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Nella passione del vortice

Nel tentativo di portare l’esperienza oltre i limiti del trascendentalismo e del soggetto, Tommaso Tuppini nel suo ultimo libro conduce un viaggio attraverso le molte figure concettuali del vortice. Per una filosofia che prenda congedo da un mondo dove tutte le cose sono al loro posto e che si disperda invece nei flussi del vuoto e dell’informe

Ora piccoli uccelli volarono stringendo sul vortice ancora aperto. Un tetro frangente biancastro urtò contro i suoi bordi ripidi. Poi tutto crollò, e il gran sudario d’acqua tornò a mareggiare come aveva fatto cinquemila anni fa.

– Herman Melville, Moby Dick

 

Paradossalmente il pensiero ha emesso gli splendori più accecanti grazie ai suoi vicoli ciechi. Laddove il pensiero si è arrestato o laddove ha intrapreso compiti troppo grandi o troppi assurdi oppure, più banalmente, laddove è stato raschiato via dal palinsesto della memoria collettiva dallo scorrere impietoso del tempo e del disinteresse, lì spesso troviamo il riflesso evanescente, catastrofico e straordinario, di un esercizio dalle fattezze stupende, una sorta di chimera composta da pezzi di frontiere, idee e intuizioni che avrebbero potuto essere e che, invece, sono scivolate, come polvere, sotto la patina corrosiva dell’attuale. Fra queste correnti di pensiero involontariamente controfattuali, la storia di quello che, per utilizzare una suggestione adorniana, potremmo chiamare empirismo volgare è forse l’esempio al contempo più eclatante e commovente del sorgere e del dileguare di questi mostruosi turbinii vestigiali.

L’empirismo volgare, del resto, non può che interpretare il ruolo del beautiful loser. Anche solo l’idea di concepire una filosofia in grado di contenere tutte le zone d’ombra di ciò che è, con tutto il loro esorbitante brulichio, appare subito, una volta assunta la giusta prospettiva di sguardo, un progetto meravigliosamente folle, un proposito che la saggezza del buon senso comune sconsiglierebbe senza indugi di intraprendere. L’empirismo volgare è un’operazione interminabile per antonomasia, un’analisi che non può avvalersi di una solida origine e neppure ambire a raggiungere conclusioni soddisfacenti. Non è un caso, allora, che tutti i pensatori di questa stirpe siano in qualche modo archivisti sconclusionati o antropologi sui generis: in altri termini, i più arditi e i più improbabili fra tutti i filosofi che hanno graffiato con le loro firme il canone della tradizione occidentale. Costoro, per loro stessa natura, sono votati al fallimento e alla sconfitta proprio per aver scelto, per scriteriata imprudenza o per invidiabile coraggio, un campo di battaglia in cui le forze ostili eccedono qualsivoglia possibilità di resistenza, per aver deciso di avventurarsi, senza protezioni né mediazioni, nelle vastità di un territorio in cui predomina un caos infinito in grado di consumarli ben prima che il loro pensiero abbia anche solo iniziato ad assumere una qualche forma di consistenza.

Uno dei più insuperati alfieri di questa legione di improbabili avventurieri concettuali è, senza dubbio, Benjamin Paul Blood. Non ci stupisce apprendere che non ne abbiate mai sentito parlare, dal momento che, come detto in precedenza, Blood è, a dispetto del nome, uno di quegli spettri esangui che amano aggirarsi in qualche nota sepolta sotto i detriti dell’oblio accumulatisi tra le pagine di tomi ponderosi dedicati alla riflessione di autori molto più influenti e accreditati, fra i quali, in genere, spicca il pragmatista americano William James. Nondimeno, Blood è una figura chiara, diafana e preziosa, una figura che meriterebbe un posto ben più rilevante nella storia della filosofia, fosse anche solo per l’euforia sfrenata che impregna la sua scrittura.

 

 

Il centro nevralgico del pensiero di Blood pulsa più che altrove nel pamphlet The Anææstetic Revelation and the Gist of Philosophy (1874). L’origine di questo saggio va rintracciata in un’esperienza genuinamente disarmante nella sua comica banalità. Blood si deve sottoporre a un intervento odontoiatrico. Per alleviare il dolore gli viene somministrato dell’ossido di diazoto, meglio noto come gas esilarante. Tramortito dai fumi dell’anestetico, Blood si trova a dover ammettere di aver provato una leggerezza e un’apertura a cui il suo pensiero cosciente non si era mai neppure lontanamente avvicinato. In altre parole, uno stordito Blood si rende conto che il reale è percorso da un turbinio di sensazioni, esperienze, aberrazioni e alterazioni semplicemente non contemplate perfino dal migliore dei sistemi filosofici possibili. Anche il soggetto pensante, icona sacra per un kantiano come Blood, a quel punto non poteva che essere considerato alla stregua di un’abitudine, magari utile in certi frangenti, ma comunque insignificante al cospetto di quella rigogliosa vita incosciente che, si era impossessata di lui. Ripresosi dallo choc, Blood si concesse niente meno che l’impossibile: essere colui che, a qualsiasi costo, sarebbe riuscito a estendere la potenza analgesica, quella luminosa incoscienza di cui era stato testimone involontario, fin dentro alle pieghe più intime dell’esperienza.

Potete facilmente immaginarvi la conclusione della storia dell’entusiasta Blood: il suo proposito fallì, lasciando dietro di sé alcuni libelli inconcludenti, oggi completamente dimenticati. Di lui sopravvisse solo quel proposito favoloso e allucinato, quella inebriante deflazione del soggetto umano a cardine vuoto su cui ruota la Grande Anestesia, il vortice inappropriato e inappropriabile dell’esperienza. Proposito che, fortunatamente, trova nuova dimora e fondamenta decisamente più solide nell’ultima fatica di Tommaso Tuppini Vortici. Forme dell’esperienza (Orthotes 2020).

Mettendosi in qualche modo sulle orme di questi stregoni, scoppiati e sperimentalisti, Tuppini pone al centro della sua riflessione, né più né meno, la trasformazione radicale del pensiero filosofico e del soggetto attraverso una revisione della forma stessa dell’esperienza. La croce (e delizia) che il libro porta lungo tutto il suo farsi è, infatti, il tentativo di render conto, facendo leva su una singola manifestazione – il vortice, appunto –, di quanto accomuna l’intero spettro di tutte le possibili espressioni del reale, dal movimento degli atomi a quello del linguaggio cinematografo. «Le cose – animali, vegetali, minerali, atomiche, ecc. – interferiscono fra di loro e con noi, non fanno che perturbarsi e perturbarci. Ogni cosa è una specie di filo elettrico che si allunga e tocca i fili che lo circondano: mani, zampe, occhi, capelli, palloni, ruote, sedie, colori, libri, dèi, acque, batteri…» (p. 8).

 

 

Per avvicinarsi (sempre di nuovo, verrebbe da dire…) a questo obbiettivo apparentemente dissennato – una sorta di sole rovente per le ali di cera del pensiero –, Tuppini si posiziona immediatamente contro un nemico colossale: il trascendentalismo con le sue arroganti pretese antropocentriche («il trascendentalismo prende una cosa tra le altre e la chiama “soggetto” perché pensa, parla, lavora, dunque sembra essere l’unico capace di fare esperienza delle altre cose», p. 7). Trascendentalismo che, sorta di Giano bifronte, larvatus prodest, potendo assumere il sembiante sia del relazionismo radicale sia quello, intuitivamente opposto, del sostanzialismo. Secondo Tuppini, relazionismo radicale e sostanzialismo sono sovrapponibili fino all’indistinzione grazie all’idea, accettata da entrambi, per cui esisterebbe «un solo accesso privilegiato alle cose» e che questo sia «proprietà esclusiva di qualcosa o qualcuno» (p. 9): il magmatico pre-individuale per il relazionismo radicale e l’individualità monadica per il sostanzialismo – nella rete dell’esistere l’uno vede i fili e non i nodi e l’altro i nodi e non i fili.

Per uscire da questa impasse e per poter descrivere la ricchezza delle esperienze del mondo nella loro inesauribile pluralità lussureggiante, Tuppini si pone sulle tracce di un nuovo s/oggetto che certamente non intende ricondurre il molteplice all’Uno, ma che non si lascia scoraggiare dalla difficoltà di definire una struttura che mantenga una qualche ambizione dell’antico universale. La riposta a questa sfida titanica è rintracciata, come annunciato fin dal titolo, nel vortice che «integra la differenza delle proprie condizioni genetiche e in questo modo si individua» (p. 10). «Contro la tesi del relazionismo bisogna affermare che l’individualità del vortice non è illusoria, il vortice non è soltanto la somma di forze pre-individuali ma il nodo che il vuoto stringe tra i fili dell’ambiente. Però, contrariamente a ciò che pensa il sostanzialismo, il vortice non è una scatola a sorpresa, non custodisce al proprio interno un regno di potenze inattuate, una forza dormiente pronta a svegliarsi» (p. 17). Se il soggetto sostanziale rinchiude la carne-del-mondo dentro un centro rigido e inamovibile e il relazionismo radicale liquida troppo frettolosamente la gioia effimera di dire “io” (moi, però, e non je, seguendo Lacan), il vortice si organizza secondo vari gradi di instabilità e secondo varie soglie di coesione, al contempo concentrandosi e disperdendosi. «Il vortice non è il mondo. Nel mondo le cose sono tutte al loro posto, nel vortice invece tutto è rinegoziato. […] Il mondo è un vortice irrigidito […]. Il vortice è diverso anche dalla turbolenza [in cui] niente si unisce […]. Il vortice sta un passo indietro rispetto al mondo di cui è origine e un passo avanti rispetto alla turbolenza da cui proviene» (p. 77).

Ed è proprio l’astrusa e anfibia struttura astrutturale del vortice – il vuoto che lo fa e lo disfa, «il vortice è ciò che di volta in volta fa grazie al vuoto» (p. 18) – a permettere a Tuppini di smarcarsi, pur lasciandola vorticare tra le righe del suo scritto, dalla follia degli empiristi volgari. «Il vortice è il vuoto attorno al quale l’acqua si mette a ruotare. Anche prima del vortice esistevano buchi e lacune dentro la natura ma si trattava di luoghi in cui i flussi di materia si mancavano, era un vuoto sterile, improduttivo. Il vuoto del vortice, invece, […] è una soglia di comunicazione tra elementi che prima si ignoravano» (p. 15). Dal momento che il vortice è pieno di esperienza nei suoi contorni esterni e totalmente svuotato di qualsiasi unità sostanziale al suo interno, l’archivio e l’antropologia di Tuppini, proprio in quanto fugaci e interminabili, non sono scombinati – come quelli dei vari Blood. Il vortice di Tuppini, al contrario, deflazionando il soggetto, si apparenta con quella parte del pensiero contemporaneo che ruota attorno alla mancanza: come non leggere le parentele che si instaurano tra questo vortice e, per citarne solo alcuni, l’oggetto piccolo a di Lacan, la logica del senso di Deleuze, l’hauntologia di Derrida, l’individuazione di Simondon, il partage di Nancy, il significante vuoto di Laclau, il cyborg di Haraway, la natura queer di Barad, le vite blasfeme di Thacker? Citando Wyndham Lewis, il cui vorticismo appare con silenziosa insistenza nel libro di Tuppini, il vortice risplende dell’«ammirazione per la ferocia», senza però eliminare le sensazioni e le esperienze del s/oggetto, umano o non-umano che sia. «Il vuoto è la pelle, la bocca, lo stomaco, il cervello, la luce del vortice. I vegetali, gli animali e le protesi tecnologiche differenziano e moltiplicano la funzione di soglia che il vortice possiede nell’asse di vuoto attorno al quale ruota» (p. 17). E così, di vortice in vortice, di vuoto in vuoto, si prende il largo dal continente dell’Uomo, liberandosi dall’angoscia della posizione eretta: «Il vortice umano è un vegetale animale, una pianta locomotrice, una tensione orizzontale che si annoda con una tensione verticale» (p. 33).

 

 

Per raccontarci i vari gradi di coesione, instabilità e tumulto che caratterizzano i vortici, Tuppini opera una selezione antologica, presentandoci una rassegna di vari autori posizionati a diverse latitudini e longitudini del gradiente di coesione/dispersione che rende possibile e minaccia ogni forma di esperienza. Per lasciare a lettrici e lettori la possibilità di costruirsi i propri vortici intorno ai propri vuoti, qui ci limitiamo a sottolineare la ricchezza dei fili che Tuppini annoda e la molteplicità dei nodi che fila: dalle rivoluzioni scatologiche di Sade e Bataille allo sguardo mescalinico di Henri Michaux, dalle macchine di scrittura di Ezra Pound ai volti bucati del cinema-movimento dei fratelli Safdie. Ogni personaggio concettuale di questa sfilata annoda in sé uno proprio stile di instabilità, un suo modo di vivere sulla sottile linea rossa che separa consistenza da lacerazione, come, d’altronde, è il caso di qualsiasi vortice che attraversa ogni cosa che viene all’esistenza.

Ciò che colpisce di più a fine lettura del libro di Tuppini è una certa malinconia houellebecquiana, un senso di glorioso fallimento di fronte all’impossibilità di stilare un canone esauriente dell’esperienza e del s/oggetto. È così che, in maniera teneramente pornografica, si moltiplicano immagini di deiezione, stanchezza, esaurimento e apatia. È così che l’escrezione diventa il filo che annoda le altre figure che attraversano il testo: «L’oggetto dell’escrezione non è quello addomesticato e conforme al nostro bisogno, né essa significa l’evacuazione di ciò che non siamo riusciti ad assimilare. L’escrezione è, invece, l’incontro con un corpo estraneo, un oggetto insolito su cui agiamo e che retroagisce su di noi» (p. 28). Se c’è qualcosa di profondamente liberatorio in questo testo, un abbozzo di etica rivoluzionaria, è proprio questa corrente sotterranea che invita chi legge a svuotarsi per non abbandonarsi al flusso lineare delle correnti stereotipate della ri/produzione e della crescita.

Il picco più alto di questa sana vena di ribellione allo status quo viene raggiunto nel capitolo dedicato al sonno, in cui Tuppini propone una vera e propria disciplina dello scivolamento verso la nostra piccola morte notturna (o piccola anestesia, se preferite). Attraverso gli ultimi scritti di Merleau-Ponty, l’autore sembra voler insegnare al lettore ad addormentarsi meglio, più profondamente e più oziosamente, assaporando il crimine, vagamente necrofilo, di divenire vuoto e così vorticare in comunanza con il resto della carne-del-mondo, almeno per qualche ora. In ultima istanza, proprio questa biliosa passione per il fallimento risulta la vera potenza del libro di Tuppini: per accettare la nostra natura senza sconti e riconciliarci con tutto ciò che sente, per gioire fino in fondo dei vortici che dunque siamo abbiamo bisogno di passeggiare fra i nostri umori più escrementizi. Vorticare nell’informe – nel fondo delle cose, dentro la carne che non si vede mai – è, forse, riscoprire un Eden impossibile.

 

 

In copertina e nel testo alcune immagini da Twin Peaks 3 di David Lynch