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MONDO

L’India nella pandemia: moltiplicare i confini, rafforzare la nazione

Lo shock delle dichiarazioni di Modi del 24 marzo ha segnato una battuta d’arresto per l’economia indiana e un punto di non ritorno per le vite di milioni lavoratori informali. Le immagini riportate dai media internazionali dell’esodo di massa di decine di milioni di migranti hanno di certo prodotto un notevole impatto sull’opinione pubblica globale. Lasciando da parte le miserevoli narrazioni paternalistiche dei maggiori media del nostro paese, per parlare di questo esodo bisogna innanzitutto partire dalla materialità delle vite dei migranti.

Questo articolo è la seconda parte di un approfondimento sugli effetti della pandemia nel subcontinente indiano. Il primo long form Il subcontinente in stallo: l’India nella pandemia  sviluppa una critica dell’economia politica del lockdown ed apre uno sguardo sulle tensioni che attraversa il paese.

 

Vite in esodo

Cosa significa essere lavoratrici e lavoratori informali? Quali sono i vissuti che precipitano in questa categoria?

Non ci possono essere risposte univoche a questa domanda, si può solo cercare di definire dei tratti dalle maglie abbastanza larghe per far emergere le molteplicità che attraversano il subcontinente e precipitano in uno spazio-tempo comune. Senza affrettarsi nell’imporre facili definizioni occidentali, c’è da riconoscere la strutturazione socio-economica delle condizioni postcoloniali all’interno del sistema neoliberale, nelle differenze che esso pone in essere per estrarre la maggior quantità di valore possibile. Allora si possono trovare elementi che spiegano tale condizione di vita: per esempio, la vacuità della definizione delle sfere del lavoro formale, l’informalità come carattere di distinzione nei settori in cui vi è una maggiore estrazione di valore e nell’indagine della composizione della forza-lavoro impiegata in “lavori di transito” – accezione data da Samaddar che include lavoro nelle/per la costruzione di infrastrutture, lavoro logistico e lavoro migrante non qualificato. Partendo da quipossiamo cercare di comprendere cosa ha mosso questi esodi.

Con il lockdown le metropoli si fermano, il Gange riacquisisce un colore quasi naturale e da New Delhi si riesce a scorgere un orizzonte che non sia un miraggio. Tutto è fermo, le strade sono vuote, come anche i cantieri e i mercati.

 

Le masse di lavoratrici e lavoratori che facevano vivere l’economia del paese non hanno più alcuna motivazione per restare: le loro paghe sono sospese a tempo indeterminato, le trattenute sugli stipendi restano salde nelle tasche dei loro padroni. Il ricatto del lavoro si rivela in una delle sue dimensioni più drammatiche: senza salario non c’è possibilità di riproduzione sociale.

 

Senza soldi per restare in città, senza una casa che non sia in una baraccopoli o un rifugio di fortuna per strada, la via del ritorno a casa risulta essere l’unica scelta possibile. Nelle città deserte si riescono a scorgere solo lunghe file per i negozi alimentari o per la distribuzione di cibo, dove si può stare per poco tempo prima di incorrere nelle violenze della polizia deliberata a mostrare la faccia dura dello Stato. Le implorazioni del Sindaco di New Delhi Aarvind Kejriwal di rimanere in città sono l’altra faccia delle scuse per il disagio del Premier Modi: entrambe inutili parole rivolte ai milioni di persone senza alcuna possibilità d’esistenza nelle città.

Con mezzi pubblici e treni bloccati non resta che mettere le gambe in spalla e intraprendere il viaggio di ritorno, attraversando autostrade deserte o binari ferroviari; senza connessione internet o cartine queste sono le uniche coordinate disponibili per orientare l’esodo degli invisibili. Nel mese scorso, si sono susseguite notizie di treni pagati dallo Stato federale per far tornare i migranti a casa dagli Stati in cui sono trattenuti, opzione che davanti alla realtà dei fatti si è rivelata impraticabile per la necessità per le imprese di avere forza-lavoro in seguito all’allentamento del lockdown o semplicemente perché il Governo federale non sta pagando viaggi di ritorno.

Solo il 12 maggio il Governo ha messo a disposizione 15 treni speciali per permettere ai migranti di tornare negli Stati di provenienza. Una riapertura parziale per numero di treni destinati e possibilità d’accesso, dato che su molte tratte il prezzo del biglietto resta elevato. Il viaggio di ritorno pone i migranti davanti al bivio fra rischiare di restare nella città dove si lavora o di contrarre il virus nel viaggio di ritorno.

 

I confini fra gli Stati vengono sigillati, con la motivazione che è necessario far sì che ognuno rimanga dov’è per evitare la diffusione del virus, segnando il discrimine fra la vita e la morte: attraversare la linea significa avere qualche possibilità di continuare a vivere, restare chiusi dall’altra parte diminuisce le probabilità di sopravvivere.

 

 

Con gli Stati che hanno costruito con ritardo e molteplici inefficienze campi d’accoglienza per migranti, interrompere l’esodo può voler dire finire in balia della fame, della polizia o della morte. In questi luoghi le misure di contenimento del virus, i test sanitari e le condizioni igieniche stentano a essere garantite.

Durante questi viaggi le necessità primarie di avere un rifugio per la notte, acqua e cibo diventano di difficile reperimento. Il rifugio notturno diventa anche luogo del delitto, come nel caso dei 16 migranti che riposavano sulle rotaie, non essendo a conoscenza della ripresa della circolazione parziale, travolti da un treno nella notte dell’8 maggio. Nessuna parola è stata spesa per loro da parte delle istituzioni e del Governo.

Il razionamento per i migranti è arbitrario ed eccezionale, dai dati precedentemente riportati si evince come la scarsità rappresenti la normalità del viaggio. Le vite dei migranti vengono annullate dalle umiliazioni delle forze di polizia: su di loro viene spruzzato diserbante spacciato per disinfettante, sono costretti a camminare carponi come punizione per l’essersi messi in viaggio ed i lacrimogeni lanciati su chi cerca di attraversare i confini rappresentano la normalità. A questi casi si accompagnano i traghettatori di terra, autotrasportatori pronti a compattare corpi nei propri camion a lauto prezzo, facendosi così beffa della disperazione dei migranti.

 

Qui il progetto nazionale attuato dalle istituzioni federali pone in essere il discrimine fra chi merita di vivere, chi può accedere a forme d’assistenza e coloro a cui viene negata dignità. Al bivio fra selezione naturale e sopravvivenza collettiva, forme di autorganizzazione e mutuo aiuto emergono dal basso nonostante le mille difficoltà del caso.

 

Nitish Mohan, membro del Comitato centrale esecutivo della Student Federation of India, durante un’intervista ha ribadito il ruolo fondamentale che stanno giocando i collettivi e le associazioni attivatesi nella pandemia: senza l’organizzazione delle forze che si muovono all’interno della società, le vite di molti migranti sarebbero state spezzate dalla miseria.

Una delle caratteristiche fondamentali dell’intervento di queste è la capacità di connettere varie esperienze agendo sulla quasi totalità dei territori cruciali del subcontinente, portando avanti iniziative di informazione, distribuendo beni di prima necessità, dispositivi sanitari, farmaci e diffondendo materiali su come autoprodurre mascherine e gel antibatterici.

Sono nate anche cucine popolari, come il Workers’ Dhaba a New Delhi che rappresenta uno degli epicentri fondamentali dell’autorganizzazione popolare. Nata con l’intento di essere«luogo di condivisione delle proprie condizioni di vita e sfidare le forze del darwinismo sociale» riesce a produrre e distribuire più di duemila pasti al giorno (menù e cifre sono consultabili quotidianamente dalla pagina Facebook Workers’ Dhaba).

Le rotte migratorie hanno cercato di rompere i confini territoriali posti all’interno del subcontinente. In questo viaggio il confine tra la vita e la morte è labile, tante sono state le vite spinte a camminare per affermare la propria volontà di vivere e alcune di queste sono state stroncate da fame, sete e fatica. Per chi riesce ad arrivare alla fine del viaggio resta da varcare il confine dello stigma dei vicini, critici nei confronti della scelta da loro effettuata e pronti a mostrare con tutta la propria rabbia la violenza dello stigma tramite il linciaggio e l’esclusione dalla vita sociale.

 

 

 

La moltiplicazione dei confini interni ed esterni

«Se le guerre hanno cambiato i confini, o più correttamente, se cambiando i confini le guerre hanno cambiato il mondo, allora vale anche per la pandemia». Verificare la veridicità di tale affermazione è tanto doloroso quanto necessario per descrivere le linee su cui si sta consolidando il progetto nazionalista di Narendra Modi e delle forze politiche che lo supportano.

I migranti sono segnati da un vissuto fatto di confinamento dalla società: esclusi dal centro, dalle città in quanto corpi altri, a cui è negato essere visibili nella società. I corpi degli uomini sporchi di lavoro devono essere subito riportati a casa; i corpi delle donne devono transitare dalle cucine del padrone alla cucina familiare, senza che sussistano altre possibilità. I confini esistenti nella società si moltiplicano al tempo della pandemia, seguendo le linee di razza, casta, genere e religione.

 

Il distanziamento fisico diventa immediatamente allontanamento, stigmatizzazione di un corpo visto come malato e diffusore di malattie, amplificando la condizione d’intoccabilità delle parti sociali più vulnerabili. I circa 8,5 milioni di donne migranti impiegate in lavori domestici sono in una condizione d’impossibilità di accedere a forme di reddito.

 

A questa esclusione si aggiunge il rifiuto della vicinanza del corpo presunto malato, visto come il nemico in casa da respingere dietro la porta. Da qui la condizione di escluse da lavoro, città e società. I dati sulle violenze sono di difficile reperimento, anche se è facile prevederne l’aumento a causa della crescita delle vendite di alcolici il cui consumo è un privilegio maschile.

La costrizione del dover restare chiuse in casa sottrae spazi di libertà dalle violenze quotidiane e dalle possibilità d’autodeterminazione. Mentre parlo con Nitish sono interrotto dallo squillo del telefono. Una volta finita la chiamata mi parla della disperazione psichica vissuta da una studentessa fuorisede, costretta a un lungo viaggio di ritorno e rimasta chiusa all’interno dei confini del Gujarat. Qui ha trovato rifugio in un dormitorio femminile a prevalenza hindu, dove è costretta a subire quotidianamente lo stigma della comunità in quanto musulmana.

 

Il confine tracciato dalla legge sulla cittadinanza viene amplificato sulla comunità musulmana.

 

Gli episodi di razzismo in seguito all’evento organizzato dall’organizzazione Tablighi Jamaat hanno fin da subito canalizzato le attenzioni dei gruppi nazionalisti hindu alla ricerca di un nemico colpevole di aver violato la comunità nazionale diffondendo il virus. Tutte le istituzioni hanno marcato la propria distanza da tali eventi, dimenticando che questi erano stati da loro autorizzati.

Alcuni esponenti del BJP hanno coniato il termine Coronajihad facendolo diventare virale in rete, mentre sulle reti televisivi a vocazione filogovernativa sono circolati servizi sul come tale evento fosse un atto di cospirazione per distruggere l’India. La propaganda non si ferma qui. La grammatica della guerra dei musulmani contro gli hindu è adottata nelle comunicazioni istituzionali e politiche del BJP.

Suresh Tiwar, sindaco di Deoria, città situata nel Nord dell’Uttar Pradesh, ha fatto girare una circolare in cui si chiede di non acquistare frutta e verdura da ambulanti musulmani: in quanto diffusori di virus questi non hanno dignità d’esistere. Nella narrazione viene creato un nemico che diffonde il virus sputando sulla merce, al fine di decimare gli hindu. Dalla comunicazione si passa immediatamente alla prassi. I gruppi fascisti della RSS hanno colto l’occasione per sfilare per strada con le proprie saffron flags per marcare il territorio, per segnalare con chi è possibile avere contatti e chi dev’essere escluso dalla società.

 

Il progetto nazionalista ha bisogno di creare una comunità interna, definendone i tratti attraverso la prassi dell’esclusione e ha soprattutto bisogno di definire i confini esterni dello Stato: al razzismo interno si deve accompagnare la volontà di potenza della nazione, l’indicazione di un nemico altro che vuole distruggere la comunità da fuori.

 

Il primo nemico individuato è il nemico comune dell’Internazionale Sovranista: la Cina. Da un’indagine condotta nel mese di marzo emerge come i rapporti commerciali con la Cina siano considerati dannosi per i 2/3 degli intervistati. I risultati dell’indagine sono accompagnati dalla definizione popolare in India del virus, come “Wuhan virus” o “Virus cinese”.

Lo stato di tensione si materializza nello scontro armato. La disputa sul confine sino-indiano nella regione del Sikkim si protrae dal 1962, con lo Stato indiano impegnato a ridefinire le linee dei confini con un gioco di egemonia politica sugli Stati del Bhutan e del Nepal – rotto dalle velleità di potere di Modi e dalla strategia diplomatica di Xi Jinping – e la Cina che reclama come territorio del Sud del Tibet lo Stato dell’Arunachal Pradesh.

Lo scontro politico sui 3488 km di confine continua fra pacificazioni e scontri politici, a cui seguono sporadiche riprese degli scontri a fuoco fra le truppe al confine, come successo nel 2017. Il 5 maggio la situazione si è di nuovo aggravata, portando i circa 250 soldati schierati nei pressi del lago di Pangog Tso a uno scontro a fuoco, in cui sono state ferite alcune decine di militari. Gli scontri armati sono poi ripresi, seppur con un minor numero di truppe schierate, il 9 maggio nei pressi di Naku La.

Gli sconfinamenti proseguono anche nel Nepal, dove il Ministro della difesa indiano, RajnathSingh, approfittando della carenza di mappe che definiscano precisamente i confini nepalesi, ha fatto costruire una nuova strada nell’Himalaya. All’inaugurazione sono seguiti dissidi diplomatici, dato che il Governo di Kathmandu non vuole avviare alcuna trattativa stante la mancanza di affidabilità del Governo indiano.

 

L’allineamento segue la doppia linea della definizione del nuovo nemico dalle caratteristiche cinesi e l’attacco diretto al Pakistan – partner economico della Cina nel progetto della nuova via della seta, avversario nella disputa sul confine settentrionale e nei “territori contesi” del Kashmir.

 

La campagna di attacco al Pakistan arriva sul palcoscenico internazionale. Nell’ultima conferenza dei paesi non allineati il Premier Modi – di cui si segnala l’assenza agli ultimi due incontri – ha concentrato il suo discorso sul vicino Pakistan. La linea discorsiva adottata dal Primo Ministro si focalizza su tematiche come identità e integrità nazionale, lanciando così attacchi indiretti alle politiche adottate dal vicino Stato. Gli attacchi diventano diretti, seppur senza nominare il soggetto ricevente, nella frase «Mentre il mondo combatte il Covi-19, ci sono persone impegnate nel diffondere altri virus mortali. Come il terrorismo. Come le fake news e video montati ad hoc per dividere le comunità ed i paesi».

 

Foto di Gabriele Giuseppini, confine India-Pakistan, 10 marzo 2008

 

La rete contesa. Fra autorganizzazione e centralizzazione

Seppur in un territorio costantemente sottoposto al controllo e all’arbitrio delle forze di polizia, emergono spazi di autodeterminazione capaci di avere effetti di territorializzazione immediati. Spazi d’aggregazione virtuali come il gruppo facebook Caremongers India costituiscono uno degli epicentri di messa in comune delle proprie vulnerabilità. Appaiono quotidianamente centinaia di richieste d’aiuto, diventano visibili i substrati che compongono la società indiana. Problemi come il reperimento di cibo, medicine e necessità di cure mediche sono all’ordine del giorno nel gruppo.

 

All’impatto della scarsità dei beni essenziali si aggiunge l’aggravarsi delle condizioni psicologiche durante la pandemia. I viaggi lunghi centinaia di chilometri e le preoccupazioni per la salute dei propri cari sono solo alcuni degli elementi di smarrimento psicologico dei migranti.

 

Le istituzioni si rivelano ancora assenti – un’eccezione eclatante è costituita dal supporto offerto dallo Stato del Kerala –,quindi sono nuovamente i movimenti, comitati locali, ONG ed associazioni a prendere in mano la situazione, offrendo– ove possibile–servizi di supporto psicologico telefonico (fonte, The Wire, how has covid affected the urban poor).

D’altro canto, lo spazio virtuale è lo spazio in cui collidono le disuguaglianze presenti nel paese. Il divario è manifesto nei dati riferiti all’accesso di energia elettrica nel paese, dove solo il 47% della popolazione riesce ad avere un approvvigionamento di energia elettrica per più di 12 ore al giorno, mentre solo il 24% della popolazione ha uno smartphone e l’11% ha un computer. A questi dati s’accompagna anche il gender gap nell’accesso ai servizi, dato che solo il 33% delle donne ha accesso a internet nelle zone urbane e il 28% nelle zone rurali.

Con la chiusura delle scuole pubbliche le disuguaglianze nell’accesso ai servizi scolastici vengono sopperiti con lezioni online e lezioni su canali televisivi, mentre per le università la didattica è stata spostata interamente online, causando non pochi problemi d’accesso per gli studenti. L’intervento dello Stato in questi settori è più una manifestazione estetica di capacità di risoluzione, incapace di trovare risultati empirici soddisfacenti.

In ultimo, l’accesso alla rete internet è sottoposto all’arbitrio del potere politico. Nella recente storia indiana sono numerosi i casi di blocco all’accesso alla rete da parte del Governo federale, come dimostrato dall’internet shutdown nei primi quattro mesi d’occupazione della regione autonoma di Jammu & Kashmirregione in cui ancora tutt’oggi la velocità della rete è ferma alla rete 2G per volontà del Governo – e dai frequenti shutdown registrati durante le sollevazioni popolari immediatamente successive all’approvazione della nuova legge di cittadinanza.

 

Fra datificazione, tracking, sorveglianza e mercato

Uno degli elementi che ha attraversato la discussione di questi mesi di lockdown globale è stato quello della necessità di controllo dei movimenti della popolazione tramite applicazioni di tracking. In un primo momento, l’intervento sul tema è stato teatro d’intervento dei singoli Stati, ad esempio con l’app GoK lanciata in Keralae sviluppata con la collaborazione di studenti ed ingegneri.

La questione ha avuto in seguito portata federale, portando a emergere problematiche legate alla pubblicazione degli indirizzi di residenza dei contagiati da parte delle istituzioni locali, atto che potrebbe dare nuova linfa a fenomeni di violenza razzista e sociale.  Riguardo alla privacy sono numerose le zone d’ombra sulla condivisione di dati con partner privati prevista dal nuovo protocollo governativo, rendendo cosìcentrale la questione dell’uso per scopi di mercato di tali dati, soprattutto in seguito agli investimenti di Facebook sull’azienda leader delle tele comunicazioni indiane Jio.

Negli ultimi anni, il Governo ha esteso gli obiettivi e le fonti d’accesso per il database del Unique Identification Authority of India (UIDAI), collegando a queste dati come registri fiscali, numeri di telefono e conti bancari. Le voci degli esperti indicano già da tempo l’avvento di uno “Stato di sorveglianza” in India, possibilità che diventa reale con l’obbligo di installare l’app di tracking Aarogya Setu per i dipendenti impiegati nel settore pubblico e privato.

 

La forma Stato in un modo o nell’altro uscirà segnata dalla pandemia, rimettendo in ballo questioni di lunga durata emerse nei conflitti che hanno attraversato la storia del subcontinente. «Il vincitore sarà chi sarà in grado di dimostrare una migliore capacità di riorganizzazione della società davanti al disastro attuale» afferma Samaddar.

 

Non resta che giocare questa partita, evitando che la pandemia sia solo vettore di centralizzazione della decisionalità politica e del processo di fascistizzazione della società. Il fiume sotterraneo degli invisibili emerso in questi mesi ha espresso nei flussi migratori la forza della propria autonomia: sta nella capacità di riprodurre questa forza la possibilità di strappare il potere dalle mani dell’ordine costituito e porre il futuro nelle mani del movimento che abolisce lo stato di cose presente.

 

 

Un ringraziamento a Catharina Hansel e Nitish Mohan

 

Immagine di copertina postata su Flickr da Nagarjun con licenza cc-by-2.0. Titolo dell’immagine: Life under lockdown. Bangalore, Spring 2020.

Le foto nell’articolo sono tratte da wikicommons (licenza creative commons). 

La foto di Gabriele Giuseppini è originariamente pubblicata su Panoramio con licenza creative commons attribution 3.0.