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L’ordine neoliberale e il suo rovescio

Nel suo ultimo libro di De Carolis (Il rovescio della libertà, Quodlibet, 2017) riannoda i fili della genealogia del neoliberalismo, scorgendone il suo tramonto

Domandarsi quale sia lo stato di salute del neoliberismo, dopo un decennio di crisi, è assolutamente lecito e necessario. De Carolis, in Il rovescio della libertà questa interrogazione se la pone e, già dal sottotitolo, ci offre anche una risposta: il neoliberalismo sta vivendo il suo tramonto. La logica, il ragionamento su cui il pensiero neoliberale si è formato e sviluppato, sta subendo una drammatica torsione che non può non comportarne il suo rovescio. A spingere il neoliberalismo verso il suo inesorabile tramonto – ci dice De Carolis – non sono le urgenze economiche o gli equilibri politici fluttuanti, ma principalmente la sua incapacità di riconoscere, capire e governare fino in fondo proprio la dimensione antropologica primaria che esso stesso ha contribuito a far emergere.

Il suo è un testo estremamente importante che aggiunge un fondamentale tassello nella critica al neoliberalismo. Il grande pregio de Il rovescio della libertà è quello di aver compreso, fino in fondo, la novità di questo pensiero, di aver messo al centro dell’interpretazione quel momento di rottura che entrambe le anime del neoliberismo – Mises e Hayek come gli ordoliberali – hanno intuito, analizzato e agito. Riprendendo l’enorme cantiere di lavoro che Foucault aprì un quarantennio addietro, De Carolis fa emergere come questi autori, già nella prima metà del Novecento abbiano cercato di dare risposta a un problema di fondo. Gran parte della ricerca, presentata in questo libro, ruota intorno al tentativo, ben riuscito, di definire qual è la questione epocale che questi autori riescono a intercettare e a cogliere.

È di fronte alla tendenza alla dinamizzazione dell’ordine sociale – il vettore che accomuna i maggiori processi sociali innescati dalla modernità avanzata – che va cercato questo problema. L’ipotesi che ci pone è che, nella tarda modernità, la vita collettiva abbia accentuato a tal punto il proprio carattere di possibilità, di virtualità e di potenza, da portare inevitabilmente il calcolo e la gestione strategica delle possibilità, delle opportunità e dei rischi al cuore di tutte le forme di vita emergenti. In questa linea di rottura, i neoliberali furono tra i primi a convincersi non solo dell’irreversibilità dell’evoluzione in atto, ma anche dalla necessità di affrontare il problema alla radice, «spingendosi a immaginare un meccanismo di civilizzazione davvero alternativo a quello di Hobbes, che non si concepisse più come negazione dello stato di natura ma come un progressivo governo dall’interno. E furono gli unici a tradurre questa intuizione in un progetto coerente, più o meno edulcorata dalla macchina sovrana messa a punto nel Leviatano» (p. 22).

Il problema a cui tentano di offrire una risposta – sia gli austroamericani che i tedeschi –  è proprio quello del governo, della coordinazione e dell’ordine in una società pluralista e globale, il tentativo di rispondere alla crisi radicale della civiltà moderna. Il programma che i neoliberali mettono in campo ha come cuore pulsante il tentativo di superare il bivio della crisi, che il moderno assume costitutivamente. Dover troncare, recidere all’origine l’urgenza di una decisione vera e propria, in modo da affidare al governo tecnico dell’emergenza il compito di pilotare l’ordine sociale verso il suo equilibrio “cosmico”, sarà l’obiettivo che si pongono. Proprio quello che, viceversa, Carl Schmitt non riuscì a fare. Pur riconoscendo l’urgenza di un nuovo ordine sociale, il giurista tedesco non andò oltre allo sgretolamento del vecchio sistema, rimanendo affascinato dallo spettacolo del disfacimento dell’equilibrio europeo, dal tramonto della sovranità e dall’agonia del grande Leviatano.

L’organo di governo – nella teoria neoliberale – riesce a spogliarsi dell’onere e del monopolio della decisione, non ha più la necessità di imporre le proprie decisioni con la forza. La nuova prospettiva dell’azione di governo prende di bersaglio la normalità in se stessa: «l’ordine cosmico disegnato dalle convenzioni tacite che innervano la vita collettiva, può essere istituito, pilotato, governato in modo che un numero crescente di funzioni sociali sia affidato alla semplice coordinazione spontanea, automatica e “acefala” della moltitudine» (p. 89). La vera novità di portata antropologica indotta dal neoliberalismo, su cui De Carolis spende pagine importanti, è proprio questa tendenziale fusione del mercato e della vita in uno stesso paradigma: un modello di gioco comunicativo e produttivo che Mises prima e Hayek, in modo più consistente poi, propongono di designare col termine “catallassi”. È nel carattere “cosmico” dell’ordine di mercato, in cui la centralità dello scambio economico entra e pervade tutta la vita sociale, che emergere il carattere propriamente biopolitico.

Come mai allora questa libertà si rovescia? Come mai la fragile antropologia che emerge viene travolta da un enorme disagio? De Carolis è chiaro a proposito: forme di rifeudalizzazione e di decisionismo riemergono, l’ordine cosmico neoliberale si ribalta su sé stesso. La sovranità moderna si riafferma. La soggettività individualizzata e concorrente, riassume quel disagio della tarda modernità.

Qui però sorgono alcune perplessità. Pur riconoscendone la problematica e non potendo non vedere come alcune tendenze contemporanee mettano in tensione e ripropongano forme di sovranità apparentemente antiche, non possiamo però non assumere una prospettiva più storicizzata, che ci riporta agli ultimi dieci anni di crisi. Dal 2008 a oggi, le politiche d’intervento sui mercati europei e statunitensi sono state imponenti. Abbiamo avuto sotto i nostri occhi salvataggi statali di colossi bancari, così come enormi versamenti di liquidità ai privati da parte delle banche centrali. Ma di fronte a questo non vediamo una fine, casomai spostamenti e ridefinizioni di questo nuovo potere biopolitico.

Leggere la prassi neoliberale e gli effetti che essa origina mettendo in secondo piano il suo carattere di economia politica, annullando il governo della produzione, della valorizzazione e dell’accumulazione, non fa riflettere su quello che è stato uno dei più imponenti regimi di accumulazione della storia, della messa a valore dell’intera vita e della società e che la decennale crisi non ha fatto che estendere e intensificare.

La consapevolezza, teorica e politica, dei neoliberali su questo elemento è molto ampia. Nonostante le letture di un autore come Hayek abbiano insistito maggiormente sulla scoperta dell’elemento catallattico, cosmologico, come macchina di governo della competizione dei soggetti individualizzati, non viene meno un secondo asse, che sorregge pensiero e prassi, ovvero la riflessione su come garantire la sopravvivenza e lo sviluppo del capitale. In Mises e Hayek imprescindibile era – e rimane tutt’ora – evitare consumo di capitale. Scrive Hayek,

«Due tipi di misure possono colpire i proprietari di capitale, e sono in grado di provocare un consumo di capitale così grande da rendere la riduzione del capitale nell’intera economia un serio problema. Da un lato, vi sono gli interventi diretti dello Stato che mirano a convertire il capitale in reddito, quali le imposte sul patrimonio e le tasse di successione. Dall’altro, vi sono misure che conducono ad una situazione in cui l’ammontare dei redditi speso per il consumo eccede il prodotto netto dell’economia per un lungo periodo di tempo, di modo che il capitale viene gradualmente consumato» (F. Hayek, Prezzi e produzione, p. 105).

Il problema, per questi autori, è il reddito percepito dal lavoro vivo. Se si vuole un capitale forte, un capitale che non viene consumato, esso non deve essere ridistribuito in forma di redditi, salari e servizi. La pratica politica neoliberale, il suo governo, non può essere slegata da questo fondamento. Anche il più violento interventismo, se assicura la concentrazione e accumulazione di capitale – la vita dell’ordine catallattico – è accettato e benvenuto. È tutto interno alla sua logica e alla sua previsione.

Pensare la rottura con il neoliberalismo, con i processi di austerità violenta che da anni vengono imposti, a questo punto significherà scardinare la soggettività precaria, individualizzata e indebitata impostaci da decenni di politiche economiche e sociali, cercando far riemergere quella capacità riappropriativa di salari, reddito e servizi che anni senza gloria hanno attaccato e represso.

Purtroppo non sarà sulla sua logica che il capitale neoliberale tramonterà.