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Mommy

Un esperimento di lettura, più che una recensione classica, per un film insolito di X. Dolan. Il gusto dell’eccesso fa da cornice a un film sfacciatamente pop e dichiaratamente queer.

Tre personaggi: una madre (Diane) che perde il lavoro, un figlio adolescente disturbato e violento (Steve), una vicina di casa (Kyla) divenuta balbuziente in seguito a un tragico lutto.

Quello con cui ci confrontiamo è unpiccolo “ritratto di famiglia” al sapore di sigarette e smalto per unghie.

Tramite un linguaggio espressivo che sconfina palesemente nel videoclip, il cinema del canadese Xavier Dolan ci regala una storia drammatica e intensa, analizzata da un punto di vista volutamente popolare, giocata non tanto sull’originalità della trama ma proprio sul ‘come’ viene raccontata.

Un amore al limite dell’incesto e insieme un’incapacità quasi straziante di sopravvivere e di restare nei margini della storia stessa.

La macchina da presa scivola spesso in virtuosismi visivi: nel mezzo di un dialogo si sofferma improvvisamente sulle rughe, sulle imperfezioni di un volto, su mani e denti – proprio come il punto di vista di un bambino che osserva curioso il mondo circostante – Dolan ci culla nella descrizione isterica dei suoi personaggi.

In realtà molte delle scene più interessanti descrivono piccoli e potenzialmente inutili momenti, ma è proprio allora che la forza artistica del giovane regista ci si rivela inconsapevolmente davanti.

Fare la spesa, la lavatrice, essere scoperti a masturbarsi o a fare i ‘versi’ allo specchio. Questi i materiali che disegnano la precaria quotidianità che accompagna ogni tipo di rapporto (o semplicemente di crescita), capaci però allo stesso tempo di restituirci un’intimità davvero straordinaria.

Tra dialoghi il più delle volte urlati, in un quasi animalesco jouai rurale (ovviamente perso nel doppiaggio) che ha richiesto i sottotitoli sia per il pubblico francese sia per i québécois urbanizzati di Montréal, e immagini che vanno al ritmo degli Eifel 65, degli Oasis, di un White flag di Dido, Dolan ci fa il verso mettendoci di fronte a evidenti giochi retorici, a scene al limite del citazionismo, a tratti anche stucchevoli, ma piene di colpi allo stomaco e brividi visivi che non concedono mai discese.

Sin dall’inizio l’immagine appare bloccata – esattamente come noi – in un formato troppo rigido (un 1:1 stretto e quadrato) che non permette di esplorare come vorremmo lo spazio della messa in scena. I protagonisti, costipati in convenzioni e apparenze ingombranti, entrano con difficoltà all’interno dell’inquadratura. A mano a mano scopriamo i loro vuoti,il loro bisogno sofferto dell’altro, vite (corpi) ritagliate in proporzione alla natura della loro esistenza, la frustrazione di un futuro incerto o più che altro vuoto.

A metà del film però gli equilibri sembrano ricomporsi, i personaggi prendere fiato e noi insieme a loro: l’1:1 si allarga a un vertiginoso 2:35 (=16-9). Lo schermo si apre, trascinato dalle mani di Steve, e finalmente ti ingloba.

Ora non siamo più spettatori passivi, ma anzi ci sentiamo liberi, parte integrante di un ‘qualcosa’. Ma ecco che la sensazione si rivela solo apparente (il massimo allargamento dello schermo coincide con un sogno, una fantasia di normalità) si torna dopo poco allo stato iniziale – formato e ristrettezze.

Cominciamo a osservare le cose da un punto di vista diverso, proprio come fa Kyla. Siamo ora personaggi volutamente mutio semplicemente incapaci di reagire (o agire) di fronte a tanto dolore, diventiamo nuovamente immobili, tesi, stanchi di tanta frustrazione non nostra.

Ed è qui che, a mio parere, si rivela il senso del film, in questo punto di vista che si sposta e si fa improvvisamente silenzioso. Lo sproloquio continuo della prima parte lascia il passo a momenti di semplice osservazione e attesa, in cui una compostezza solo apparente degenera in una corsa tragicamente liberatoria. Unsuicidio memorabile al ritmo di Lana Del Rey, poi tutto torna nuovamente amorfo, ordinato. Schermo nero.

Come in molti hanno già scritto, Mommy è un omaggio all’imperfezione pura e semplice, quella umana, a cui Dolan si inchina:la nostra, quella che possiamo quotidianamente constatare e accettare.

A volte, «amarci è la cosa che ci riesce meglio»…

Mommy è il quinto lungometraggio dell’appena venticinquenne regista-sceneggiatore Xavier Dolan, vincitore del Premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes e candidato numero uno del Canada per gli Oscar. Interpreti: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon e Suzanne Clément. Ancora in programmazione, streammabile.

Quelle che avete appena letto sono solo una serie di impressioni, di immagini con intenti non propriamente recensivi. Di seguito la colonna sonora del film, fondamentale per una comprensione totale del senso.