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In memoria di Moishe Postone

Tre anni fa ci lasciava lo storico canadese, esponente di spicco della New Left, la cui ricerca teorica portata avanti tra Francoforte e Chicago ha ridefinito le categorie marxiane in forma radicalmente innovativa e di estrema attualità

A primo acchito siamo portati a considerare il peso come una proprietà intrinseca degli oggetti, così come la loro forma o la loro dimensione. Grazie alla meccanica classica apprendiamo che il peso è in realtà dovuto a un rapporto con un altro corpo in termini gravitazionali e che quindi solo in tale rapporto ha senso.

 

Un discorso simile potrebbe essere fatto con il concetto di valore in Marx.

 

Nella vulgata classica del marxismo tradizionale il valore sembra una proprietà immanente del lavoro, connaturata nell’attività stessa e presente in qualsiasi epoca: il lavoro produttivo crea valore.

La teoria del valore-lavoro svela la grande frode capitalista, in cui è il Capitale a sembrare produttivo, mentre è il lavoro a generare valore in misura maggiore di quanto ne viene corrisposto tramite il salario e quindi a garantire un plusvalore che consente l’accumulazione.

L’auto-riconoscimento del vero soggetto produttore della ricchezza, il proletariato, è la chiave per una trasformazione dell’esistente che elimini i parassiti capitalisti e distribuisca in modo equo il valore prodotto attraverso un’amministrazione razionale e immediatamente sociale.

Questi pochi assunti, qui riportati in forma estremamente sintetica, sono tra i principali alla base di quella che è stata vista come una nuova economia politica, sviluppata nella seconda metà del XIX secolo dall’autore di Treviri.
Non pochi sono però gli interrogativi e i limiti che questa lettura ha generato nel corso del tempo: quale sarebbe la differenza sostanziale rispetto al lavoro contenuto di Ricardo?

 

Non ci troviamo forse di fronte ad una semplice traslitterazione dell’accusa di parassitismo rivolta alla rendita fondiaria dall’economia classica?

 

La preminenza economica non manca di vedere una serie di caratteristiche proprie e fondanti la realtà sociale concreta? La Natura resta solo un oggetto a disposizione illimitata dell’essere umano?

E ancora, il lavoro improduttivo ha davvero un carattere accessorio rispetto alla produzione di ricchezza sociale?
Le risposte sono state molteplici: in alcuni casi si è tentato di estendere/integrare il concetto di valore o quello di lavoro produttivo, in altri si sono ancorati i concetti marxiani a uno specifico contesto storico dichiarandoli a più riprese superati o insufficienti dinanzi alla molteplicità delle identità storiche.

La ricerca teorica di Moishe Postone, in particolare col suo Time, Labour and Social Domination (1993) tentò un’interpretazione radicalmente differente, partendo dall’assunto che Marx non volesse affatto sviluppare una nuova economia politica critica, ma, come da lui stesso sottolineato, una critica spietata dell’economia politica, molto più profonda di quanto gli stessi marxisti abbiano inteso.

Il valore e il lavoro stesso in Marx non rappresentano né coincidono con la ricchezza reale, ma sono solo «una forma determinata di relazioni sociali e una forma particolare di ricchezza»[1], inevitabilmente subalterne al Capitale e di conseguenza interpretabili solo attraverso la sua lente.

Capire «il contrasto tra una forma di ricchezza che dipende dall’ammontare di tempo di lavoro impiegato e una che ne prescinde»[2] (la ricchezza reale) è cruciale nella comprensione della teoria del valore.

In qualità di lavoro (e tempo) astratto socialmente determinato, quindi derivato dalle condizioni produttive generali, il valore non può che rappresentare una forma di dominio sul lavoro vivo ed in quanto tale non va assunto come categoria propria della teoria critica, ma va usata proprio ad evidenziarne le contraddizioni e come, funzionando come Zeitgeist, sia stata in grado di proiettare la sua ombra sull’intera storia umana, finendo per farci leggere l’intero passato con gli occhi del presente, errore in cui ricade proprio la teoria del valore contenuto[3]. Come la misura del peso senza sapere di risiedere su un pianeta specifico.

 

Marx non radicalizza Ricardo né materializza Hegel, ma li storicizza entrambi4.

 

Il lavoro qui considerato da Marx non è l’attività genericamente trasformatrice dei Manoscritti del 1844, ma una forma situata, il mezzo attraverso cui le persone prendono posto nella società dello scambio o ne vengono poste ai margini. Non in termini strettamente economici, ma in rapporto a una totalità sociale di cui l’economia politica è solo la manifestazione più palese.

È proprio il lavoro astratto come forma principale di mediazione, terreno ontologico della vita sociale, a dover essere messo a critica come forma transitoria e particolare di ricchezza. Merce e valore non nascondono i rapporti reali di classe attraverso una mistificazione, sono essi stessi i rapporti reali in forma feticizzata[5].

Mercato e proprietà privata sono le forme sviluppate e non le cause di questa ontologia sociale. Detta in termini più semplici: il valore in Marx non è una categoria volta a dare centralità al lavoro produttivo rispetto ai suoi parassiti e comprimari, ma è proprio ciò in cui il teorico del socialismo scientifico si addentra per andarci contro, mostrando come sia lo stesso sviluppo capitalista a rendere sempre più anacronistico misurare la ricchezza reale come dispendio di lavoro umano e che questa misura sia continuamente riaffermata dalla logica del Capitale semplicemente per mantenere saldo il proprio dominio.

Attraverso lo sviluppo tecnologico volto a ottenere un extraprofitto quote sempre più grandi di ricchezza sociale corrispondono ad un valore sempre più piccolo. Se prima occorrevano due ore per produrre due sedie ora basta mezz’ora per produrne venti. Il valore diminuisce mentre la ricchezza reale aumenta e libera tempo per altre attività produttive o ricreative.

 

Non appena l’innovazione diviene standard produttivo il capitale è portato a far divergere ulteriormente ricchezza materiale e valore attraverso nuove innovazioni. Postone chiama questo movimento effetto tapis roulant6.

 

È attraverso questa lente che possiamo rileggere il famoso frammento sulle macchine nei Grundrisse:
«La vera ricchezza si manifesta invece – ed è ciò che svela la grande industria – nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa tra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo produttivo che esso si limita a sorvegliare. […] In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua universale forza produttiva, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola lo sviluppo dell’individuo sociale, che appare come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui riposa la ricchezza odierna, appare una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande sorgente della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e quindi il valore di scambio [la misura] del valore d’uso»[7].

Il lavoro umano non è quindi essenziale e indispensabile a creare ricchezza materiale, ma solo a creare valore. Le macchine non possono produrre valore, ma possono produrre ricchezza materiale grazie all’assimilazione tecnica delle capacità di lavoro umane. Non c’è in questo una fiducia cieca nel progresso tecnologico, tutt’altro.

Finché il progresso tecnologico sarà volto a riaffermare la logica del valore non potrà che portare maggiore sfruttamento, il consumo illimitato delle risorse naturali e all’esclusione crescente di esseri umani marginalizzati come esercito di riserva.

 

La tecnologia non esprime una soluzione determinata, ma una potenzialità latente di utilizzo e di scopo.

 

Le categorie di valore e lavoro (astratto) non possono quindi essere ripensate in forma direttamente sociale, come diversi teorici marxisti sembrano proporre. Anzi, le critiche che hanno accumulato nel corso del tempo ne dimostrano proprio l’inadeguatezza. Né si può liberare il lavoro attraverso una sua distribuzione razionale, ma è necessario liberarci dal lavoro astratto, anche per liberare il lavoro concreto in altra forma.

Per fare questo occorre associare questioni quali l’automazione, il reddito di base, i lavori riproduttivi e di cura, i temi ambientali non tanto al concetto di valore ma a quello di ricchezza, prodotta o disponibile. Ricchezza che pur non coincidendo col valore è rinchiusa nelle sue forme astratte di dominio.

In tal senso il socialismo reale non ha rappresentato un superamento del capitalismo, ma la compiuta realizzazione della logica del lavoro astratto, dell’accumulazione di lavoro morto sulla pelle del lavoro vivo seppur in forma centralizzata e non di concorrenza, comprese le sue aberrazioni produttivistiche, alienanti, non curanti dei problemi ambientali e in aperto contrasto con lo sviluppo delle “individualità sociali” al centro della prospettiva marxiana.

 

La critica che quindi Postone muove al movimento operaio tradizionale è quella di far propria la logica del valore e di lottare per un suo riconoscimento più che per un suo superamento compiuto.

 

Se da una parte la critica è interessante e pone questioni rilevanti sul fallimento del socialismo nel XX secolo, dall’altra rischia di rimuovere qualsiasi agency al lavoro vivo dinanzi al soggetto quasi-automatico rappresentato dal Capitale. La “critica dal punto di vista del lavoro”, in quanto parte della totalità, non è infatti in grado di cogliere la “critica del lavoro nel capitalismo”.

Rileggere Marx dando un ruolo così subalterno alla lotta di classe non sembra sostenibile. Se è vero che in alcuni passaggi questa subalternità possa essere chiaramente dimostrata, è pur vero che ce ne sono altrettanti a smentita.

La storia del movimento operaio è costellata anche di passaggi in cui è stata posta a critica proprio la logica del valore, l’adesione al suo imperio, e questa preclusione rischia invece di riportarci a una dialettica negativa chiusa in se stessa da cui lo stesso Postone prova ad evadere o a una nuova teoria del crollo automatico alla Kurz.

Nonostante questi aspetti critici, sicuramente da non sottovalutare, il contributo di Postone al marxismo contemporaneo è stato di indiscutibile spessore ed è un vero peccato che la sua opera principale non abbia ancora trovato, a ventotto anni dalla sua prima edizione, una traduzione che la renda fruibile in Italia.

Questo articolo, nella sua inevitabile insufficienza, prova a essere un ricordo e un invito ad approfondire l’interesse per questo grande autore della teoria critica.

 

[1] M. Postone, Time, labor and social domination, , Cambridge University press, 1993, p. 24.
[2] Ibid. p. 25.
[3] K. Marx, Per una critica dell’economia politica, cap. I “la merce”.
[4] Time Labor…, pp .81-82
[5] Ibid, p. 62
[6] Ibid, pp. 289-291
[7] K. Marx, Grundrisse, Quaderno VII, PGreco edizioni, p .711.

Foto di copertina da Wikipedia