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EDITORIALE

Niente può giustificare tutto questo. Fermiamo la pulizia etnica israeliana

L’invasione della striscia di Gaza da parte delle forze israeliane non è un impasse, è il via libera per la definitiva pulizia etnica dei territori occupati palestinesi e il sostegno internazionale a Netanyahu ci rende complici del genocidio preannunciato. Non c’è giustificazione per l’uccisione indiscriminata di civili e bambini in nessun caso e da parte di nessuno. È necessario chiedere la cessazione dell’offensiva genocida israeliana, la fine dell’occupazione israeliana e la fine dell’apartheid, costruire spazi di dibattito che prescindano la narrazione mainstream di polarizzazione tra Hamas/Governo israeliano, contestualizzando storicamente gli avvenimenti e promuovere risposte di pace

Al momento in cui scriviamo questo editoriale tutti gli elementi indicano una probabile e imminente invasione di terra della porzione settentrionale della Striscia di Gaza in cui fino a un paio di giorni fa viveva oltre un milione di palestinesi, i quali sono stati invitati, “per la loro sicurezza”, a lasciare la propria terra. Parole che risuonano nella memoria del popolo palestinese, ricordando la Nakba del 1948, in cui lo Stato di Israele prese forma con la violenza, deportando oltre 750.000 palestinesi dalle loro case. La “catastrofe” che si riproduce, che dai ricordi si concretizza nel presente. Difficile riuscire a immaginare che una volta occupata, e distrutta, la metà settentrionale della Striscia, compresa Gaza City, il più grande centro abitato, Israele decida di ritirarsi. Non lo ha fatto dalla Cisgiordania, occupata sin dalla guerra dei Sei Giorni nel 1967 (che costrinse all’esodo altri 350.000 profughi), probabilmente non lo farà adesso. D’altronde, l’occupazione di metà Striscia di Gaza non è altro che un ulteriore tassello del progetto a lungo termine perseguito dall’estrema destra israeliana, ora maggioritaria nel paese: la definitiva pulizia etnica dei territori occupati.

E nonostante l’indicazione di corridoi di esodo sicuri (!), l’aviazione israeliana non si è astenuta dal bombardare carovane di civili in marcia verso sud, provocando decine di morti. L’ordine di auto-deportazione forzata impartito da Israele si inserisce in un’offensiva senza precedenti contro la Striscia di Gaza. Oltre 2.000 morti, di cui oltre 700 bambini, in una settimana, 400.000 sfollati, decine di palazzi residenziali ridotti in macerie, una quantità di bombe sganciate da Israele (6.000 nei primi sei giorni) pari quasi al numero di ordigni che la NATO annualmente sganciava sull’Afghanistan (circa 7.500, come ha fatto notare Marc Garlasco, ex-investigatore ONU per i crimini di guerra). Un attacco alla popolazione civile che ha riguardato anche giornalisti, ambulanze, medici e strutture ospedaliere (14 le cliniche distrutte) le quali sono in estrema sofferenza a causa del blocco di acqua, cibo, luce e carburante che le autorità israeliane hanno imposto dal 9 ottobre. Una misura «illegale e disumana» (Amnesty International) che, in quanto punizione collettiva, si configura senza dubbio come un crimine contro l’umanità.

Niente può giustificare tutto questo. Nulla può giustificare la pulizia etnica che sta avvenendo in Palestina.

Eppure da una settimana tutti i media, i politici e i capi di governi occidentali (con alcune rare eccezioni) si adoperano per manifestare il sostegno allo Stato di Israele, con tanto di passerelle mediatiche a Tel Aviv e/o nel sud di Israele colpito dall’attacco terroristico di Hamas. Dai capi di stato e ministri degli esteri europei, alle presidenti della Commissione e del Parlamento Europeo, al segretario di Stato Antony Blinken. Il disco rotto che viene ripetuto da tutto l’Occidente a sostegno delle politiche del Governo Netanyahu è “il diritto di Israele all’ auto-difesa”, in nome del quale, di fatto, tutto è permesso. Numerose personalità politiche hanno addirittura sostenuto la legittimità dell’embargo totale di Gaza, in modo esplicito come il leader del Labour Keir Starmer o partecipando a conferenze stampa esprimendo l’incondizionato sostegno a Israele, come nel caso di Blinken e Ursula Von der Leyen. Riguardo a quest’ultima vale la pena sottolinearne l’imbarazzante ipocrisia. Mentre giusto un anno fa, il 19 ottobre 2022, definiva, giustamente, il taglio di elettricità, acqua e gas alla popolazione ucraina da parte di Putin un crimine di guerra, non ha avuto la decenza umana di pronunciare una sola parola di condanna dell’embargo israeliano.

Dopo un anno in cui i fari dell’Occidente riguardo all’invasione russa dell’Ucraina sono stati il rispetto del diritto internazionale e la denuncia dell’occupazione dei territori ucraini, improvvisamente questi criteri di lettura dei conflitti perdono la loro legittimità nel momento in cui uno degli attori in campo è Israele, il quale – ricordiamo – viola numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, inclusa la 242 che chiede l’immediato ritiro dai territori occupati nel 1967.

Un doppio standard francamente inaccettabile anche alla luce del fatto che il diritto di Israele all’autodifesa non si può applicare nei confronti delle popolazioni oppresse da Israele stesso e la cui terra è sotto occupazione israeliana da decenni, come correttamente sottolineato dalla Relatrice Speciale dell’ONU per i territori palestinesi occupati Francesca Albanese.

Nel nostro paese, mentre i media, con poche meritorie eccezioni, hanno superato ogni manifestazione di servile fanatismo atlantico sul tipo di quello sfoggiato durante la guerra in Ucraina, con punte incommentabili di fanatismo suprematista e perfino con accenti genocidi, il governo, o almeno il suo ministro degli Esteri, ha dimostrato maggior cautela, preoccupati per i contraccolpi mediorientali e africani di una crisi mondiale, la cui immediata ricaduta sui prezzi e la disponibilità di petrolio e gas vanno in controtendenza alla questua fossile che Meloni va conducendo lungo tutto l’orbe terraqueo.

Contemporaneamente, si è aperta una crisi all’interno della Ue, fra l’ala “americana” e incondizionatamente filo-israeliana capeggiata dalla citata Von der Leyen, con i suoi alleati  est-europei, l’appoggio esterno inglese e la sospetta sponsorizzazione di Meloni, e uno schieramento più autonomo rispetto a Usa e Israele, comprendente Francia, Germania e Spagna, di cui si è fatto interprete Borrell, alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione, che ha preso posizione contro l’estensione del conflitto e l’infame assedio di Gaza. Meloni ha preferito giocare le sue carte in tale contesto (specialmente dopo aver perso l’illusione di un cambio di maggioranza europeo dopo il voto in Spagna e in Polonia), scegliendo la prospettiva di un inserimento subalterno nella maggioranza attuale, sub Ursula, piuttosto che la leadership di un poco probabile fronte alternativo fra democristiani e conservatori “rispettabili” senza i socialisti. La sua visita in Sinagoga ha però lo stesso tono falso del pellegrinaggio a Tunisi.

Un ulteriore elemento che spesso emerge nella narrazione mainstream per sostenere l’offensiva genocida israeliana è l’equiparazione fra Hamas e il terrorismo islamico al-Qaedista e fra Hamas e l’Isis. Questi paralleli, non sostanziati dal punto di vista storico e ideologico, rivelano in realtà l’intenzione di inscrivere l’attacco israeliano alla Striscia di Gaza in uno scenario di guerra che tenti di rimuovere l’evidente asimmetria in campo e in uno scontro di civiltà: la democrazia contro la barbarie. Uno schema già visto nel post 11 settembre e da respingere in toto, viste le centinaia di migliaia di morti e la destabilizzazione dell’area mediorientale che le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno provocato.

Non c’è dubbio dal nostro punto di vista che l’attacco di Hamas del 7 ottobre è un attacco terroristico. Non c’è giustificazione per l’uccisione indiscriminata di civili e bambini.

Tutte le considerazioni che si possono e si devono poter fare (il cattivo gusto, a dir poco, di fare un festival a pochi chilometri da una prigione a cielo aperto quale Gaza ad esempio) non possono cambiare la netta presa di posizione contro l’attacco di Hamas, per la quale non nutriamo nessuna simpatia essendo un’organizzazione integralista il cui scopo ultimo non è la liberazione del popolo palestinese in un’ottica di giustizia e uguaglianza. I civili palestinesi esistono. Così come esiste una parte, seppur minoritaria nella società israeliana, che lotta per la fine dell’occupazione. A partire dal centro di informazione per i diritti umani nei territori occupati B’Tselem, che ha definito il regime imposto dagli israeliani ai palestinesi come un regime di apartheid e il quotidiano Haaretz che ha scritto negli ultimi giorni editoriali che ascrivono la responsabilità di quanto successo alla classe politica israeliana. Questa parte politica uscirà ancor più malconcia da questa guerra, che inevitabilmente farà emergere con ancor più forza le posizioni estremistiche da una parte e dall’altra. Peraltro, tra gli uccisi di Hamas ci sono proprio persone contro l’occupazione, e risulta ancora dispersa (e probabilmente tra i rapiti) Vivian Silver, che ha dedicato la vita alla pace nella regione. Non c’è quindi  da parte nostra nessuna accondiscendenza verso l’attacco di Hamas.

È necessario inserire l’azione di Hamas in un contesto storico. È infatti inaccettabile la richiesta a chiunque prenda parola sul genocidio palestinese ad opera di Israele di prendere posizione a partire da quanto successo il 7 ottobre, e il 7 ottobre solamente (che, come già ribadito, non giustifica comunque, in nessun modo, la pulizia etnica messa in pratica successivamente da Netanyahu).

Come se la storia di questa area del mondo iniziasse quel giorno e qualunque tentativo di approfondirne le cause, di storicizzare e di contestualizzare gli eventi sia colpevole di “relativismo” con lo scopo di smussare il giudizio sulle atrocità compiute da Hamas. L’inquadramento storico è quanto mai necessario proprio per affermare invece diritti inviolabili assoluti, quali la vita, la libertà, l’uguaglianza e la dignità della persona. Diritti che non hanno colore o etnia e che affermano che le vite palestinesi non valgono meno delle vite israeliane. Così come la contestualizzazione storica e politica è l’unico processo in grado di individuare percorsi per una pace giusta. È indubbio quindi, guardando a quanto accade oggi, che il primo responsabile della crisi odierna in Palestina è il regime di occupazione e di apartheid israeliano e la continua costruzione di nuove colonie in Cisgiordania. La distruzione e l’occupazione delle case palestinesi da parte dei coloni, i pogrom degli stessi coloni in Cisgiordania protetti dall’esercito israeliano. Le incursioni di quest’ultimo nei campi profughi e l’uccisione indiscriminata di civili palestinesi.

La detenzione di massa dei palestinesi, inclusi i minori (ogni anno vengono imprigionati fra 500 e 1000 minori). Le operazioni di distruzione di massa a Gaza nel corso degli anni (2004, 2008, 2014, 2018 e 2021) facendo anche ricorso, allora come oggi, alle bombe al fosforo bianco. Le migliaia di civili uccisi nel corso di  atti di resistenza violenta e non violenta quali, ad esempio, la grande marcia del ritorno presso i confini di Gaza nel 2018. E contestualizzare il corso degli eventi significa anche riconoscere l’impossibilità di comprendere fino in fondo, dal nostro punto di osservazione privilegiato, cosa voglia dire nascere, vivere e crescere a Gaza o in Cisgiordania, sotto l’umiliazione e la disumanizzazione quotidiana perpetrata dall’occupazione israeliana. Non deve forse stupire quindi che in questo quadro Hamas si sia rafforzato e affermato nella Striscia di Gaza e, stia crescendo  in Cisgiordania, risultato anche della corruzione e della collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese con i governi israeliani.

È soltanto a partire da questa contestualizzazione storica che possiamo provare a immaginare quale potrebbe essere il nostro contributo per la difesa, la liberazione e l’auto-determinazione del popolo palestinese. È necessario costruire spazi di dibattito e di mobilitazione sempre più larghi e inclusivi con poche, ma chiare, rivendicazioni che investano le varie situazioni storicamente determinate dalla nascita dello Stato di Israele: l’immediata cessazione dell’offensiva genocida israeliana, la fine dell’occupazione israeliana e del regime onniestensivo di apartheid, e il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

Solo da questi punti fondamentali è possibile tracciare un percorso che ambisca a raggiungere una pace giusta e duratura in Palestina, dove palestinesi ed israeliani possano vivere con eguali diritti. Una piattaforma rivendicativa con queste indicazioni consentirebbe inoltre di non essere schiacciati fra l’irricevibile polarizzazione Hamas/Governo israeliano che la narrazione politico-mediatica sta costruendo per limitare l’agibilità democratica delle piazze, mettendo in difficoltà l’incondizionato sostegno del nostro governo al genocidio israeliano, di cui siamo complici anche attraverso la messa a disposizione della base di Sigonella per il ponte aereo americano che sta fornendo a Netanyahu il materiale con cui portare a termine la pulizia etnica della Palestina. 

Immagine di copertina Wikimedia Commons, Gaza 10 October 2023