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L’intollerabile attuale o dell’attuale intollerabile

In “Ripoliticizzare il mondo Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale” (ombrecorte) Didier Fassin usa l’antropologia per dare una risposta originale alla questione politica mettendo insieme attenzione per il quotidiano e ambizione di comprendere il contemporaneo.

Leggendo il biopotere come potere della vita, Fassin chiarisce che è la vita stessa a essere politica, e poiché le vite non sono tutte uguali, compito della politica è ripoliticizzarle: fare in modo che gli individui possano decidere sui loro corpi e sul tipo di vita che vogliono o non vogliono vivere

In Occidente la concezione dell’intollerabile – termine che, riecheggiando l’inconcepibile e l’inammissibile, ha finito per indicare in direzione del genocidio – ha contribuito a istituire la categoria recente di umanità e i suoi corollari umanitari. La governamentalità moderna e contemporanea, infatti, si è fin da subito, seppur progressivamente, autodeterminata come un’economia politica fondata sui diritti dell’uomo e sui crimini contro l’umanità. Questo dispositivo morale si è dapprima scontrato con l’alterità di mondi ritenuti selvaggi e primitivi e, proprio per questo, da umanizzare, secondo la logica e le prassi coloniali. In un secondo momento, tuttavia, soprattutto dopo l’orrore nazista, il concetto di umanità, da proprietà esclusiva della civiltà – della civiltà che si fa Storia – è diventato sinonimo di inclusività, fino a costituirsi come simbolo morale atto a garantire a tutti gli umani le prerogative delle cosiddette politiche della vita.

Se il climax dell’espansionismo capitalista occidentale è stato caratterizzato dalla confisca di beni e corpi di altr* lontan*, si può affermare che successivamente tale requisizione si è rivolta anche contro l’umanità che aveva inventato l’umanità stessa. È infatti nel momento in cui la civiltà occidentale assurge al suo più alto grado di sviluppo tecno-politico e in cui la propaganda della sua presunta superiorità morale si fa egemone che si materializza, dentro il suo spazio politico e giuridico, il campo di concentramento: uno tra i più intollerabili tra gli intollerabili della storia dell’umanità. Attualmente, sebbene le retoriche dei diritti umani continuino a mascherare l’etnocentrismo democratico e l’esportazione a basso costo del modello di vita occidentale, si potrebbe affermare che l’intollerabile si sia frastagliato in una pluralità di intollerabili che colpiscono l’inviolabilità dei corpi sfruttati e sottomessi attraverso due tipologie di regime bionecropolitico: la sanzione e la guerra. Gli Stati occidentali, per esempio, regolano i flussi migratori dentro i propri confini attraverso l’amministrazione dell’accoglienza di individui considerat* come mere risorse da mettere a profitto, mentre fuori da quegli stessi confini continuano a esercitare il proprio dominio sui mondi altri e lontani attraverso guerre, dirette o per procura, che non fanno che alimentare all’infinito l’antico e mai superato processo di civilizzazione.

Ripoliticizzare il mondo. Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale, raccolta di saggi di Didier Fassin, che Chiara Pilotto ha messo in ordine con mano sapiente e che ombre corte ha avuto l’accortezza di ripubblicare, intende indirizzare l’attenzione esattamente sull’ingombrante ed invisibilizzata contraddizione che si cela dietro il paravento democratico della ragione umanitaria. Le politiche della vita – già prese in esame, tra gli altri, da Foucault e Agamben, criticati dall’antropologo francese per la loro indisponibilità a interessarsi dei problemi reali delle vite infami – costituiscono per Fassin il nodo che gli consente di riformulare la questione del biopotere in termini di biolegittimità. Se, infatti, la prospettiva foucaultiana intendeva fare luce sulla forma moderna di governamentalità occidentale come organizzazione, amministrazione e controllo della popolazione, Fassin analizza il biopotere, interrogandone i dispositivi vivi – tutto ciò che fa la vita, ciò che la regola, la contiene, la mantiene, la sostiene e, in molti casi, l’abbandona o la mette a morte – indispensabili a legittimare una vita degna di essere vissuta: a chi va garantito il diritto alla casa, al lavoro e alla salute, per fare solo qualche esempio? «Quello che la politica fa alla vita – e alle vite – non è solo una questione di discorsi e tecnologie, di strategie e tattiche. Riguarda anche il modo concreto in cui individui e gruppi sono trattati, sulla base di quali dottrine e in nome di quali principi morali, e quale tipo di disuguaglianze e di mancanza di riconoscimento venga così prodotto» (p. 39). L’antropologia di Fassin, insomma, ha più a che fare con la politica che con la cultura e, leggendo il biopotere come potere della vita, chiarisce che è la vita stessa a essere politica. Di conseguenza, poiché le vite non sono tutte uguali, compito della politica è ripoliticizzarle, fare in modo che gli individui, intesi non solo come popolazioni astratte ma come corpi in carne e ossa, possano decidere il tipo di vita che vogliono o non vogliono vivere.

Nel saggio Oltre la biopolitica, Fassin instaura un dialogo con Foucault, proponendo quattro punti che ne problematizzano il lavoro: 1. La politica non è solo l’arte di governare, ma un’amministrazione che performa le vite di tutti e di ciascuno; 2. In questo senso, le società contemporanee sono caratterizzate da un potere volto a legittimare, cioè a stabilire chi, come e quando abbia il diritto di vivere una vita degna di essere vissuta; conseguentemente, 3. La biopolitica ha senso solo in rapporto alle disuguaglianze; e, per finire, 4. Bisognerebbe capire come senso e valore, due concetti chiave della filosofia nietzschiana, che già Deleuze aveva riportato alla luce, costituiscano i parametri attraverso cui la governamentalità liberista classifica i propri cittadini in base a caratteristiche economiche, geografiche, religiose e politiche, ecc.. Il far vivere è, quindi e immediatamente, anche il respingere nella morte.

Per dare corpo al concetto di biolegittimità, Fassin si serve di molteplici esempi tratti dal suo lavoro sul campo condotto in tre diversi continenti e nell’arco di molti anni. L’analisi dell’epidemia di Aids in Sudafrica nel periodo 2000-2005, per esempio, ci restituisce le profonde disuguaglianze che caratterizzano gli accessi alle cure e ai farmaci antiretrovirali che il regime dell’apartheid aveva prodotto e sostenuto. L’antropologo francese può così affermare che la questione della biolegittimità acquista senso e valore politici in quanto entra a contatto con le diseguaglianze reali che decidono tra vita, sopravvivenza e morte. Per Fassin, riprendendo le considerazioni espresse da Derrida nella sua ultima intervista concessa a Le Monde nell’agosto del 2004, poco prima di morire, la sopravvivenza dovrebbe perdere l’accezione mitopoietica attribuitale dal capitalismo liberista, che destoricizza l’oppressione mantenendola dentro la cornice della vittimizzazione, e acquisire il valore e il senso di una vita oltre la morte. Continuare a vivere, per Derrida, significa ripristinare il ruolo politico dell’immagin/azione. Il caso di Mesias, incontrato da Fassin a Soweto, è a tal riguardo emblematico. “Grazie” alla malattia, Mesias ottiene un riconoscimento economico e quindi «una “vita normale”», nelle due accezioni di «ordinaria» e «morale»: una casa in affitto, cibo e relazioni stabili. «La malattia diventò una risorsa sociale, non solo per i suoi vantaggi economici ma anche per le sue implicazioni morali e civili» (p. 57)

Nel saggio Intollerabili antropologici, Fassin fa leva sul racconto di Kafka Nella colonia penale per evidenziare che la violenza fondativa dello Stato è inesorabilmente inscritta nei corpi de* cittadin*. La lettura antropologica del racconto offerta da Pierre Clastres in La società contro lo Stato, che “vede” il corpo come una pagina bianca su cui incidere le tavole della legge, è indice della nascita di un nuovo intollerabile e, insieme, della fine di un mondo. Ma questa lettura, ci ricorda Fassin, è ancora viziata dai preconcetti etnocentrici che condizionano i ricercatori occidentali. Se Kafka può ancora interpellarci non è perché critica la società del suo tempo, ma perché le sue storie prefigurano le nostre storie. L’imbarazzo antropologico occidentale nei confronti di usi, costumi e comportamenti considerati “barbari”, quali il  kañaalen, rito praticato dai Diola della Casamance in Senegal, è il sintomo di un’interrotta presunzione di superiorità morale.

Il kañaalen è un rituale la cui interpretazione occidentale dimostra sia l’ambiguità ideologica con cui la tradizione umanitaria affronta i rituali di afflizione dei mondi lontani sia l’etnocentrismo con cui siamo soliti approcciare questioni incandescenti come quelle relative ai limiti del tollerabile che le società altre si assegnano. Come scrive Fassin, la questione dell’intollerabile andrebbe affrontata dal punto di vista antropologico e, si badi bene, questo non per sostenere una qualche forma di relativismo culturale/morale quanto per far propria una più feconda lettura “emica”, «ovvero una lettura che tenga conto delle categorie indigene» (p.115). Il kañaalen prevede la messa in atto di pratiche di “inversione” nel momento in cui la sopravvivenza del mondo diola è in pericolo. Quando «molti dei suoi figli muoiono successivamente in tenera età; quando ripetute gravidanze sono interrotte da aborti spontanei; quando un lungo periodo in cui non rimane incinta fa temere una sterilità» (p. 117), la donna diola viene esiliata dalla comunità di appartenenza e allontanata dal proprio nucleo famigliare per essere adottata da una nuova famiglia. In questo spazio-tempo sospeso, le donne colpite dal bando, dopo essere state sottoposte a diverse forme di maltrattamenti, iniziano una nuova vita da «travestite» (p. 117), vita che «realizza una triplice trasgressione delle frontiere che separano gli uomini e le donne, l’umanità e l’animalità, la vita e la morte» (p. 116). «Le tre frontiere naturali più importanti […] vengono così simbolicamente superate. Ciò rimanda alla cruciale posta in gioco costituita dalla conservazione del gruppo – o, meglio, dalla rappresentazione di ciò che la potrebbe minacciare» (p. 122). Non siamo poi così lontani dal lavoro ricostituente che Ernesto De Martino assegna a quelle istituzioni culturali nostrane, dal magismo ai pianti funebri, passando per le coreografie de* tarantolat*, in grado di fronteggiare con successo, entro determinate cornici storico-geografico-culturali, le fini dei mondi.

Fa allora bene Fassin a recuperare un po’ di storia recente per mostrarci invece l’incapacità ricostitutiva dell’umanitarismo, in cui si trovano implicate asimmetrie spaventose, inique e letali. Pensiamo, per esempio, alle cosiddette guerre umanitarie promosse dall’interventismo militare di matrice NATO: intollerabile qui significa, calcoli alla mano, che un caduto occidentale conta più di centinaia di vittime civili “loro”. Queste operazioni, al pari di altre, enunciano insomma «principi di distinzione e di gerarchizzazione tra categorie di umanità, sulla base del calcolo del prezzo delle vite di ciascuna di esse», in cui non viene tanto messa in discussione la loro umanità, quanto piuttosto si sottolinea che «il metro di misura del valore dell’esistenza umana sia un’economia delle grandezze dell’intollerabile» «il principio di non equivalenza delle vite si esprime perciò con brutalità nell’enumerazione dei morti di guerra: estrema precisione contabile, da un lato; considerevoli fluttuazioni statistiche dall’altro» (p. 140). In altre parole, oggi non è più in questione il diritto umanitario universale – nessun* è considerat*, almeno teoricamente, inumano – ma l’eterogenea applicabilità di tale diritto che distingue tra chi «bisogna “far vivere” e chi conviene “far morire”». «Questa legge presuppone due principi: un principio di differenza, che istituisce la separazione tra coloro la cui vita è sacra , e coloro le cui vite possono essere sacrificate; e un principio di indifferenza, che subordina la protezione dei secondi all’assenza di ogni rischio per i primi» (p.141). Il nuovo ordine mondiale, sottolinea Fassin, prevede pertanto che se “noi” siamo umani come “loro”, le “nostre” vite comunque contano/valgono molto più delle “loro”.

Ripoliticizzare il mondo acquista ulteriore senso e valore se letto alla luce di quanto sta succedendo sul fronte delle normative sempre più repressive in materia di immigrazione e diritto di asilo. Le politiche della vita adottate dai paesi occidentali – e il “caso Italia” con l’attuale esecutivo reazionario ne è una delle rappresentazioni più evidenti – si sono concentrate, oltre che sui classici respingimenti, sui dispositivi atti a «trattenere il più a lungo possibile [gli] stranieri nella zona dello spazio morale in cui la loro vita è sacrificabile (in Paesi dove precisamente i diritti umani non vengono rispettati) e di evitare che raggiungano l’altra zona, dove la loro vita diventerebbe sacra (diritto umano fondamentale che a quel punto non si potrebbe più contestare)» (pp.142-43). Il caso della Libia – con cui l’Italia continua a fare affari scambiando corpi da controllare o sfruttare con tecnologie per dissuadere chi pensa di poter fuggire da guerre, fame e discriminazioni –, ormai diventata un enorme campo di concentramento a cielo aperto, e quello della Turchia – con cui l’Unione Europea stipula accordi per bloccare i flussi migratori provenienti da Est – sono qui a dimostrarlo con oscena chiarezza.

Nel momento in cui, come scrive Marcuse, «le categorie della libertà sono divenute intercambiabili con i loro opposti», la narrazione egemone trasforma la falsa coscienza in verità incontestabile. Indicativo, a tal proposito, è il fatto che i provvedimenti dei governi occidentali in materia di diritto di asilo e di protezione speciale siano sempre più svuotati da quelle garanzie in grado di permettere la conduzione di esistenze vivibili. In questa atmosfera irrespirabile, l* richiedenti asilo, per ottenere la documentazione necessaria alla loro inclusione sociale, devono raccontare e mostrare il loro corpo sofferente alle autorità competenti, sollecitandone, visto che non vi sono altre vie per sopravvivere, la generosità amministrativa. In tal modo, ci ricorda Fassin, la malattia prende il sopravvento sullo stato sociale e la confessione del disagio fisico e psicologico, ben oltre Foucault, è diventata fonte di verità. Il riconoscimento anagrafico de* stranier* passa dalla certificazione del suo calvario biografico. «La nuova economia morale deriva in realtà da una duplice costruzione: dell’umanità come specie, unica e singolare all’interno della natura, e che riunisce l’insieme degli esseri umani, per quanto diversi essi siano; dell’umanità come sentimento, definita da diritti naturali accompagnati da doveri reciproci, ma forse, in modo più fondamentale da un destino condiviso» (p.144). È per questo che la libertà di tutti gli esseri umani è sempre una libertà plurale: è la libertà di ciascun* di scegliere i modi in cui intende abitare il mondo di tutt*.

In copertina e nel testo alcune immagini del film “Bacurau” di Kleber Mendonça Filho