ITALIA

Mitologie dell’estrattivismo. Natura e lavoro fra le Alpi Apuane

Nelle cave di marmo delle Alpi Apuane si annida una delle storie più longeve e meno discusse dell’estrattivismo Italiano. Oggi, si prepara una mobilitazione contro l’ulteriore incremento dello sfruttamento delle montagne

Chi di voi, percorrendo l’autostrada tra Genova-Livorno, non ha mai posato lo sguardo, anche solo per un attimo, sulle creste appuntite delle Alpi Apuane? Quanti poi hanno sentito un brivido, un leggero tremore, forse anche un’attrazione, o soltanto curiosità quando, avvicinandosi a Carrara, hanno impattato sulle distese di nuda roccia delle cave? E quanti si sono chiesti, di fronte alla distesa di blocchi parcheggiati nei piazzali ai margini della carreggiata, quale fosse il destino di quelle montagne?

L’oro bianco, così definito già dagli antichi romani, viene estratto senza sosta fin dal I secolo a.C.; le Alpi Apuane sono di fatto tra le montagne più ricche al mondo e non solo per il marmo: una catena alpina a 40 km dal mare, il bacino idrico più importante della Toscana, presentano un’incredibile biodiversità, e secoli di storia, comunità, conflitti e tradizioni.

Qui, in appena 1.155 km2 di territorio, si annida una delle storie più longeve, critiche e meno discusse dell’estrattivismo Italiano.

Abbiamo colto l’occasione della terza manifestazione nazionale di Fridays For Future per partecipare al corteo organizzato a Carrara e farci raccontare dai giovani abitanti della provincia, che lottano contro il cambiamento climatico, cosa ne pensano delle cave di marmo.

«Sono abbastanza d’accordo con il limitare lo sfruttamento delle cave, anche se non possono essere chiuse» ci dice Davide, 18 anni studente medio a Carrara; «Io credo che le cave debbano essere di tutti, non private, perché la città è della popolazione e quindi non è giusto che pochi tengano le cave, sfruttino gli altri lavoratori che sono sempre cittadini di Carrara» racconta Silvia. Giulia continua, «Penso che siano troppo sfruttate, che le grosse cave sono in mano a poche persone e che sicuramente non seguono tutti i regolamenti che sono imposti. Ci sono delle cave che dovrebbero essere chiuse sulle Apuane, ma che poi se vai a vedere sono sempre in funzione; da qui non si vedono però, perché sono nascoste e sono sui monti dietro, però quando si va a camminare si vedono e nessuno ci fa nulla». Luca, giovanissimo, alla sua prima manifestazione ci dice che ha «un’opinione ambivalente, perchè nelle cave di marmo ci lavora mezza carrara, però l’impatto è enorme».

Esiste quindi una sensibilità diffusa, anche tra i più giovani, che pone in contraddizione lo sfruttamento delle montagne e la necessità del lavoro.

Di fronte a queste risposte ci siamo chiesti: l’idea che l’estrazione di marmo rappresenti una fonte di lavoro determinante per la popolazione di Massa Carrara è realtà o un falso mito?

Rispondere a questa domanda non è semplice. Il tema è complesso, ma a partire da questa storica contraddizione abbiamo iniziato a raccogliere alcune voci dalla provincia, che ci hanno raccontato tutta un’altra storia, riportandoci dati attendibili che smontano pezzo per pezzo la narrazione mitologica delle cave.

Nicola, della commissione Tutela Ambiente Montano del CAI di Massa, riprendendo dati dal report del Fondo Marmo ci spiega che «nessuno dice che dal 2008 al 2015 in cava si sono persi più di 600 posti di lavoro» e che ad oggi ci sono in totale «circa 700 lavoratori in cava, nei piazzali, tra Massa e Carrara e 1280 sono al piano tra segherie, laboratori e commercianti» che non lavorano solo marmo delle Apuane, anzi; «quindi di fatto le 116 cave di Massa e Carrara più i vari laboratori, centri di commercializzazione, etc. fanno girare meno di 2000 lavoratori… ci sono 116 cave nella provincia di Massa-Carrara. 100 su Carrara, 12 su massa, 4 tra Fosdinovo (monte Pizzo d’uccello) e Fivizzano (monte Sagro)».

Quindi parliamo di meno di 2000 lavoratori su 195.000 abitanti, nella provincia con il più alto tasso di disoccupazione del Centro Nord. I cavatori sono quindi sempre meno, ma la quantità di pietra scavata sempre di più; «Ogni anno da Massa-Carrara viene portata via una quantità di materiale che è pari al volume di 43 torri di Pisa; o ancora, se prendi quel volume e consideri di farne delle piastrelle 1cmx1mx1m e le stendi una a fianco all’altra per fare una strada di 2 metri di larghezza, arrivi da Lucca a Wellington, in nuova Zelanda.»

Sono quindi questi i numeri, la quantità di montagna che gli industriali del marmo ogni anno portano via dalla provincia di Massa-Carrara, producendo così profitti milionari di cui sul territorio restano solo le briciole.

Questo scenario di incremento estrattivo e diminuzione occupazionale trova le sue radici chiaramente nelle innovazioni tecnologiche, che fra gli altri hanno coinvolto anche il settore dei macchinari per l’estrazione, e nell’apertura di nuovi mercati legati agli scarti dell’estrazione.

«Il problema è diventato urgente negli ultimi anni grazie anche al tipo di macchine che vengono utilizzate che hanno una velocità pazzesca rispetto a quelle che c’erano prima e sicuramente la multinazionale del carbonato di calcio è l’elemento che ci mancava, che ha definitivamente spostato il mercato. Un tempo prima di tirar giù un blocco ci pensavi bene, ora si butta giù tutto perché comunque c’è la multinazionale del carbonato di calcio che ti compra gli scarti».

«Prima un blocco aveva valore se lo tagliavi bene per cui ci voleva il cavatore che aveva l’occhio per vedere il verso del taglio» ci racconta Federico, speleologo. Oggi, tra moderne tecnologie e mercato dello scarto, la figura del cavatore e le sue competenze, che hanno caratterizzato il sapere del territorio per secoli, stanno andando scomparendo, mentre la distruzione delle Alpi Apuane prosegue a ritmi sempre più accelerati.

Un altro dato sconcertante riguarda la quantità di detriti che ancora oggi vengono prodotti e che finiscono per entrare nel mercato del carbonato di calcio. Questo derivato viene utilizzato in diversi settori di prodotti di consumo, come materiale abrasivo (anche nei dentifrici), come base per cosmetici, per coloranti e vernici, per la produzione di carta, colla, plastiche e materiali isolanti, addirittura nell’industria alimentare. Oggi, ci dice ancora Nicola, «La normativa è chiara: tu non potresti fare escavazione se non rispetti il vincolo minimo di blocco (25%); se porti via meno del 25% di blocco non sei più lapideo ma minerario, quindi decade la concessione di riferimento, ma questo è teoricamente…»

Tali percentuali di produzione di detrito sono inoltre frutto di un’altra epoca; un’epoca in cui si utilizzavano le mine per l’estrazione, ed è su queste tecniche che sono stati elaborati i regolamenti. Oggi non sarebbe necessario produrre tanti detriti, al netto delle più sofisticate macchine da taglio a filo diamantato. La realtà invece va in tutt’altra direzione «Ora, nel nuovo regolamento che stanno facendo a Carrara, ammettono che nel caso in cui tu garantisci occupazione puoi estrarre anche il 90% di detriti».

 

 

Un’estrazione di tale portata sta modificando molto profondamente, in particolare negli ultimi decenni, l’ecosistema delle Alpi Apuane. Dalle testimonianze raccolte, emerge una lettura molto pragmatica, legata principalmente all’inquinamento delle falde acquifere di cui la provincia è ricchissima.

«L’escavazione inquina le falde sorgenti sia con la marmettola ma anche con idrocarburi e oli esausti… Noi siamo così tanto ricchi d’acqua, ma in realtà paghiamo tantissimo per pulirla purificarla. I filtri dell’acquedotto devono essere cambiati ogni 6 mesi per la marmettola e questi hanno un costo di circa €250.000 e quindi di €500.000 l’anno… Ovviamente Gaia li fa pagare ai consumatori». Il problema dell’acqua non sembra sfiorare le amministrazioni, che continuano a permettere l’incremento delle attività estrattive.

Sempre legato alle acque, «un altro problema che genera l’eccessiva presenza di marmettola è che è un materiale che cementifica l’alveo del fiume. La marmettola e i detriti creano quindi un innalzamento dell’alveo del fiume e conseguentemente delle acque; dragare il fiume ha un costo esagerato per il comune e quindi in questi anni ha alzato gli argini e anche i ponti. Un esempio lo è il ponte di Marina di Massa una soluzione che porta via comunque soldi alla collettività. Inoltre, la marmettola distruggere l’ecosistema perché ovviamente le specie animali e vegetali non trovano più il loro habitat per sopravvivere».

Insomma, più che risultare determinante per il tasso di occupazione della provincia, sembra che l’attività estrattiva abbia ricadute negative, anche da un punto di vista economico, per cittadini e bilanci pubblici.

In queste ultime settimane l’attenzione mediatica, seppur ancora strettamente locale, è decisamente aumentata e volge il suo sguardo alle montagne parlando di scelte politiche ed imprenditoriali che mettono nuovamente al centro il profitto di pochi. Come sempre non quello dei lavoratori ma l’enorme profitto dei concessionari di cava; una storia già sentita mille volte che produce un territorio sempre meno comune, andando a discapito della salute di chi questi luoghi li abita, di chi li cura e li vive.

È infatti in procinto di essere discusso il nuovo Pabe (Piano Attuativo di Bacino Estrattivo) della città di Massa che non solo permetterebbe di continuare le estrazioni in tutte le cave già attive ma programma di aprire 7 nuovi siti d’escavazione; il programma prevede un ulteriore incremento dell’attività estrattiva, autorizzando nei prossimi anni l’escavazione di 13 milioni di tonnellate di marmo: «è come se tu ti portassi via il volume di 16 mila appartamenti da 100 mq, circa il totale dello spazio abitativo che c’è a massa, in blocchi e detriti di marmo».

Venerdì 13 dicembre si è svolta Massa un’assemblea pubblica indetta dal TAM-CAI molto partecipata, nella quale sono state discusse alcune delle principali criticità del nuovo Pabe. Successivamente, i numerosi interventi di comitati, collettivi, associazioni e singoli abitanti hanno restituito la determinazione di avviare un percorso di opposizione, dal basso che, a partire dalle questioni più stringenti relative alle nuove concessioni, si articoli nella complessità di questo argomento verso una sempre più urgente e condivisa inversione di rotta che, rompendo la narrazione paralizzante che mette in contraddizione lavoro e tutela dell’ambiente, rimetta al centro la ricchezza comune a scapito dei profitti individuali. È proprio nella manutenzione del territorio, nella bonifica delle aree industriali dismesse, nella riconversione ecologica maturata in una prospettiva di radicale trasformazione del paradigma politico ed economico che salta la contraddizione.

Il Primo appuntamento è sabato 4 gennaio 2020 in piazza De Gasperi a Massa alle ore 16, un’occasione per incontrarsi, riconoscersi e trasformare quel leggero tremore in una potenza collettiva tutta da costruire.

 

Articolo apparso sulla piattaforma Tale of Porosity

 

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