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MONDO

Le lotte politiche a Hong Kong nel mezzo del nuovo ordine globale

I recenti avvenimenti di Hong Kong dimostrano come si stia creando un “nuovo ordine globale”, contro cui inizia però a svilupparsi una ciclo di lotte e proteste di carattere mondiale

Dopo un trentennio di stagnazione neoliberale descritta da alcuni come la fine della storia, dal secondo decennio del nuovo millennio in poi si sono attivati due diversi processi socio-politici che hanno messo fine al discorso della “fine della storia”. Da un lato, sono emersi in tutto il mondo proteste e conflitti sociali, dai London Riots e dalle proteste in Tunisia che culminano nel Global Occupy, e si disperdono nelle infinite manifestazioni dei Gilets Jaunes, nelle proteste anti-autoritarie in America Latina e in Asia, per tornare negli Stati Uniti e in Occidente con l’attivismo contro il cambiamento climatico e le mobilitazioni Black Lives Matter.

Dall’altro lato, si osservano nuove contestazioni degli stati più potenti per modificare l’ordine mondiale dominante, i segni di questo processo sono da ricercare nell’ascesa dei governi di destra in varie parti del mondo così come nella cosiddetta “nuova guerra fredda” tra Cina e Stati Uniti. Forse uno dei luoghi più simbolici di questo decennio inquieto è Hong Kong, una città globale al centro dell’attuale ordine globale.

 

Mentre coordina gran parte del flusso di capitale globale tra la Cina e il mondo, la città ha anche messo in scena il più grande movimento di occupazione nel 2014, e ha creato ed esportato strategie di protesta innovative con il movimento contro la legge per l’estradizione (Anti-ELAB) del 2019.

 

Le risposte legislative brutali della Cina sono seguite rapidamente, generando e rafforzando una relazione di ostilità tra Cina e Occidente, con ciò portandoci a un 2020 ancora più instabile. Le attuali condizioni politiche di Hong Kong gettano luce su un nuovo ordine globale caratterizzato da una feroce competizione in cima tra stati potenti e in basso da movimenti dissidenti altrettanto aggressivi.

 

 

Ordine Globale

Attingendo ai sentimenti sempre più chiaramente anti cinesi che si sviluppano in diversi luoghi, alcuni manifestanti di Hong Kong hanno volutamente cucito il loro movimento democratico in una seria contesa internazionale. Se le richieste di aiuto sono state ricambiate da riverberi mediatici globali, i rischi di tali manovre tattiche sono diventati però chiari nella seconda metà del 2020, quando la Repubblica Popolare Cinese ha emesso la draconiana e torbida “Legge sulla sicurezza dello stato” per incriminare coloro che hanno partecipato a tali campagne globali.

 

(immagine da commons.wikimedia.org)

 

Dal punto di vista della RPC, le grandi aspettative su Hong Kong così come le grandi minacce risiedono nelle sue connessioni internazionali, generate dalla sua storia coloniale di città portuale.

 

È il destino che Hong Kong deve affrontare. Le lotte di questa città globale nell’ultimo decennio segnano infatti l’avvento di un nuovo ordine globale.

 

Se i critici hanno condannato i regimi multilaterali neoliberali che sovrastano la sovranità statale e che rafforzano la disuguaglianza globale negli ultimi due decenni, ora gli stati potenti sono tornati a dare forma all’ordine globale, stimolando sentimenti nazionalisti e forme di oppressione nelle proprie comunità nazionali.

Confrontiamo Hong Kong con un altro luogo. Anche il Kashmir ha visto lotte simili, con la popolazione in gran parte musulmana in lotta per mantenere l’autonomia della regione promessa dal governo indiano. Mentre la ribalta globale ha tenuto in vita le agitazioni di Hong Kong per un tempo molto più lungo del previsto, le proteste del Kashmir sono state relativamente isolate, anche se la repressione del governo indiano è stata feroce e inflessibile.

 

Sarcasticamente, il primo ministro indiano Narendra Modi ha giustificato l’ azione del suo governo di privare la regione della propria autonomia in nome della fine dell'”isolamento” del Kashmir, che, secondo lui, ha portato i giovani ad essere mal guidati e radicalizzati.

 

Revocando l’autonomia del Kashmir, il governo Modi sostiene di “ricollegare” così la regione all’India e al mondo.

Mentre le proteste di Hong Kong e del Kashmir differiscono in molti aspetti, la retorica del governo indiano non è dissimile da quella cinese, perchè sostiene che solo il governo centrale può stabilire collegamenti legittimi con il mondo, e che lo stato locale deve seguire il mandato dello stato sovrano. Se il neoliberalismo ha operato in gran parte come una teologia negativa contro il controllo statale tramite una subdola ingegneria governativa, vediamo ora chiaramente all’opera una revisione del neoliberalismo negli anni 2020, quando gli stati ora prendono il timone e decidono in nome del popolo e del mondo.

Slogan come “America First”, “Buy American” e “Global Britain” dimostrano vividamente come i potenti stati occidentali promettano di dare priorità ai loro interessi nazionali, presumibilmente centralizzati, in una nuova fase della globalizzazione. Questa svolta statalista della globalizzazione in Occidente si intreccia evidentemente all’ascesa della Cina. Mentre i leader della RPC hanno inequivocabilmente sostenuto la globalizzazione, la versione cinese, in particolare quella architettata dall’attuale governo, non è quella neoliberale.

 

Durante il Forum di Boao del 2018 Xi Jinping ha affermato che, in contrasto con il protezionismo degli Stati Uniti, la Cina è a favore della globalizzazione caratterizzata dal libero scambio, e che la RPC avrebbe sviluppato attivamente partnership globali e sostenuto fermamente il multilateralismo.

 

Ma ciò che non ha dichiarato pubblicamente è che tale “libero scambio” e “multilateralismo” devono essere controllati dallo stato. E’ particolarmente evidente come negli ultimi due anni, il governo sta installando più funzionari del partito all’interno delle imprese private e, in alcuni casi, sta dando istruzioni alle imprese statali di assorbirle completamente. Non sono i singoli imprenditori come Jack Ma o Ren Zhengfei a guidare questa globalizzazione sino-centrica, ma è lo stato della RPC che se ne occupa direttamente.

 

(da archivio)

 

I recenti avvenimenti di Hong Kong dimostrano come questo nuovo ordine globale sia attivamente forgiato, e come la vecchia descrizione di Saskia Sassen sulla globalizzazione è sia valido sia stia diventando obsoleta. Sassen sostiene che la globalizzazione è stata facilitata dalle dinamiche transfrontaliere tra livelli di città globali e regionali, formando reti transnazionali strategiche con una intensa competizione tra le città. Queste città globali oltrepassano i confini nazionali per coordinare il flusso di capitale globale.

 

La semi-autonomia di cui Hong Kong ha goduto negli ultimi due decenni può essere compresa in questo quadro. In effetti, anche mentre si verificavano i più violenti disordini sociali nel 2019, Hong Kong ha continuato ad essere il più grande mercato IPO dell’anno, e ciò indica come la città svolga un ruolo cruciale nel coordinare il flusso mondiale di capitale finanziario in entrata e in uscita dalla Cina.

 

Le forti restrizioni sui flussi di capitale attive in Cina, le hanno consentito di non essere quasi colpita dalla crisi finanziaria asiatica alla fine degli anni ’90. Pechino ha fatto affidamento su Hong Kong, considerata unanimemente come l’economia più aperta del mondo, per fare da frontiera finanziaria per filtrare i rischi finanziari globali, mantenendo regolari l’entrata e l’uscita di capitali.

Ma questa città è anche usata dai ricchi cinesi del continente per gestire la propria ricchezza. Negli ultimi anni molti ricchi dalla Cina continentale hanno cercato di trasferire i loro capitali fuori dalla RPC passando attraverso Hong Kong, per paura di un giro di vite sulla corruzione e di un imminente rallentamento economico. La cosa più ironica è che il disegno di legge sull’estradizione che ha causato il movimento Anti-ELAB del 2019 a Hong Kong è stato proposto principalmente per intimidire quei funzionari e uomini d’affari della Cina continentale che cercavano di usare Hong Kong per il riciclaggio di denaro.

La legge sull’estradizione del 2019 potrebbe essere vista come la prova che la RPC sta perdendo la sua destrezza nel navigare nell’attuale capitalismo globale che le fa montare un senso di insicurezza sovrana. Anche l’autonomia parziale di Hong Kong, che è stata molto importante per la RPC per mantenere la sua influenza nel mondo, è diventata intollerabile per la RPC.

 

La legge sulla sicurezza nazionale del 2020 indica come questo potente stato sia determinato a riscrivere le regole del gioco.

 

E’ vero che la Cina ha adottato alcune pratiche neoliberali negli ultimi due decenni, ma questo è un paese senza una forte tradizione liberale, e il potere dello stato non è mai stato sfidato o temuto come lo è stato storicamente nei paesi liberali occidentali.

Con la pesante repressione governativa dell’area liberale autoctona, l’idea altisonante di Xi della “comunità di destino comune per tutti i popoli” è interamente programmata dallo stato e va dall’alto verso il basso. Promettendo uno sviluppo condiviso del mondo, questa nuova promessa di globalizzazione sino-centrica è un progetto molto conservatore, sostiene il confucianesimo e il patriarcato come ideologie guida, ed è anche più feroce nella soppressione dei dissidenti e nell’imposizione di forme di censura globale.

Come dimostrato negli ultimi mesi, la RPC sta ancora cercando di utilizzare lo status di città globale di Hong Kong per fornire assistenza finanziaria alla sua impresa globale, e sta ancora mantenendo lo status di Hong Kong come porto di libero scambio, con una dogana searata, e, parte, il suo sistema di Common Law utile al libero mercato.

 

Ma i valori politici liberali associati a queste funzioni economiche devono essere addomesticati quando non sradicati completamente.

 

Non ci sarà alcun eccesso politico associato alle funzioni economiche della città, questa città cinese deve essere completamente fedele al suo padrone sovrano, che è pronto a sacrificare parte dello status e della funzione di città globale di Hong Kong in cambio della sua sicurezza politica.

 

(immagine da commons.wikimedia.org)

 

Il mondo dopo la pandemia di COVID-19 sarà inevitabilmente un palcoscenico dove gli stati potenti mostreranno i propri muscoli. I paesi occidentali sono stati criticati come incapaci di controllare la diffusione della pandemia, in contrasto con le efficaci, anche se drastiche, politiche di contenimento del virus della RPC. La globalizzazione è ancora fiorente, ma probabilmente vedremo la competizione fra stati diventare più agguerrita, si avvicinano le guerre “calde”. Gli attori privati probabilmente seguiranno più da vicino le politiche statali, e gli interessi capitalistici dovranno allinearsi con i calcoli strategici generali dello stato.

 

Un vero test per gli stati democratici è se, vedendo la Cina come un modello/nemico, perderanno anche il loro autocontrollo e si muoveranno verso un vero e proprio autoritarismo.

 

 

Farsi mondo

Se la competizione fra gli stati è dura, e i poteri sovrani regnano alti, i destini della maggior parte dei movimenti democratici nel mondo appaiono davvero desolanti. Tornando a Hong Kong, l’esecuzione della legge sulla sicurezza nazionale varata nel Luglio del 2020 aveva lo scopo di sopprimere le proteste del movimento contro l’estradizione (Anti-ELAB) del 2019. Da un punto di vista temporale, possiamo facilmente considerare le forti proteste del 2019 come la causa della repressione dispiegata nel 2020, mostrando la volontà ferrea della RPC di affermare i propri diritti sovrani.

Ma è anche vero il contrario: è stata la crescente invasione di Pechino sull'”alto grado di autonomia” promesso alla città a fomentare le intense proteste, così che la legge sulla sicurezza nazionale del 2020 va vista come la causa dei disordini sociali del 2019. In ogni caso, Hong Kong è presa dentro una grande onda storica, tanto che le sue lotte appaiono quasi predeterminate.

 

Da una prospettiva diversa, possiamo anche dire che entrambe le parti operano rispettivamente secondo la logica della profezia che si auto-avvera, ed entrambe ottengono ciò che temono.

 

Pechino costruisce l’indipendenza di Hong Kong, mentre Hong Kong apre la porta a “un paese” per annullare i “due sistemi”. Stiamo vedendo simili circoli viziosi accadere in tutto il mondo. Le popolazioni non si fidano dei propri governi, e non si fidano nemmeno tra di loro, e le cose continuano a precipitare.

Questo facilita lo sviluppo del nazionalismo, del populismo e della preminenza dello stato, tutto ciò a sua volta rafforza il condizionamento reciproco dello stato forte e delle lamentele popolari. In altre parole, ciò che sta plasmando il nuovo ordine globale non è solo la cosiddetta “trappola di Tucidide” tra stati rivali, ma anche la politica interna agli stati e le tensioni con la popolazione.

 

Se le sfide tra gli stati più potenti diventeranno solo più aspre nel nuovo decennio, e le tensioni tra lo stato e la popolazione si intensificheranno, dobbiamo tuttavia cercare di opporci alla mentalità schmittiana amico contro nemico.

 

Noi stessi in qualità di attori politici, dobbiamo rimettere al centro i valori della partecipazione politica sia come processo, cioè come creazione di legami, sia come fine in sé. Dovremmo ridare vigore all’idea del popolo come una esistenza polifonica, così come ai progetti di interdipendenza globale dal basso.

Se le superpotenze stanno lottando per controllare lo sviluppo di una nuova fase della globalizzazione, nuovi legami e connessioni empatiche dovrebbero svilupparsi anche su altri livelli per dare vita a nuove alleanze, nuove intelligenze e nuove speranze.

Alain Badiou scrisse nel 2011 come fosse stato rincuorato dalle rivolte allora recenti in Inghilterra e nel mondo arabo, pensava che stessero offrendo una reale speranza per cambiare un mondo dominato dagli interessi capitalistici e statali. Più recentemente Badiou ha concluso questo decennio, tuttavia, criticando le recenti lotte globali come incapaci di articolare nuove ideologie e organizzazioni.

 

Per realizzare un movimento di emancipazione veramente globale, Badiou chiede ai manifestanti globali di trasformare i propri slogan, passare da “difendere le nostre libertà” o “fermare la violenza della polizia” a “l’abolizione della proprietà privata”.

 

Sono d’accordo con lui che dovremmo sviluppare legami tra le varie comunità di protesta a livello globale. Ma il legame sarebbe il comunismo, inteso in senso stretto? Un grande problema dell’analisi macro-marxista è che è sempre corretta, visto che il capitalismo produce ingiustizia sociale fondamentalmente dappertutto nel mondo. Ma ci sono tante altre strutture di ingiustizia in atto che sono alla base delle diverse richieste di emancipazione. C’è un autentico stato di disperazione della popolazione di Hong Kong per il fatto che la città sarà sacrificata alla realizzazione del “sogno cinese”.

 

 

I giovani thailandesi protestano contro una monarchia corrotta, mentre gli studenti indonesiani chiedono un governo più responsabile. Criticare il funzionamento del capitale in questi luoghi non è mai sbagliato, ma quelle critiche prive di un’attenta considerazione della complessità di ogni società diventano anche l’ultima area rassicurante per i critici in modo da rimanere sul piano dell’universale e della totalizzazione.

 

A Hong Kong, la disuguaglianza sociale è molto seria, e ci sono molti problemi sociali urgenti nella città che aspettano di essere affrontati.

 

Insieme alle proteste contro l’autoritarismo, ci sono anche forti critiche al capitalismo e al neoliberismo. In generale, la gente di Hong Kong è profondamente consapevole, e critica, dei molti problemi sociali che la città sta affrontando.

I giovani manifestanti hanno profondamente a cuore le condizioni sociali dei loro concittadini, e pensano che questa attenzione sia congruente con il proprio impegno a salvaguardare i valori liberali della città. In questi tempi di intensa dicotomizzazione, è urgente saper resistere alla sussunzione di una critica sotto altre, dobbiamo incoraggiare politiche partecipative e sostenere dialoghi difficili invece di fantasticare su una facile egemonia.

 

Su scala globale, invece di pensare a imporre slogan singolari come “abolire la proprietà privata”, potremmo guardare a quei momenti di connessione trans-locali, che a volte si formano attraverso programmi politici condivisi, e a volte semplicemente attraverso un salto di empatia.

 

Molti manifestanti di Hong Kong hanno sperimentato questi momenti di “farsi mondo” con altri manifestanti di tutto il mondo, pensiamo solo all’uso di oggetti come ombrelli e puntatori laser, così come alle dolorose esperienze di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua.

Abbiamo visto come Hong Kong sia stata chiamata in Catalogna, Giacarta e Cleveland, e come i manifestanti di Hong Kong hanno dimostrato solidarietà con i loro pari in Bielorussia, Thailandia e Xinjiang. Sulla base di una agenda politica piccola ma condivisa, molte persone comuni in Giappone e Corea hanno sviluppato una forte identificazione con Agnes Chow e Joshua Wong. C’è anche l’alleanza online del “milk tea” che si sta sviluppando tra i netizen di Hong Kong, Taiwan e Thailandia, è iniziata da un comune sentire basato sull’opposizione alle politiche di Pechino e si è trasformata in un movimento internazionale più completo e dinamico per la democrazia e i diritti umani.

 

Anche le recenti proteste contro le leggi di sicurezza in Francia hanno fatto eco alle condizioni di Hong Kong, distanti ma intimi. Queste alleanze potrebbero andare e venire rapidamente; ognuna potrebbe non durare, ma onde e maree potrebbero formarsi in modi inaspettati

 

Non credo che questo nuovo ciclo di proteste globali possa essere collegato, o sublimato, da un’unica agenda, ma possono collegarsi tra loro organicamente. Dovremmo avere fiducia nelle connessioni di base delle scienze umane, connessioni che possono indurre empatia senza forzare tutto a un destino comune. Mentre il nuovo ordine globale, credo, sarà guidato da stati potenti, anche i movimenti dissidenti si formeranno proprio sotto e grazie a queste tendenze. A Hong Kong, la risorsa politica più forte è una vibrante identità culturale e legami globali a più livelli.

Ma la città soffre anche, di conseguenza, della sua arroganza culturale e di un’intensa disuguaglianza economica. Possiamo dire che a Hong Kong si sono radicate diverse versioni di cosmopolitismo e localismo, con il risultato di molte tensioni interne che aspettano di essere risolte dagli stessi residenti. Ma tale combinazione fornisce a Hong Kong anche uno scudo protettivo contro la forza unificata di nazionalismo e populismo.

 

Se ci troviamo di fronte a un nuovo ordine globale con la competizione feroci fra gli stati da un lato e relazioni conflittuali fra stato e società dall’altro, dobbiamo cercare una politica emancipatrice dentro la pluralità del popolo.

 

Non c’è bisogno di romanticizzare alcun movimento sociale o feticizzare le vuote promesse di coalizioni globali, ma non dovremmo nemmeno sottovalutare la nostra innata capacità di connetterci nonostante le nostre inconciliabili differenze.

 

 

Pang Laikwan 彭麗君 è professoressa e preside del Dipartimento di studi culturali e religiosi dell’Università cinese di Hong Kong. Ha pubblicato diversi lavori sulla cultura cinese moderna e contemporanea e sui media.

Pubblicato originariamente su Position Politics, che ringraziamo per la disponibilità

Traduzione di GioGo per una collaborazione tra Dinamopress e Sinosfere per la pubblicazione di quattro articoli sul tema.