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Nella foresta dello Chthulucene

“Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto” è l’ultimo libro di Donna Haraway uscito in lingua italiana pochi mesi fa grazie a Not e al lavoro di traduzione di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni. Dedicato all’imprevedibilità della parentela e a tutte coloro che generano parentele, ci regala una serie di appunti pratici per vivere, sopravvivere e sovvertire l’epoca dell’eccezionalismo umano

Sono appunti collezionati e ricomposti in un gioco di stringhe, fabulazioni speculative, teorie scientifiche, performance artistiche, studi etnografici, impronte di attivismo, riflessioni su corpi e tecnoscienze, storie e paesaggi i cui contorni sono ridefiniti quotidianamente a partire dalle plurali e eterogenee forme del vivere che li abitano. Sono storie nelle quali stare nel mondo, mondeggiare e fare mondi sono sempre esercizi collettivi e multipli, nei quali agire significa, consapevolmente o meno, agire con altre creature: con-divenire. Eccolo qua lo Chthulucene, uno spazio tempo utile per rimanere a contatto con il vivente, con ciò che vive e muore, in tempi barbari. Come in permacultura le specie compagne – le commensali della terra – portano avanti forme di recupero parziale, lavorano la terra nella terra, creano rifugi multispecie, imparano le une dalle altre a partire dalla materialità situata dei problemi che affrontano: nessuno vive ovunque; tutte vivono da qualche parte. Niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa. Ecco perché stare a contatto con il problema è condizione necessaria per fare parentele impreviste, per stare con le creature ctonie, con i mille nomi che prendono e le mille storie che raccontano queste creature indigene della Terra.

 Chthulucene è anche il nome di un terzo racconto, da affiancare a Antropocene e Capitalocene. Il sintomo Antropocene testimonia le tracce indelebili sul pianeta Terra della presenza umana e il divenire pericolosamente instabili dei sistemi relazionali Terra-Umani. Il Burning Man[1], ci dice Haraway, è la vera icona dell’Antropocene: gli esseri umani impegnati a bruciare fossili e determinati a creare nuovi fossili nel minor tempo possibile. Ma più che a una storia della specie umana Haraway guarda alle storie del Capitalocene, perché non è stata la specie umana a dettare le condizioni del colonialismo, dell’industrializzazione capitalista, dell’era nucleare o della terza era del carbonio. Il farsi globale dei rapporti sociali capitalisti, e le loro molteplici implicazioni socio-materiali, continuano aessere un fondamentale oggetto di indagine a patto di rinunciare a quella divisione binaria tra natura e società che i marxismi ancora faticano a lasciarsi alle spalle.

 

Nello Chthulucene infatti gli esseri umani sono nella terra e con la terra, e i poteri abiotici e biotici di questa Terra compongono la trama principale del racconto di Haraway: «rigenerare i poteri biodiversi della Terra è il lavoro e il gioco simpoietico dello Chthulucene». Respons-abilità multispecie, giustizia sperimentale, ecologia delle pratiche, soprattutto di questo ci parla lo Chthulucene, una foresta popolata da lotte e esperienze collettive capaci di inventare dal basso nuove pratiche di immaginazione, rivolta, resistenza e riparazione.

 

Cosa succede quando l’eccezionalismo umano e l’individualismo utilitarista dell’economia politica classica diventano impensabili nelle discipline e interdiscipline scientifiche più avanzate?

Questa domanda fondamentale attraverso tutto il libro ci pone difronte a un concetto chiave del pensiero di Haraway, la simpoiesi. Ovvero il con-fare. Prendendo sul serio il preziosissimo lavoro della biologa Lynn Margulis, Haraway riarticola la nozione di simpoiesi e la estende in natureculture a partire da un primato ontologico della relazione sui singoli enti. Le creature non precedono le loro relazioni: «le creature si penetrano a vicenda, si riavvolgono l’una attorno all’altra e l’una attraverso l’altra, si mangiano, fanno indigestione, si digeriscono in parte e in parte si assimilano a vicenda, e così definiscono degli ordini simpoietici altrimenti noti come cellule, organismi e assemblaggi ecologici». Il tortuoso e continuo mondeggiare terrestre non è fatto da entità pre-esistenti legate tra loro da interazioni di tipo competitivo, il neoliberismo è un racconto povero. Dunque la simpoiesi estende in forme generative le categorie di autonomia, autorganizzazione e autopoiesi, ci avvicina a pensare, sentire, lottare e costruire con i movimenti indigeni, femministi e ecologisti altri mondi possibili con le forze di questo mondo.

 

Questo libro costituisce un preziosissimo contributo per pensare un materialismo all’altezza delle sfide dell’ecologia politica, un materialismo che ci permetta di pensare il comune non solo come un processo sociale. Siamo di fronte alla sesta estinzione di massa. Non possiamo pensare il tema del comune senza fare i conti con il fatto che il produttivismo non ha solo a che fare con la logica del plusvalore. Il produttivismo della mondializzazione ha potuto svilupparsi grazie a una politica della materia di tipo coloniale. Certi umani e certi non umani si sono composti in forme insostenibili. Le conseguenze sono nel nostro suolo, nell’aria, nell’acqua, dentro di noi e intorno a noi. La soglia di sostenibilità materiale della modernizzazione è stata varcata. Ci vogliono altre politiche della materia: forme di coesistenza alternative tra specie, sostanze inorganiche e artefatti. L’ecologia politica non è solo un campo dentro al quale si moltiplicano le fonti di rivolta contro l’ingiustizia, l’ecologia politica come politica alternativa della materia è anche il campo dentro al quale si moltiplicano le pratiche quotidiane e silenziose di rigenerazione. L’autonomia del XXI secolo nasce dalla riscoperta della fitta rete di interdipendenze che ci permettono di vivere, dalla fine di ogni divisione essenzialisticatra natura e cultura, dalla capacità di creare infrastrutture in grado di sostenere, difendere e far durare nel tempo forme alternative di esistenza. La questione sociale, campo attorno a cui le tematiche dell’autonomia si sono prevalentemente sviluppate nei due secoli precedenti, va riarticolandosi a partire da questo orizzonte di senso.

Questa politica autonoma la ritroviamo in una miriade di movimenti contemporanei che a partire da pratiche specifiche e da contesti eterogenei inventano altri modi di esistenza materiale, grazie alla sperimentazione di forme di interazione che coinvolgono la presenza attiva di entità umane e più che umane. Inventando modi di relazione tra elementi eterogenei, creando ecologie di esistenza abbastanza ricche e responsabili, abbastanza fitte e dense per poter coltivare prosperità mondane e il minimo di sofferenza possibile per tutti gli enti che le abitano, questi movimenti inventano pratiche del fare comune dentro a una politica del quotidiano. Dal farsi pienamente globale dei movimenti ecologisti e contadini alle pratiche di solidarietà per il diritto alla salute, dalla permacultura fino alle fabbriche occupate, dai movimenti femministi e queer alle resistenze indigene, un punto centrale dell’ecologia politica contemporanea sta a mio giudizio proprio nella sperimentazione di altri modi di relazione tra persone, piante e artefatti, umani e suolo, tecnologie e umani. Se una politica istituente si riferisce prima di tutto alla capacità di praticare trasformazioni materiali, tale capacità di agire non può essere definita come una agency umana o come un universale da realizzare. Al contrario tale politica della materia è sostenuta dalla capacità situata di agire con altri, umani e più che umani. Se il materialismo storico si è contraddistinto per una straordinaria capacità di tenere assieme materialismo e attivismo attorno al nodo della lotta di classe, il materialismo che emerge dalla foresta dello Chthulucene – e che risuona con il pensiero ecosofico di Guattari – ripropone con forza un rapporto tra materialismo e attivismo. Solo che, anziché partire da un regime di intelligibilità della politica interno alla sfera sociale della produzione, colloca la politica nel cosmo, nel laboratorio scientifico, nel consultorio, nella comune, nel campo, in officina e nei tanti altri luoghi dove stiamo imparando a decolonizzare il nostro rapporto con la materialità della vita.

 


[1]Nel corso di questo festival che si tiene nel deserto Black Rock in Nevada un gigantesco fantoccio di umano alto trenta metri di altezza viene dato alle fiamme.