approfondimenti

OPINIONI

«Odio gli etero!». The Queer Nation Manifesto

La traduzione in esclusiva del manifesto del movimento per i diritti dei portatori di Aids nato alla fine degli anni ’80 negli Stati Uniti, con un’introduzione del teorico queer Lorenzo Bernini

Introduzione

“Queer” viene oggi usato con accezioni differenti: come termine ombrello che designa tutte le persone non eterosessuali e non cisgenere comprese nell’acronimo LGBTQIA+ e anche quelle che all’acronimo sfuggono (il +); come termine specifico che designa una particolare soggettività all’interno dell’acronimo (queer o genderqueer è chi ha un genere non binario che sfida la rigida ripartizione tra donne e uomini); come indicatore di un posizionamento teorico che opera la decostruzione delle identità sessuali categorizzate dal sistema classificatorio sesso/genere/orientamento sessuale oggi corrente; come indicatore di un posizionamento politico antagonista che critica le rivendicazioni identitarie e meramente liberali dei movimenti LGBT mainstream.

È quest’ultimo significato che qui ci riguarda, anche se oggi altri significati hanno preso il sopravvento, con la precisazione che a orecchie anglofone “queer” continua, inoltre, a suonare come un insulto che veicola disprezzo verso le minoranze sessuali.


“Queer” è, insomma, un significante fluttuante. A testimoniarlo è anche la sua storia. Il termine inglese deriva dall’aggettivo germanico “quer” che a sua volta deriva dal verbo latino “torquere”, e che significa “trasversale”, “diagonale”, “obliquo”.

(da commons.wikimedia.org)

“Queer” è quindi il contrario di “straight”, che vuol dire dritto, retto, e – dal momento che l’eterosessualità è tradizionalmente associata alla rettitudine morale – anche “eterosessuale”. Originariamente in inglese significava “storto”, “strambo”, “bizzarro”, ma nel corso dell’Ottocento è diventato un epiteto dispregiativo che potremmo tradurre con “finocchio” o “frocio”, anche se nella lingua italiana questi improperi difficilmente posso essere rivolti a persone di genere femminile, mentre in inglese “queer” può esserlo.

Ed è proprio di questa accezione che si riappropriarono gli autori e le autrici del documento qui di seguito pubblicato, per la prima volta tradotto integralmente in italiano.

Stiamo oggi affrontando una terribile pandemia. In attesa di una cura per il Covid-19, le nostre speranze sono riposte nei vaccini contro il virus SARS-CoV-2 che con grande velocità la comunità scientifica è riuscita ad approntare, ma che sappiamo avere una distribuzione diseguale sul pianeta. A oggi non esistono invece né cure, né vaccini contro un’altra pandemia, scoppiata quattro decenni fa e tuttora in corso: se nei paesi benestanti è disponibile un cocktail di farmaci in grado di bloccare la replicazione del virus HIV (ma non di eradicarlo dall’organismo infetto) e una profilassi pre-esposizione (PrEP) in grado di proteggere dall’infezione, in molti luoghi del mondo per le complicazioni correlate all’AIDS si continua a morire come mosche.


Molto è cambiato – anche in questo caso, in modo geograficamente diseguale – nella percezione delle minoranze sessuali dallo scoppio della pandemia di AIDS allo scoppio della pandemia di Covid-19.

Si pensi all’Italia, dove le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono state approvate nel 2016, e dove durante i lockdown i/le partner delle coppie lesbiche e gay civilmente unite sono stati/e annoverati/e tra le persone “congiunte”, che potevano incontrarsi anche quando ad altri era proibito. Quando era scoppiata la pandemia di AIDS, una terribile ondata omolesbobitransfobica aveva invece ricordato alle minoranze sessuali la negatività del sessuale di cui tradizionalmente sono considerate simbolo, e soprattutto uomini gay e bisessuali e donne trans per lungo tempo sono diventati/e agli occhi dell’opinione pubblica scandalosi vettori, o meglio untori, del virus HIV.

È in questo clima che, il 20 marzo 1990, una sessantina di attivisti e attiviste, sieropositivi/e e non, già coinvolti/e nelle attività di ACT UP (AIDS Coalition To Unleash Power), si diedero appuntamento al Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Community Services Center del Greenwich Village di New York per creare un gruppo di azione diretta finalizzato alla richiesta di assistenza per i malati di AIDS, alla promozione della visibilità delle minoranze sessuali, alla lotta contro l’omolesbobitransfobia, all’autodifesa dalle aggressioni omolesbobitransfobiche.

Operando, per usare parole della Judith Butler di Bodies that Matter (1993), una “riconversione dell’abiezione in azione politica”, questi/e attivisti/e scelsero di nominarsi con l’insulto che veniva rivolto loro. Nacque così Queer Nation, di cui il testo che tra poco leggerete è il manifesto.

Nella storia di quelli che oggi chiamiamo movimenti LGBTQIA+, la crisi dell’AIDS ha costituito un punto di svolta per differenti ragioni: colpendo in modo particolare uomini gay e bisessuali e donne trans, il virus HIV ha conferito loro, a attraverso di loro a tutte le minoranze sessuali, una visibilità sociale forzata; la divisione tra disprezzo e lutto collettivo ha polarizzato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica; il bisogno di sostegno ha spinto le/gli attivisti a fondare centri comunitari dediti al mutuo aiuto, all’erogazione di servizi, alla ricerca di finanziamenti, che nel tempo sono diventati interlocutori della politica istituzionale.

I nascenti movimenti LGBT mainstream reagirono contrapponendo allo stigma della malattia un’immagine rassicurante delle minoranze sessuali, cercando di spiegare all’opinione pubblica che l’AIDS riguarda tutte/i e che, come tutte/i, anche gay lesbiche e trans possono essere cittadini e cittadine per bene, capaci di contribuire al futuro della nazione e a difenderla dai suoi nemici.

Negli Stati Uniti, iniziarono in quegli anni prima la grande campagna per ottenere il diritto di fare carriera nell’esercito senza dover nascondere la propria omosessualità o non conformità di genere e, in seguito, quella – altrettanto grande – per ottenere diritti matrimoniali per lesbiche e gay: due campagne politiche che avrebbero avuto un effetto traino in tutto il mondo.


Le/gli attiviste/i newyorkesi che fondarono Queer Nation, decisero invece di agire diversamente: anziché presentarsi come cittadini/e per bene in cerca di tolleranza e assimilazione, scelsero di prendere la parola come persone “per male”, come quei queer che tanto provocavano disapprovazione e disgusto nei cittadini benpensanti, che all’intolleranza altrui contrapponevano la propria. Anziché rassicurare, si fecero carico della propria negatività e scelsero di presentarsi come minaccia alla rispettabilità e al quieto vivere borghese.

Anziché limitarsi a chiedere di poter contribuire al futuro della nazione americana, costituirono nel qui e nell’ora una nazione frocia dentro la nazione, in guerra con la nazione e tutte le sue istituzioni – l’esercito, la corte suprema, la sanità, la scuola, la famiglia monogamica eterosessuale, anche la Chiesa.

Inaugurarono uno stile di militanza aggressivo, chiassoso, ironico, scandaloso: azioni dimostrative e cortei non autorizzati, kiss-in, esibizione pubblica di corpi, affettività e sessualità non conformi al cisgenere e all’eterosessualità, slogan, poster, sticker provocatori. Furono di ispirazione prima a San Francisco e in altre città statunitensi, dove altri gruppi presero lo stesso nome. Poi dappertutto.

Così facendo, Queer Nation si richiamò alle origini dei movimenti di liberazione delle minoranze sessuali. Se infatti già negli anni Cinquanta esistevano negli Stati Uniti rispettabili movimenti omofili integrazionisti – i primi erano stati fondati in Germania già all’inizio del Novecento –, nella notte del 28 giugno 1969, a ribellarsi contro la polizia di New York non furono gay in giacca e cravatta e lesbiche in tailleur che chiedevano integrazione sociale.

Furono invece gli avventori e le avventrici di un malfamato locale del Village, lo Stonewall Inn: travestite e drag queen dagli abiti sfacciati, drag king e lesbiche butch con giubbotti da motociclista, marchette gay in cerca di clienti, ragazzi e ragazze di vari colori (afroamericani, ispanici, caucasici…), senza dimora, scappati/e di casa, cacciati/e di casa.

Alla rivolta seguirono la fondazione del Gay Liberation Front, di STAR – Street Transvestite Action Revolutionaries, poi del gruppo lesbico Lavender Menace, di molti altri gruppi e collettivi in molti paesi del mondo. È questo l’evento che viene celebrato ogni anno nelle Pride Parade. Ed è appunto durante il corteo commemorativo di New York, nel 1990, a pochi mesi dalla fondazione di Queer Nation, che il gruppo distribuì il suo manifesto, in cui si poneva in continuità con quella gloriosa storia.


Molto è cambiato, abbiamo detto, da allora. A mezzo secolo dalla rivolta di Stonewall, quarant’anni dopo lo scoppio della crisi dell’AIDS e circa trent’anni dopo la nascita di Queer Nation, a una pandemia se ne è sovrapposta a un’altra. Nel frattempo, non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in molti paesi del mondo, le vittorie dei movimenti LGBTQIA+ sono state straordinarie. Persino in Italia, seppur tardivamente, è stata approvata una legge sulle unioni civili e ai/alle partner civilmente uniti/e è stato riconosciuto l’ambiguo titolo di congiunti/e.

Nella nuova situazione, da un lato le minoranze sessuali sono diventate bersaglio polemico di una destra populista e sovranista che fa un’ideologia della difesa della cosiddetta “famiglia naturale” (“naturalmente” eterosessuale, “naturalmente” cristiana, “naturalmente” bianca) tanto dalle conquiste dei movimenti femministi ed LGBTQIA+, quanto dall’immigrazione e dall’avvento di nuove società meticce.

Dall’altro lato, esse si trovano di fronte all’allettante tentazione di fare della propria conquistata rispettabilità un privilegio e di scaricare sulle spalle di altri il peso della negatività del sessuale che per lungo tempo hanno portato sulle proprie spalle. Già si vedono, anche in Italia, coppie di lesbiche e gay civilmente unite/i schierarsi per la difesa della nazione da migranti considerati portatori di culture arretrate, sessiste, omolesbobitransfobiche e assieme sessualmente disordinate (il mito del migrante stupratore e della migrante dissoluta sono ancora ben presenti nelle nostre società); già si sentono donne e uomini trans socialmente integrate/i, laureate/i, professioniste/i realizzate/i, chiedere la chiusura dei confini alle prostitute trans provenienti dall’estero.

(da commons.wikimedia.org)

In The Twilight of Equality (2003) Lisa Duggan ha chiamato “omonormatività” il processo attraverso il quale i movimenti LGBTQIA+, focalizzandosi sulla rivendicazione identitaria di diritti civili, hanno partecipato a quel processo generale che ha visto la sinistra abbandonare le posizioni anticapitaliste radicali del secondo dopoguerra per essere gradualmente riassorbita nelle logiche del neoliberalismo.

In Terrorist Assemblages (2007), Jasbir Puar ha poi coniato il termine “omonazionalismo” per indicare la cooptazione dei diritti delle minoranze sessuali, e in particolare delle coppie di uomini bianchi gay e benestanti, in retoriche nazionaliste che contrappongono la cultura liberale dell’Occidente al resto del mondo per giustificare l’introduzione di politiche anti-immigrazione e anti-islamiche.

A fronte di questi cambiamenti, tradurre e diffondere oggi il Queer Nation Manifesto potrebbe sembrare un’operazione anacronistica, se non nostalgica, al massimo rispondente a un interesse d’archivio. L’inattualità di questo documento lo rende invece estremamente attuale.

La paura, addirittura il panico, il lutto, l’indignazione, l’ira, l’intolleranza, l’aggressività, l’odio delle attiviste e degli attivisti anonime/i che lo hanno scritto non soltanto ci ricordano infatti chi eravamo: ci ricordano anche chi ancora siamo – ci inducono ad assumerla, la negatività (o abiezione) che alberga in noi, anziché proiettarla su altri (mi si perdoni una prima persona plurale che lascio intenzionalmente indefinita).

Mentre tendiamo a trarre consolazione e soddisfazione dal rappresentare le donne e le persone LGBTQIA+, e soprattutto gli uomini gay di cui sopra, come campioni di una modernità giuridica tutta occidentale contrapposta al resto del mondo, queste emozioni tristi e rabbiose ci permettono di sintonizzarci sul sessismo e sull’omolesbobitransfobia che continua a strutturare le nostre società, di cui sono prova non solo i femminicidi, gli stupri, le aggressioni omolesbobitransfobiche e gli atti di bullismo che quotidianamente punteggiano la cronaca, ma anche il dibattito attorno al disegno di legge Zan in Italia, in cui la questione dell’identità di genere è diventata pietra di uno scandalo che di gran lunga la supera.

Ci permettono di esercitare uno sguardo laterale e obliquo, queer appunto, e volutamente parziale, sul sociale, anziché pretendere di occupare in esso una posizione totalizzante e centrale – di sentirci parte di una nazione frocia, di una nazione storta, dentro la nazione.

Mentre ci vacciniamo (o no) contro il Covid-19, mentre restiamo nell’attesa, lunghissima, di un vaccino o di una cura contro l’AIDS, (mi si perdoni anche la metafora medica) questo manifesto ha insomma la piena potenza di un antidoto contro l’omonormatività e l’omonazionalismo dei nostri tempi complessi. Che aspettate quindi, queer di tutt’Italia: leggetelo!

(Lorenzo Bernini*)

Il Queer Nation Manifesto

Come faccio a dirtelo. Fratello, sorella, come faccio a convincerti che la tua vita è in pericolo. Che ogni giorno in cui ti svegli vivo, relativamente felice, un essere umano funzionale, stai commettendo un atto di ribellione? Che tu, in quanto persona queer viva e funzionale, sei una persona rivoluzionaria. Non c’è niente su questo pianeta che legittimi, protegga o incoraggi la tua esistenza. È un miracolo che tu sia qui a leggere queste parole: dovresti a tutti i costi essere già morta. Non farti ingannare, il mondo è degli etero e l’unica ragione per cui sei stata risparmiata è che sei intelligente, fortunata, oppure una persona combattente. Gli etero hanno un privilegio che permette loro di fare quello che vogliono e di scopare senza paura. Non solo vivono una vita senza paura; me la sbattono in faccia la loro libertà. Vedo le loro immagini nella mia TV, nella rivista che ho comprato, nel ristorante in cui mi piacerebbe mangiare e nella strada in cui vivo. Voglio una moratoria sul matrimonio etero, sui bambini, sulle manifestazioni pubbliche di affetto nei confronti dell’altro sesso e sulle immagini dei media che promuovono l’eterosessualità. Fino a quando non potrò godere della stessa libertà di movimento e di sessualità degli etero, il loro privilegio deve cessare, deve essere dato a me, ai miei fratelli e alle mie sorelle queer. Le persone eterosessuali non acconsentiranno mai volontariamente a questo, dobbiamo costringerle a farlo. Le dobbiamo spaventare. Terrorizzare. La paura è la motivazione più potente. Nessuno ci darà quello che meritiamo. I diritti non si danno, si prendono, se necessario con la forza. È più facile combattere quando sai chi è il tuo nemico. Le persone etero sono il tuo nemico. Sono il tuo nemico quando non riconoscono la tua invisibilità, quando continuano a vivere e perpetrare una cultura che ti uccide. Ogni giorno qualcuno o qualcuna di noi cade sotto i colpi del nemico. Che si tratti di morte per AIDS, dovuta all’inazione omofoba del governo, o di un pestaggio di lesbiche in una tavola calda (in un quartiere presumibilmente lesbico), veniamo sistematicamente eliminate, e continueremo a essere eliminate fino a quando non ci sarà chiaro che se prendono uno devono prenderci tutti e tutte.

Essere queer non ha a che fare con un diritto alla privacy; ha a che fare con la libertà di essere in pubblico, di essere semplicemente ciò che siamo. Essere queer significa combattere l’oppressione tutti i giorni: l’omofobia, il razzismo, la misoginia, il bigottismo dei religiosi ipocriti e l’odio che abbiamo per noi stessi e noi stesse. (Ci è stato metodicamente insegnato a odiarci). E ora, naturalmente, significa anche combattere un virus, e gli omofobi che usano l’AIDS per cancellarci dalla faccia della terra. Essere queer significa condurre un tipo di vita differente. Non ha a che fare con il mainstream, i margini di profitto, il patriottismo, il patriarcato o con l’essere assimilati. Non ha a che fare con i direttori esecutivi, il privilegio e l’elitarismo. Ha a che fare con lo stare ai margini che ci definiscono; ha a che fare con il fottere il genere (gender-fuck) e con i segreti, con ciò che è sotto la cintura e nel profondo del cuore; ha a che fare con la notte. Essere queer viene dal basso (grass roots), perché sappiamo che ognuno e ognuna di noi, ogni corpo, ogni fica, ogni cuore, ogni culo e ogni cazzo è un mondo di piacere che aspetta solo di essere esplorato. Ognuno e ognuna di noi è un mondo di infinite possibilità. Siamo un esercito perché dobbiamo esserlo. Siamo un esercito perché siamo potenti. (Abbiamo così tanto per cui lottare; siamo la più preziosa delle specie in pericolo). E siamo un esercito di amanti, perché siamo noi a sapere cos’è l’amore. Cos’è il desiderio, e la lussuria. Li abbiamo inventati noi. Usciamo allo scoperto, affrontiamo il rifiuto della società, i plotoni di esecuzione, per il solo fatto di amarci! Ogni volta che scopiamo, vinciamo. Dobbiamo lottare noi per noi stessi (nessun altro lo farà) e se in questo processo portiamo maggiore libertà al mondo intero, tanto meglio. (Abbiamo già dato così tanto a questo mondo: la democrazia, le arti, i concetti di amore, di filosofia e di anima, per citare solo alcune delle cose portate in dono dalle antiche lesbiche e dai froci greci). Facciamo di ogni spazio uno spazio Lesbico e Gay. Di ogni strada una parte della nostra geografia sessuale. Una città di desiderio e poi di soddisfazione totale. Una città e un paese dove possiamo essere persone sicure e libere e altro ancora. Dobbiamo esaminare le nostre vite e capirne la parte migliore, vedere cosa è queer e cosa è etero, e disfarci degli scarti etero! Ricordatevi che c’è davvero poco tempo. E voglio essere un amante di ognuno di voi. L’anno prossimo marciamo tutti nudi e tutte nude.

Le sorelle forti hanno detto ai fratelli che ci sono due cose importanti da ricordare sulla rivoluzione imminente. La prima è che ci romperanno il culo. La seconda è che vinceremo.

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Sono arrabbiato. Sono arrabbiato per ogni volta che vengo condannato a morte da estranei che ripetono frasi del tipo: «Meriti di morire» oppure «l’AIDS è la cura». Furioso quando vedo una donna repubblicana che indossa vestiti e gioielli che costano migliaia di dollari muoversi tra le file della polizia scuotendo la testa, ridacchiando e puntando il dito verso di noi come se fossimo bambini recalcitranti che fanno richieste assurde e i capricci se queste richieste non vengono soddisfatte. Sono arrabbiato quando vedo Joseph che si ammazza per pagare l’Azidotimidina 8.000 dollari l’anno – potrebbe tenerlo in vita un po’ più a lungo ma lo fa stare peggio della malattia che gli è stata diagnosticata. Sono arrabbiato quando ascolto un uomo che mi racconta di aver cambiato il suo testamento cinque volte e di non avere praticamente più nessuno a cui lasciare qualcosa – tutti i suoi migliori amici sono morti. Sono arrabbiato ogni volta che mi trovo circondato da un mare di trapunte [1], ogni volta che partecipo a una marcia a lume di candela o all’ennesima cerimonia commemorativa. Non marcerò in silenzio con una fottuta candela in mano: voglio prendere quella maledetta trapunta e avvolgermici e voglio strapparla furiosamente, la coperta e i miei capelli, e maledire ogni dio che la religione abbia mai creato. Mi rifiuto di accettare una creazione che fa morire le persone nella terza decade della loro vita. È crudele e vile e senza senso e ogni parte di me inveisce contro l’assurdità della mia condizione: alzo il viso verso le nuvole e una risata sfinita che suona più demoniaca che gioiosa erompe dalla mia gola mentre le lacrime mi solcano il viso e se questa malattia non mi uccide potrei morire di frustrazione. I miei piedi marciano lungo la strada, le mani di Peter sono incatenate al banco di accettazione di una compagnia farmaceutica, l’addetta lo guarda con orrore, il corpo di Eric sta marcendo in un cimitero di Brooklyn e io non sentirò mai più il suo flauto risuonare contro le pareti della sala riunioni del quartiere. E vedo i vecchi al Tompkins Square Park raggomitolati nei loro lunghi cappotti di lana a giugno per tenere fuori il freddo invernale che ancora sentono e per aggrapparsi a quel poco che la vita ha ancora da offrire, e penso, ah, loro sanno. E mi viene in mente la gente che si spoglia e si mette davanti a uno specchio ogni sera prima di andare a letto e cerca sul proprio corpo un segno che ieri non c’era. Un segno che indichi che questo flagello ha fatto visita anche a loro. Sono arrabbiato quando i giornali ci chiamano “vittime”, quando lanciano l’allarme: “questa cosa” potrebbe presto contagiare “la popolazione intera”. E vorrei urlare: «E io cosa sarei?». E vorrei urlare contro il New York Hospital con i suoi sacchi di plastica gialli con la scritta “biancheria di isolamento”, “ropa infecciosa”, i suoi inservienti in guanti di lattice e maschere chirurgiche che costeggiano il letto come se il suo occupante potesse saltare fuori all’improvviso e cospargerli di sangue e sperma attaccando la peste anche a loro. E sono arrabbiato con le persone eterosessuali che se ne stanno tutte compiaciute avvolte nel cappotto che le protegge fatto di monogamia ed eterosessualità, sicure che questa malattia non le riguardi perché è qualcosa che succede solo a “loro”. E poi ci sono i ragazzi adolescenti che dopo aver visto la mia spilla con la scritta “Silenzio = Morte” iniziano a canticchiare “i froci moriranno” e mi chiedo, chi gli ha insegnato questo? Avvolto dalla furia e dalla paura, rimango in silenzio mentre questa spilla mi deride a ogni passo. E c’è la rabbia che provo quando un programma televisivo sulla trapunta dà i profili dei morti e la lista inizia con un bambino, una ragazza adolescente che ha fatto una trasfusione di sangue, un anziano ministro battista e sua moglie, e quando finalmente mostrano un uomo gay, viene descritto come qualcuno che ha consapevolmente infettato con il virus dei prostituti adolescenti. D’altronde, cos’altro ci si può aspettare da un frocio? Sono arrabbiato.

Si impara di più indossando un abito da donna per un giorno

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Fin dall’inizio dei tempi, il mondo è stato ispirato dal lavoro di artisti froci e queer. In cambio abbiamo avuto solo sofferenza, dolore, violenza. Nel corso della storia, la società ha stretto un patto con i suoi cittadini queer: devono perseguire carriere creative, ma devono farlo con discrezione. Nel campo delle arti, le checche sono produttive, fonte di guadagno, divertenti e persino edificanti. Sottoprodotti utili di ciò che altrimenti è considerato un comportamento antisociale. Nei circoli colti, le persone queer possono tranquillamente coesistere con un’élite di potere che altrimenti disapproverebbe la loro esistenza. In prima linea nell’ultima campagna per colpire gli artisti e le artiste queer c’è Jesse Helms, arbitro di tutto ciò che è decente, morale, cristiano e americano. Per Helms, l’arte queer rappresenta semplicemente una minaccia per il mondo. Nel suo immaginario, la cultura eterosessuale è semplicemente troppo fragile per sopportare di ammettere la diversità umana o sessuale. In breve, la struttura del potere nel mondo giudeo-cristiano ha fatto della procreazione la propria pietra angolare. Le famiglie con figli garantiscono consumatori per i prodotti della nazione e una forza lavoro per produrli, così come un sistema familiare incorporato per curare i suoi malati, riducendo la spesa dei sistemi sanitari pubblici. TUTTI I COMPORTAMENTI NON PROCREATIVI SONO VISTI COME UNA MINACCIA, dall’omosessualità al controllo delle nascite, all’aborto come opzione. Non è sufficiente, secondo la destra religiosa, pubblicizzare costantemente la procreazione e l’eterosessualità… è anche necessario distruggere qualsiasi alternativa. Non è certo l’arte ciò che Helms vuole attaccare… È LA NOSTRA VITA! L’arte è l’ultimo posto sicuro in cui lesbiche e uomini gay possono prosperare. Helms lo sa, e ha sviluppato un programma per privare le persone queer dall’unica arena in cui è stato permesso loro di contribuire a una cultura condivisa e collettiva. Helms difende un mondo privo di diversità o dissenso. È facile immaginare perché un mondo del genere sia più vantaggioso per chi è al potere. È facile anche immaginare come il paesaggio amerikano verrebbe appiattito da un tale potere. Helms dovrebbe semplicemente fare esplicita richiesta di ciò a cui per ora sta semplicemente alludendo: un’arte sponsorizzata dallo Stato, un’arte del totalitarismo, un’arte che parli solo in termini cristiani, un’arte che sostenga gli obiettivi di coloro che sono al potere, un’arte che si abbini perfettamente ai divani nello Studio Ovale. Chiedi quello che vuoi, Jesse, in modo che uomini e donne con una coscienza possano mobilitarsi – come si fa quando protestiamo le violazioni dei diritti umani in altri paesi – e lottare per liberare le persone dissidenti del nostro paese.

Che indossando un completo per il resto della tua vita

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Le persone queer sono sotto assedio. Le persone queer sono attaccate su tutti i fronti e temo che questo a noi in fondo stia bene. Anche nel 1969 le persone Queer sono state attaccate. Ma allora non andava bene. Le persone Queer hanno reagito, sono scese in strada. Nel 1990, ci sono stati 50 “Pestaggi Queer” nel solo mese di maggio. Attacchi violenti. Nello stesso mese sono morti di AIDS 3.720 uomini, donne e bambini, morti causati da un attacco ancor più violento, quello perpetrato dall’inazione del governo, radicata nella crescente omofobia della società. Questa è omofobia istituzionalizzata, ancor più pericolosa per le vite delle persone queer perché gli aggressori sono senza volto. Noi permettiamo questi attacchi con la nostra continua mancanza di azione contro di loro. L’AIDS ha colpito il mondo etero e ora ci incolpano dell’AIDS, lo usano per giustificare la loro violenza contro di noi. Non ci vogliono più. Ci picchieranno, ci violenteranno e ci uccideranno piuttosto che continuare a vivere con noi. Cosa deve accadere perché tutto ciò smetta di andarci bene? Provatela un po’ di rabbia. E se la rabbia non vi rende forti provate la paura. E se non funziona provate il panico.

Sii orgogliosa. Fai qualsiasi cosa tu abbia bisogno di fare per staccarti dal tuo abituale stato di accettazione. Sii una persona libera. Grida. Nel 1969, le persone Queer hanno reagito. Nel 1990, le persone Queer dicono ok. L’anno prossimo, ci saremo ancora?

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Odio Jesse Helms. Odio Jesse Helms così tanto che se cadesse a terra morto sarei felice. Se qualcuno lo uccidesse penserei che la colpa è sua. Odio anche Ronald Reagan, perché ha massacrato la mia gente per otto anni. Ma a essere onesto, lo odio ancora di più per aver elogiato Ryan White senza prima ammettere la sua colpa, senza chiedere perdono per la morte di Ryan e per la morte di decine di migliaia di altri lavoratori della pubblica amministrazione – la maggior parte dei quali erano queer. Lo odio per aver preso in giro il nostro dolore. Odio il fottuto Papa, e odio il fottuto Cardinale John O’Connor, e odio l’intera fottuta Chiesa Cattolica. Lo stesso vale per l’esercito, e specialmente per le forze dell’ordine degli Stati Uniti – i poliziotti – sadici protetti dallo stato che brutalizzano i travestiti di strada, le prostitute e i prigionieri queer. Odio anche le istituzioni mediche e di salute mentale, in particolare lo psichiatra che mi ha convinto a non fare sesso con gli uomini per tre anni fino a quando non saremmo riusciti (o meglio, lui sarebbe riuscito) a rendermi una persona bisessuale anziché queer. Odio anche il sistema scolastico, per la responsabilità che ha nei confronti di migliaia di adolescenti queer che si suicidano ogni anno. Odio il mondo dell’arte “rispettabile”; e l’industria dello spettacolo, e i media mainstream, specialmente il New York Times. In effetti, odio ogni settore dell’establishment etero di questo paese – i peggiori vogliono attivamente la morte di tutte le persone queer, i migliori non fanno nulla che possa aiutarci a rimanere in vita. Odio gli etero che pensano di avere qualcosa di intelligente da dire sull’outing. Odio gli etero che pensano che le loro storie siano “universali” e che le nostre riguardino solo l’omosessualità. Odio gli artisti discografici etero che fanno carriera sulle persone queer e poi ci attaccano, si mostrano offesi quando ci arrabbiamo e infine negano di averci fatto un torto anziché scusarsi. Odio gli etero che dicono: «Non capisco perché senti il bisogno di indossare quelle spille e quelle magliette. Io non vado in giro a dire al mondo intero che sono etero». Odio che in dodici anni di scuola pubblica non mi sia mai stato insegnato nulla sulle persone queer. Odio il fatto che sono cresciuto pensando di essere l’unica persona queer al mondo, e odio ancora di più il fatto che la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze queer crescono ancora allo stesso modo. Odio il fatto di essere stato tormentato dagli altri bambini perché ero un frocio, ma soprattutto che mi è stato insegnato a vergognarmi di essere l’oggetto della loro crudeltà, a sentire che la colpa era mia. Odio che la Corte Suprema di questo paese dica che va bene criminalizzarmi a causa di come faccio l’amore. Odio che così tanti etero siano così preoccupati della mia maledetta vita sessuale. Odio che così tanti etero disturbati diventino genitori, mentre io devo lottare come un dannato per avere il permesso di essere padre. Odio gli etero.

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L’invisibilità è responsabilità nostra

Indosso il mio triangolo rosa ovunque. Non abbasso la voce in pubblico quando si parla di amore lesbico o di sesso lesbico. Lo dico sempre alla gente che sono lesbica. Non aspetto che mi si chieda del mio “ragazzo”. Non rispondo che “sono affari miei”. Non lo faccio per gli etero. La maggior parte di loro neanche conosce il significato del triangolo rosa che indosso ogni giorno. Alla maggior parte di loro non potrebbe importare di meno se io e la mia ragazza siamo follemente innamorate o se invece stiamo litigando in mezzo alla strada. La maggior parte di loro non ci nota, qualsiasi cosa facciamo. Faccio quello che faccio per comunicare con altre lesbiche. Faccio quello che faccio perché non voglio che le lesbiche pensino che sono una ragazza etero. Sono allo scoperto (out) tutto il tempo, ovunque, PERCHÉ VOGLIO COMUNICARE CON TE. Forse mi noterai, forse inizieremo a parlare, forse diventeremo amiche. Forse non ci diremo una parola ma i nostri sguardi si incroceranno e ti immaginerò nuda, sudata, a bocca aperta, la schiena inarcata come se ti stessi scopando. E saremo contente di sapere che non siamo le uniche al mondo. Saremo contente perché ci siamo incontrate, trovate, anche senza parole, forse anche per un momento soltanto. Ma no. Non indosserai un triangolo rosa su quel bavero di lino. Non incrocerai il mio sguardo se mi metto a flirtare con te per strada. Mi eviti sul lavoro perché sono “troppo” allo scoperto. Mi rimproveri nei bar perché sono “troppo politica”. Mi ignori in pubblico perché richiamo “troppa” attenzione con il “mio” lesbismo. Ma poi vuoi che sia la tua amante, vuoi che sia la tua amica, vuoi che ti ami, che ti sostenga, che lotti per il “NOSTRO” diritto a esistere.

DOVE SEI?

Parli, parli e straparli dell’invisibilità e poi ti ritiri nella tua casetta a nidificare con il tuo amoruccio o in un locale con le amiche, torni a casa brilla in un taxi oppure rimani educatamente seduta in silenzio mentre la tua famiglia, il tuo capo, i tuoi vicini, i funzionari pubblici del tuo quartiere distorcono e sfigurano le nostre vite, ci deridono e ci puniscono. Torni a casa e hai voglia di urlare. Smorzi la rabbia con una relazione o una carriera o una festa con altre che sono lesbiche come te e ancora ti chiedi perché non riusciamo a trovarci, perché ti senti sola, arrabbiata, alienata.

ALZATEVI E SVEGLIATEVI, SORELLE!!

La vostra vita è nelle vostre mani. Quando rischio tutto per vivere allo scoperto, è un rischio che corro per entrambe. Quando rischio tutto e funziona (e spesso funziona se ci provi), io ci guadagno e anche tu. Quando non funziona, io soffro e tu no. Ma, ragazza, non puoi startene ad aspettare che altre lesbiche rendano il mondo sicuro per te. SMETTILA di aspettare l’arrivo di un futuro migliore e più lesbico! La rivoluzione potrebbe essere già qui, se solo la iniziassimo. Dove siete sorelle? Vi sto cercando, sto provando a trovarvi. Come mai vi incrocio solo il giorno del Pride? Oramai siamo uscite allo scoperto, siamo FUORI. VOI, dove cazzo siete?
 
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Una folla di 50 persone esce da un locale gay al momento della sua chiusura. Dall’altra parte della strada, alcuni ragazzi etero gridano «froci» e lanciano bottiglie di birra al gruppo, che però è più numeroso – sono dieci a uno. Tre persone queer provano a rispondere all’attacco, senza ottenere alcun sostegno da parte del gruppo. Com’è possibile che un gruppo di queste dimensioni si permette di non reagire? Tompkins Square Park, primo maggio. All’annuale concerto/spettacolo drag che si tiene all’aperto un gruppo di uomini gay è stato molestato da adolescenti che brandivano dei bastoni. In mezzo a migliaia di uomini gay e donne lesbiche, questi ragazzi etero hanno picchiato e fatto cadere a terra due uomini gay, poi sono rimasti lì a ridere sfacciati. Il cantante è stato informato del fatto e ha avvertito la folla dal palco: «Voi ragazze state attente. Quando vi vestite carine i ragazzi impazziscono», come se si trattasse di uno scherzo causato da come erano vestite le vittime e non di un attacco mirato a chiunque e a tutte le persone presenti all’evento. Cosa ci sarebbe voluto perché quella folla si difendesse dai suoi aggressori? Dopo che James Zappalorti, un uomo apertamente gay, è stato ucciso a sangue freddo a Staten Island quest’inverno, si è tenuta un’unica manifestazione di protesta. Si sono presentate appena un centinaio di persone. Quando Yusef Hawkins, un giovane nero, è stato ucciso a colpi di pistola perché si trovava in “territorio bianco” a Bensonhurst, gli afroamericani hanno marciato nel quartiere in gran numero e più volte. Una persona nera è stata uccisa PERCHÉ ERA NERA: le persone di colore in tutta la città ne hanno preso atto e hanno agito di conseguenza. Il proiettile che ha colpito Hawkins era destinato a un uomo nero, a QUALSIASI uomo nero che passava per strada. La maggior parte dei gay e delle lesbiche pensano forse che il coltello che ha perforato il cuore di Zappalorti fosse destinato solo a lui? Il mondo etero ci ha talmente convinti di essere vittime impotenti e meritevoli della violenza contro di noi, che le persone queer si immobilizzano di fronte a una minaccia. INDIGNATI! Questi attacchi non devono essere tollerati. FAI QUALCOSA. Devi riconoscere che ogni atto di aggressione contro un qualsiasi membro della nostra comunità è un attacco contro tutti e tutte noi. Più permettiamo agli omofobi di infliggere violenza, terrore e paura nelle nostre vite, più frequentemente e ferocemente saremo oggetto del loro odio. Il tuo corpo non può essere ridotto a bersaglio della violenza altrui. Il tuo corpo merita di essere protetto. Hai il diritto di difenderlo. Non importa quello che ti dicono, il tuo essere queer deve essere difeso e rispettato. È meglio che impari che la tua vita ha un valore incommensurabile, perché se non cominci a crederci te la toglieranno facilmente. Se sai come immobilizzare delicatamente ed efficacemente il tuo aggressore, devi farlo assolutamente. Se non sei in grado, allora pensa a cavargli gli occhi, a fargli salire il naso nel cervello, a tagliargli la gola con una bottiglia rotta – fai qualcosa, qualsiasi cosa, fai quello che devi, per salvarti la vita!

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È proprio necessario usare questa parola? È un problema (trouble). Ogni persona gay vede la cosa a suo modo. Per alcuni “queer” significa strano, eccentrico, in qualche modo misterioso. Va bene; ci piace. Però non piace ad alcune ragazze e ragazzi gay. Loro pensano di essere più normali che strani o strane. Per altri la parola “queer” evoca ricordi terribili legati alla sofferenza che hanno provato da adolescenti. Queer. Nel migliore dei casi è qualcosa di agrodolce e bizzarro, per forza. Nel peggiore dei casi indebolisce e fa male. Non potremmo dire “gay”? È una parola molto più solare. E non è forse sinonimo di “felice”? Quand’è che voi militanti crescerete e la farete finita di pensare che essere diversi sia una novità?

In effetti “gay” è fantastico. Ci sono buoni motivi per dire “gay”. Ma molte lesbiche e molti uomini gay si svegliano la mattina e si sentono persone arrabbiate, disgustate, non “felici”. Così abbiamo scelto di chiamarci queer. Dire “queer” è un modo per ricordare a noi stessi come veniamo percepiti dal resto del mondo. È un modo per dire a noi stesse che non per forza dobbiamo essere persone spiritose e affascinanti che vivono vite discrete ed emarginate in un mondo etero. Usiamo queer in quanto gay che amano le lesbiche e in quanto lesbiche che amano essere queer. Queer, a differenza di GAY, non è MASCHILE. E quando diciamo queer ad altri gay e ad altre lesbiche è un modo per indicare che dobbiamo serrare i ranghi e dimenticare (momentaneamente) le nostre differenze individuali, perché stiamo fronteggiando un nemico comune più insidioso. Sì, QUEER sarà pure una parola grezza, ma è anche un’arma astuta e ironica che possiamo rubare dalle mani dell’omofobo per usarla contro di lui.

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Chiunque dica che il coming out non fa parte della rivoluzione non sta cogliendo il punto. Le immagini sessuali positive, con tutto ciò che rendono visibile, salvano vite, perché sono affermative nei confronti di queste vite e permettono di provare a condurre la propria esistenza amandosi, non odiandosi. Come il famoso slogan “nero è bello” (Black is beautiful) ha cambiato molte vite, così “leggi le mie labbra” (Read my lips [2]) afferma la queerness contro l’odio e l’invisibilità che si traducono in morte, come dimostrato da un recente studio governativo sui suicidi in cui si afferma che almeno un terzo di tutti i suicidi tra adolescenti riguarda ragazzi e ragazze queer. Un dato confermato dall’aumento della trasmissione dell’HIV tra coloro che hanno meno di 21 anni. Come queer siamo odiati e odiate perlopiù a causa della nostra sessualità, per il nostro contatto fisico con lo stesso sesso. La nostra sessualità e la nostra espressione sessuale sono ciò che ci rende più esposti alla violenza fisica. La nostra differenza, la nostra alterità, la nostra unicità può paralizzarci o politicizzarci. Dobbiamo sperare che la maggioranza di noi non permetterà che ci uccida.

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Per quale motivo lasciamo entrare gli eterosessuali nei locali per queer? Chi se ne frega se gli piacciamo perché “siamo bravissimi a fare festa”. LO SIAMO PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI SCARICARE LA TENSIONE CHE CI IMPONGONO! Si baciano dove vogliono, e occupano troppo spazio sulla pista da ballo, lanciandosi in ostentati balli di coppia. Indossano la loro eterosessualità come un cartello che dice “non entrare”, o come fosse un contratto di proprietà. Perché cazzo li tolleriamo quando invadono il nostro spazio come se fosse un loro diritto? Perché lasciamo che ci sbattano l’eterosessualità in faccia – un’arma che il loro mondo usa contro di noi – nei pochi posti pubblici dove possiamo essere sexy l’uno con l’altro senza temere di essere aggrediti? È ora di smettere di lasciare che siano gli etero a dettare tutte le regole. Cominciamo con l’affiggere questo cartello fuori da ogni locale e bar queer:

1) Mantieni al minimo le tue manifestazioni d’affetto (baci, strette di mano, abbracci). La tua sessualità è indesiderata e offensiva per molti qui.

2) Se devi ballare un lento, sii il meno appariscenti possibile.

3) Non guardare o fissare le lesbiche e i gay, specialmente le lesbiche mascoline e le drag queen. Non siamo il tuo intrattenimento.

4) Se non riesci a tollerare che qualcuno del tuo stesso sesso ci provi con te, allora esci.

5) Non mettere in mostra la tua eterosessualità. Sii discreto. Rischi di essere scambiata per un lesbica o per un omosessuale.

6) Se pensi che queste regole siano ingiuste, vai a combattere l’omofobia nei locali etero, oppure

7) Vai a farti fottere.

Ho degli amici e alcuni di loro sono etero. Anno dopo anno, vedo i miei amici etero. Voglio incontrarli, per sapere come stanno, per aggiungere novità alle nostre lunghe e complicate storie, per sperimentare una certa continuità. Anno dopo anno continuo a rendermi conto che i fatti della mia vita sono irrilevanti per loro e che mi ascoltano solo a metà, che sono semplicemente un’appendice di quello che succede in un mondo più grande, un mondo di potere e privilegi, in cui è la maggioranza a dettare legge, un mondo di esclusione. «Non è vero», sostengono i miei amici etero. C’è un’unica certezza nella politica del potere: coloro che ne sono esclusi implorano una maggiore inclusività, mentre chi è già “dentro”, chi ha potere, non cessa di ripetere a chi sta fuori che è già incluso. Gli uomini lo ripetono alle donne, i bianchi lo dicono ai neri e tutti lo fanno con le perone queer. La principale linea di demarcazione, sia conscia che inconscia, è la procreazione… quella parola magica: Famiglia. Spesso, quella in cui siamo nati e cresciuti ci disconosce quando scopre chi siamo veramente, e per peggiorare le cose, ci viene impedito di averne una nostra. Siamo puniti, insultati, tagliati fuori, e trattati come sediziosi quando si tratta di avere figli, dannati se ci proviamo e dannati se ci asteniamo. È come se la propagazione della specie fosse una direttiva talmente fragile che se non venisse implementata come fosse un’agenda politica il genere umano si scioglierebbe di nuovo nella brodaglia primordiale. Odio dover convincere gli etero che lesbiche e gay vivono in una zona di guerra, che siamo circondati da esplosioni di bombe che solo noi sembriamo sentire, che i nostri corpi e le nostre anime sono ammassati, morti di paura, picchiati o violentati, mentre moriamo di dolore o di malattia, spogliati della nostra personalità. Odio gli etero che non sono in grado di ascoltare la rabbia dei queer senza dire «ehi, non tutti gli etero sono così. Anch’io sono etero, sai», come se il loro ego non venisse accudito o protetto abbastanza in questo arrogante mondo eterosessista. Perché dovremmo prenderci cura di loro, con tutta la rabbia, giusta, che abbiamo, causata dalla società, la loro, che è completamente incasinata? Perché aggiungere rassicurazioni del tipo «certo, non mi riferisco a te. Tu non ti comporti così». Lasciamo che capiscano da soli se meritano o meno di essere inclusi dalla nostra rabbia. Il punto è che questo significherebbe ascoltare la nostra rabbia, cosa che non fanno quasi mai. La dirottano e la schivano, dicono «io non sono così», oppure «ora sei tu che generalizzi», o ancora «non si ottiene niente con le maniere forti…» o «se ti concentri sul lato negativo, gli stai dando potere», o «non sei l’unica persona al mondo a soffrire». Dicono «non urlarmi contro, sono dalla tua parte» o «secondo me stai esagerando» oppure «RAGAZZO, SEI TROPPO RANCOROSO». Ci hanno insegnato che le brave persone queer non si arrabbiano. Ce l’hanno hanno insegnato così bene che non solo dobbiamo nascondere la nostra rabbia a loro, ma anche nascondercela fra di noi, occultandocela l’un l’altro. LA NASCONDIAMO ANCHE A NOI STESSI. La nascondiamo con l’abuso di sostanze, con il suicidio e con il perfezionismo – provando a dimostrare quanto valiamo. Ci picchiano e ci pugnalano e ci sparano e ci bombardano in numero sempre maggiore eppure continuiamo a spaventarci ogni volta che le persone queer arrabbiate portano striscioni o cartelli con scritto “RESTITUISCI IL COLPO” (Bash Back). Nell’ultimo decennio ci hanno lasciato morire in massa e noi ancora ringraziamo il presidente Bush per aver piantato un cazzo di albero, lo applaudiamo per aver paragonato le persone sieropositive alle vittime di incidenti d’auto che si rifiutano di indossare le cinture di sicurezza. PERMETTITI DI ESSERE ARRABBIATO. Permettiti di essere arrabbiato. Permettiti di essere arrabbiato per il fatto che il prezzo della visibilità sia una costante minaccia di violenza, una violenza anti-queer a cui contribuisce praticamente ogni segmento di questa società. Permettiti di sentirti arrabbiato per il fatto che NON C’È POSTO IN QUESTO PAESE DOVE SIAMO AL SICURO, nessun posto in cui non siamo presi di mira dall’odio e dagli attacchi, dall’odio di sé, dalle tentazioni di suicidio – che avvengono in segreto (of the closet). La prossima volta che qualche etero ti rimprovera di essere arrabbiato, digli che finché le cose non saranno cambiate, non hai bisogno di altre prove del fatto che il mondo continua a girare a scapito tuo. Non hai bisogno di vedere solo coppie etero che fanno la spesa in TV… Non vuoi più che le foto di bambini ti vengano sbattute in faccia finché non puoi avere o tenere il tuo. Niente più matrimoni, feste, anniversari, per favore, a meno che non siano i nostri stessi fratelli e sorelle a festeggiare. E digli che non ti possono liquidare con «anche tu hai diritti», «anche tu sei privilegiato», «stai esagerando» o «hai la mentalità di una vittima». Dì loro: «STATE ALLA LARGA DA ME, fino a quando VOI non sarete cambiati». State alla larga, poi vediamo com’è vivere in un mondo senza il coraggio e la forza delle persone queer che sono la spina dorsale di questo mondo, che sono le sue budella e il suo cervello e la sua anima. Dì loro di stare alla larga fino a quando non avranno trascorso un mese a camminare mano nella mano in pubblico con qualcuno dello stesso sesso. Quando saranno sopravvissuti a questo, solo allora, ascolterai cos’hanno da dire sulla rabbia delle persone queer. Altrimenti, dì loro di tenere chiusa la bocca e ascoltare.

(giugno 1990)

[1] La trapunta (The Quilt) è simbolo delle lotte della comunità gay e queer negli Stati Uniti. Nel 1985 l’attivista Cleve Jones chiese ai partecipanti della marcia annuale che si teneva a san Francisco dal 1978 per ricordare l’uccisione di due politici gay di portare dei cartelli con i nomi di quanti erano morti di AIDS. I cartelli vennero poi affissi all’edificio federale di San Francisco, creando l’effetto visivo di una trapunta. Da questo episodio nacque l’idea di creare un memoriale che ricordasse le vittime di AIDS, la NAMES Project AIDS Memorial Quilt, esposto per la prima volta nel 1987 a Washington.

[2] Gran Fury, un collettivo di artisti vicino a ACT UP alla fine degli anni ‘80, si appropriò di una frase della campagna elettorale del presidente George H.W. Bush “Read my lips: no new taxes” e la usò per creare una serie di poster che diventarono iconici: in uno la frase “Read My Lips” è sovraimposta all’immagine in bianco e nero di due uomini in uniforme militare che si abbracciano e si baciano. Questi manifesti originariamente servivano come volantini per un kiss-in queer sulla Sixth Avenue per dimostrare che l’HIV non si trasmette con un bacio.

Versione originale del manifesto consultabile qui

Qui la versione in pdf della traduzione italiana:

Nota sull’uso delle desinenze (a cura di Lorenzo Bernini): Gli anni Novanta furono anche gli anni in cui, all’interno delle comunità trans* statunitensi e internazionali, si diffuse il termine “transgender” (in italiano “transgenere”) per indicare quelle soggettività che non si riconoscono nella definizione medica della transessualità, che al tempo era ancora informata da una concezione rigidamente binaria dei sessi e delle identità (Transgender Liberation di Leslie Feinber esce nel 1992). Si attivò così quel processo di sperimentazione linguistica che ha condotto a una proliferazione di nuovi indicatori identitari, o controidentitari, come “gender questioning”, “gender fluid”, “agender”, “non-binary”, e anche “genderqueer” (o semplicemente “queer”), … che offrono oggi nuove possibilità di libertà nella definizione di sé. In questa introduzione, si sarà notato, nel tentativo di usare un linguaggio inclusivo, ho tuttavia preferito utilizzare la doppia formula maschile/femminile (o viceversa) allə schwa (ə, appunto) propostə da Vera Gheno per indicare al tempo stesso soggettə femminili, maschili e non binariə, che so essere talvolta utilizzatə anche su “DINAMOpress”. Perché? Non certo perché non si tratta ancora di un uso ufficiale della lingua italiana: le lingue evolvono, è bene sperimentare per essere maggiormente inclusivə, e in altre occasioni (anche adesso) volentieri utilizzo lə schwa. In questo caso, tuttavia, se l’uso del maschile sovraesteso mi è parso – come sempre – da evitare, mi è sembrato al tempo stesso importante utilizzare anche desinenze femminili per sottolineare qualcosa che per moltə è scontato, ma di sicuro non per tuttə: che di fronte a questioni come la pandemia di AIDS, il femminismo, le alleanze tra soggettività differenti nei movimenti LGBTQI+, e in genere nelle politiche della sessualità, riconoscersi nell’identità maschile o in quella femminile fa differenza. Anche se la lingua inglese non è segnata dal genere allo stesso modo dell’italiano, nello stesso manifesto di Queer Nation vi è, ad esempio, una chiara distinzione tra paragrafi scritti da e per soggetti maschili (gay, faggot) e soggette femminili (lesbiche), con poi la dovuta attenzione alle loro espressioni di genere non conformi alla norma (i gay che vestono “abiti da donna”, le lesbiche “troppo visibili” perché butch). Mi sembrava, insomma, che lə schwa potesse far correre a questo testo il rischio di un’eccessiva neutralizzazione. In ogni caso, nel mio uso della doppia formula, maschile e femminile non devono essere intesi come indicanti soltanto persone cisgenere, e lo slash che li separa deve essere inteso in un senso massimamente inclusivo, come indicante tutte quelle soggettività che si posizionano tra il maschile e il femminile, oppure altrove.

*Lorenzo Bernini è attivista e teorico queer. Insegna Filosofia politica e sessualità, e anche altri corsi, presso l’Università degli Studi di Verona. Il suo ultimo libro s’intitola Il sessuale politico: Freud con Marx, Fanon, Foucault (Edizioni ETS, 2019)

Traduzione dall’inglese di Francesco Brusa ed Emma Catherine Gainsforth per DINAMOpress

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