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Matrix Resurrections, diventa Meta con me

Il nuovo episodio segna forse un cambio di passo rispetto al conflitto di fondo della saga: da una lotta per il dominio sulla conoscenza e sull’informazione a una concezione di controllo attraverso emotività e sentimenti come rabbia, speranza e disperazione

Matrix è un film sul lavoro. Molto prima di fuggire dalla matrice, Neo deve evadere da uno spazio di reclusione molto più banale: il cubicolo dell’ufficio. Il film fa quindi parte di quella strana serie di film usciti nel 1999 che affrontavano i limiti del cubicolo e della giornata lavorativa, una lista che include Office Space, Fight Club e American Beauty (e anche Essere John Malkovich). È stato un anno strano, nel pieno della bolla delle dot-com e della politica della Terza Via di Clinton, un anno in superficie positivo per il capitalismo ma nel quale i film raccontavano una storia diversa, una storia in cui il lavoro e l’ufficio risucchiavano la vita dalle persone. Un’idea che Matrix ha reso alla lettera nel suo futuro distopico di capsule che succhiano energia, un 2199 di cubicoli.

In Matrix vediamo due diverse fughe da questo mondo. La prima, nelle scene d’apertura del film, viene offerta da internet, dal mondo dello hacking. Thomas Anderson/Neo (Keanu Reeves) è un automa da cubicolo di giorno e un hacker di notte. Due vite diverse ognuna con un futuro diverso. Il primo è di quieta disperazione, che genera la domanda sulla natura della vita e del controllo, o, come dice il film, «Cos’è Matrix?». L’altro è quello che lo porta fuori di casa e finisce per metterlo in contatto con la risposta alla domanda, con comprensione di che cosa sia la matrice. Come è stato fatto spesso notare, la matrice stessa può essere intesa come una sorta di allegoria di internet, o almeno delle prime idee su internet.

Da un lato c’è la capacità di autoinventarsi e reinventarsi, esemplificato dall’insieme delle varie mode e dei vari stili che i “sé digitali” indossano quando sono dentro Matrix: completi, impermeabili e occhiali da sole che sfidano la gravità, uniti all’ideale della diffusione e persino della democratizzazione della conoscenza attraverso la digitalizzazione.

È un mondo in cui chiunque può sapere qualsiasi cosa con il semplice tocco di un pulsante, persino il kung fu. Dall’altra parte, l’ubiquità della sorveglianza e del controllo: gli agenti sono ovunque e tutto viene monitorato. Il successo di Matrix non è stato solo nella sua capacità di catturare la frustrazione del mondo dei cubicoli, ma ha anche iniziato a tracciare nell’immaginazione i nuovi spazi di fuga e controllo che venivano definiti da tanti cubicoli su tanti schermi di computer: lo spazio del mondo virtuale. Internet è stato in molti modi guidato da una linea di rotta, un tentativo di sfuggire al cubicolo, anche se queste linee di rotta si sono concluse con persone attaccate ai laptop, che cercano di trovare nuovi modi per distruggere le industrie per poter sopravvivere.

Quando Matrix Resurrections inizia, quelle due identità e quelle due vite (impiegato di giorno/hacker di notte) vengono fuse in una sola. Vediamo Thomas Anderson, designer di videogiochi di successo. Ha progettato tre giochi Matrix di successo. Non lavora più in un cubicolo, ma in un ufficio d’angolo di uno spazio di lavoro aperto e “divertente” come ci si aspetterebbe, con tanto di caffetteria annessa, Simulatte, che funge da sua necessaria estensione. I computer non sono più quelle macchine grigie e spente di giorno e luogo di evasione clandestina di notte, ma sono entrambe le cose contemporaneamente. La frustrazione e la noia non portano più alla ricerca delle vere fonti di controllo sulla società, ma verso l’evasione, come ammesso da uno dei colleghi di Thomas che ha rischiato di non superare la scuola media a causa di tutto il tempo trascorso su Matrix. L’evasione non è più quella di una volta, né lo è il controllo.

Si parla molto della meta-natura del quarto film. Inizia con la Warner Brothers che chiede un nuovo sequel di Matrix, e ci ricorda che anche quei film che catalizzano le nostre fantasie di evasione, di far saltare in aria i cubicoli in cui lavoriamo, vengono realizzati solo se possono generare profitto.

Molti hanno interpretato questa scena come l’espressione da parte di Lana Wachowski della propria riluttanza a essere riportata al suo franchise di successo. Funziona anche come una sorta di teoria degli stessi blockbuster movie, o per lo meno degli albori dell’era dei blockbuster. Come recita un personaggio durante la riunione «dobbiamo pensare bullet time», riferendosi all’effetto speciale del primo film che rallentava il tempo permettendoci di guardare i personaggi schivare i proiettili. La storia dei blockbuster, in particolare dei film sci-fi, è spesso quella in cui le immagini di un futuro di fantascienza sono rese possibili da innovazioni tecnologiche realmente esistenti fuori dallo schermo. Pensate a Terminator 2 e al metallo liquido del T-1000, a Jurassic Park e ai dinosauri in CGI, a Matrix e ai proiettili al rallentatore come nuova rappresentazione dell’azione.

Una volta, ogni nuovo film doveva trovare un nuovo espediente per poter diventare un successo, qualcosa che portasse le persone alle proiezioni. I film contemporanei sui supereroi, o, per essere più precisi, gli Intellectual Property movies se includiamo i film di Guerre Stellari, sembrano aver reciso questo legame: utilizzando grosso modo la stessa CGI, portano le persone in sala a guardare il prossimo episodio non tanto per gli effetti spettacolari, quanto per vedere finalmente questo o quel personaggio tornare o apparire per la prima volta. Da qui l’importanza delle scene post-credit.

Questa teoria dei blockbuster e sul loro ruolo mutevole non è un inciso, ma ci riporta alla natura stessa del film, al modo in cui teorizza il controllo e al modo in cui lo mette in atto. Matrix Resurrection è in un certo senso un blockbuster senziente, consapevole dei limiti che deve affrontare e delle possibilità che apre. La battuta sul pensare “bullet time” è un aspetto della sua autocoscienza e limitazione.

Non c’è nessun nuovo effetto che marchi la distanza dai tre film originali, almeno non qualitativamente diverso: il bullet time, il tempo di volo dei proiettili, viene esteso per consentire un monologo.

Per riprendere quanto detto da David Graeber nel link citato poco fa, c’è stato un momento in cui l’unica linea retta evolutiva del progresso tecnologico era negli effetti speciali: non ci siamo avvicinati all’esplorazione del sistema solare o alla costruzione di maggiordomi robot, ma le rappresentazioni di astronavi e robot sullo schermo sono migliorate anno dopo anno. Forse c’è addirittura un rallentamento nel tasso di evoluzione degli effetti speciali. La mancanza di innovazione tecnica dietro lo schermo è accompagnata dal goffo tentativo del film di affrontare i cambiamenti tecnologici nel mondo da quando è uscito in sala per la prima volta. Ci sono alcune battute sul fatto di non aver più bisogno della linea fissa come interfaccia tra la matrice e il mondo reale.

La matrice dell’ultimo film è contemporaneamente più definita spazialmente (si presenta come una città specifica, San Francisco, piuttosto che quel non-luogo indefinito che caratterizzava il primo film) e disconnessa, visto che è possibile andare a Parigi, aprire una porta e ritrovarsi su un treno a levitazione in Giappone, ma questo non è distinguibile dai cambi di scenario tipici del thriller come genere. L’unico momento nel quale il film sembra riflettere sul cambiamento del moderno internet è che gli agenti del precedente film, le veloci e letali forme di controllo che potevano apparire ovunque, sono sostituiti da “bot” che possono apparire ovunque e in gran numero. Sciami di ostilità programmata che sembrerebbero essere tanto importanti per considerare l’odierno internet dei social media come il controllo diffuso della sua versione precedente.

Sia il film originale che la sua ultima rappresentazione contengono quelle che si potrebbero definire affermazioni da tesi sulla natura del controllo.

La prima ci viene dall’agente Smith che ci offre quanto segue come spiegazione della matrice:

«Tu sapevi che la prima Matrix era stata progettata per essere un mondo umano ideale? Dove non si soffriva e tutti quanti erano felici e contenti. Fu un disastro. Nessuno si adattò a quel programma, andarono perduti interi raccolti. Tra noi ci fu chi pensò a errori nel linguaggio di programmazione nel descrivere il vostro mondo ideale, ma io ritengo che, in quanto specie, il genere umano riconosca come propria una realtà di miseria e di sofferenza».

Questa idea che gli esseri umani siano controllati non da un ideale, da una qualche versione idealizzata del mondo, ma da desideri e paure, speranza e paure è tornata di nuovo. Come dice l’analista nell’ultimo film. È tutta una questione di finzione. Il mondo di cui vi importa è solo qui dentro (indicando la testa) e voi umani credete a qualunque stronzata. Perché? Cosa dà alle vostre finzioni la patente di realtà? I sentimenti». A cui aggiunge in seguito: «I sentimenti sono più facili da controllare dei fatti». Questa frase potrebbe essere intesa come un’affermazione accademica sui cambiamenti che internet ha attraversato dal primo film: da un conflitto sul controllo sulla conoscenza e sull’informazione, o quanto meno sulla proprietà intellettuale (Napster e Matrix sono usciti lo stesso anno), all’internet dei social media, guidato meno dai conflitti per il controllo sulle informazioni che dal controllo attraverso la rabbia, la speranza e la disperazione.

Questa è un’interessante affermazione su internet, ma è difficile che funzioni nel film. Ci sono alcuni aspetti interessanti del controllo emotivo sia attraverso la critica del film alla terapia e agli psicofarmaci come forma di regime di controllo che, più precisamente nel caso di Trinity, della famiglia come forma di controllo emotivo.

Il film in realtà non li approfondisce fino in fondo, non ci offre davvero una mappa delle forze del controllo emotivo o affettivo che dominano la vita moderna. Il perché ci viene dato nelle scene post-credit, che non riguardano tanto l’impostazione del prossimo sequel, quanto la spiegazione della fine del film stesso. I sentimenti non hanno più bisogno di una struttura narrativa quando un video di un gatto o un meme possono farlo più velocemente.

A quanto pare, Matrix Resurrections non ha avuto lo stesso successo dei suoi predecessori. Per quanto mi riguarda, sono stato contento di averlo potuto guardare a casa, ma una settimana prima della sua uscita milioni di persone sono tornate al cinema per vedere l’ultimo film di Spider-Man. Fare festa insieme ad altre persone. Forse, e questo va oltre lo scopo di questo post, quelli che ho definito «intellectual property movies» devono essere analizzati nei termini della loro stessa economia affettiva, della loro combinazione di speranze e paure, o, più precisamente, della nostalgia come emozione.

Articolo originariamente apparso sul blog Unemployed Negativity

Traduzione dall’inglese di Michele Fazioli per DINAMOpress