi sempre di società polisportive, strutturate con criteri di pluralità e inclusione, e finalità educative e culturali, non solo luoghi per fare sport o nei quali lo sport deve generare profitto. Tali società in Argentina sono associazioni civili senza fini di lucro nelle quali la coincidenza tra soci, tifosi, dirigenti e abitanti del barrio è fortissima e non c’è da stupirsi se tutti i tentativi di trasformare i club in imprese private (SAD, Sociedades Anónimas Deportivas) siano falliti.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

«Il socio è il padrone»: l’offensiva fallita dell’imprenditoria a un modello che funziona e resiste

 

Il primo assalto alla formula associativa dei club da parte del mondo imprenditoriale lo si deve a Mauricio Macri, che nel 1995 viene eletto presidente del Boca Juniors e già dai primi anni del suo mandato culla l’idea di trasformare i club in aziende. Nel 1999 di fatto presenta un progetto che riesce a sottoporre al voto assembleare di tutti i presidenti delle società affiliate alla federazione: 38 voti contrari e 1 a favore, il suo. Il rifiuto fu categorico.

Circa vent’anni dopo quella prima iniziativa, nell’ottobre dell’anno passato, Macri – che nel frattempo veniva eletto presidente della nazione – fa un secondo tentativo cercando di portare la discussione nuovamente all’istanza del voto. Succede che la mobilitazione per impedire la votazione – tra l’altro in un contesto generale di crisi acuta prodotta proprio dalle politiche neoliberiste del suo governo – si estende e prende forza anche attraverso i social, convocando un fronte comune di opposizione composto da dirigenze, soci, e tifoserie unite in una piattaforma di coordinamento nata proprio per tutelare i club in quanto associazioni civili.

 

Tra i più attivi oppositori alla trasformazione Matías Lammens, presidente del San Lorenzo e attuale candidato a governatore della Città di Buenos Aires per il Frente de Todos, l’ampia alleanza tra peronismo e campo popolare conformatasi per far cadere il macrismo su scala nazionale alle prossime elezioni del 27 ottobre.

 

«In un paese con la fragilità sociale che ha l’Argentina, dove 4 ragazzi su 10 sono poveri, lo Stato dovrebbe scommettere sui club. Invece di asfissiarli con tariffe impagabili o di farne dei business, bisogna proteggerli affinché continuino a compiere il proprio ruolo sociale», sono state le parole di Lammens, che attraverso Twitter è diventato ben presto il principale referente del #NoALasSAD tra i dirigenti.

Il suo messaggio: «Per statuto il club sarà sempre dei soci e mai di un padrone» è condiviso totalmente da Martín, che rimarca: «immaginare un panorama diverso fa paura», perché, dice «con le SAD il modello punterebbe al profitto, il socio perderebbe offerta di servizi legati alle attività in deficit, perderebbe voce e voto all’interno del suo spazio di appartenenza e, nel peggiore dei casi, se il business non funziona i ‘nuovi padroni’ potrebbero ritirarsi e lasciare i club davanti a situazioni irreversibili».

 

Nacho, rispetto all’ipotesi di una privatizzazione è convinto che «alle imprese interesserebbe solo il calcio maschile e di Primera división, far competere quel tipo di squadra, tutto il resto non gli interessa, verrebbe scartato. Per le imprese è di poca importanza che ci siano migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze in Argentina che praticano sport nei club, non gli importa l’identità del club, tutto per loro è assolutamente prescindibile».

 

È chiaro che dal punto di vista di tifosi e soci di un club che non persegue fini di lucro, la modalità di gestione imprenditoriale genera un conflitto ontologicamente irrisolvibile. Conflitto che è anche trasversale. Infatti, ben lontani dall’aver ottenuto un consenso pubblico, i tentativi di trasformazione sono falliti uno dopo l’altro incontrando resistenze a ogni livello. Nacho, sulla questione mi conferma che non solo le società delle serie minori ma «tutta la comunità sportiva rigetta questa idea di club come impresa. Soci e socie di club d’élite, persone che magari possono votare Mauricio Macri e il suo progetto politico non vogliono che questo invada i club, perché capiscono che i club hanno un ruolo differente».

 

Foto di Gianluigi Gurgigno.

 

Nel frattempo, il sole picchia duro sugli spalti bianco-verdi del Carlos Sacaan di Ituzaingó. I padroni di casa sono contratti, sanno che devono vincere perché la classifica è pessima e la gente rumoreggia. La panchina dell’allenatore in bilico, se ce n’è una.

 

Si va al riposo con un risultato che non fa presagire nulla di buono: 2 a 0 per gli ospiti. Io, per finalità del tutto investigative, approfitto dell’intervallo per andare a provare una panino con la salsiccia di cui sopra, che devo dire non tradisce le aspettative. I parrilleros sono i veri vincitori morali. Sempre.

 

Ricominciato il secondo tempo la musica non cambia, nonostante le sostituzioni. Le tifoserie cantano e colorano di verde e azzurro i settori dello stadio: gruppi di ragazze, genitori e figli, bambini, adulti, bandiere, tamburi e fumogeni, grida e abbracci.

«Che ci piaccia o no, nel bene e nel male, in questi tempi di così tanti dubbi e disperazione, i colori del club sono, a oggi, per molti latino-americani, l’unica certezza degna di fede assoluta e la fonte del più alto giubilo o della più profonda tristezza»: Galeano non poteva dirlo meglio di così. Per cinque volte la palla termina in fondo alla rete, provocando insieme gioia e sconforto. La partita si conclude 4 a 1 per l’Argentino de Merlo e due giorni dopo il tecnico dell’Ituzaingó viene esonerato. Non so se mi vorranno più vedere da quelle parti. Proprio ora che forse avevo deciso per chi tifare.

 

Tutte le foto sono di Gianluigi Gurgigno