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La Russia: un impero della periferia

Una recensione su “L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin” di Boris Kagarlitsky. Un’analisi della Russia, una rilettura critica delle riflessioni di Wallerstein sulla lotta dei paesi semiperiferici per avanzare di posizione nell’economia-mondo

Il libro di Boris Kagarlitsky L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin[1] ci permette di analizzare la Russia dall’angolazione della scuola dei sistemi-mondo. Si tratta di una rilettura critica delle riflessioni di Wallerstein sulla lotta dei paesi semiperiferici per avanzare di posizione nell’economia-mondo.

Boris Kagarlitsky riesce così a criticare la storica diatriba tra storici russi “occidentalisti” e “slavofili”. Entrambi gli schieramenti concordano nel concepire la storia russa come isolata dal resto del mondo e indipendente dalla logica degli altri paesi.

I primi attribuiscono ciò a una serie di circostanze fortuite che solo un governo illuminato può, operando le dovute rotture con il passato, superare.

I secondi invece esaltano la “peculiarità” della Russia e si sforzano di trovare elementi a supporto dell’esistenza di una civiltà “ortodossa” o “eurasiatica” contrapposta al resto del mondo.

Tra queste due alternative Kagarlitsky sceglie lo storico marxista Mikhail Pokrovskij che nel primo quarto del XX secolo ha provato ad applicare creativamente il marxismo all’analisi della storia della Russia.

Pokrovskij si distanzia anche dal marxismo ortodosso dei comunisti russi che interpretano lo sviluppo economico in maniera indipendente dai processi mondiali e come una corsa in cui tutte le nazioni partono dallo stesso punto di partenza e si dirigono verso la stessa direzione.

Questo approccio sarà adottato dalla storiografia stalinista che interpreterà la storia russa come una lotta contro l’arretratezza e di cui l’azione del partito comunista rappresenta la fase finale. L’opera di Pokrovskij sarà una delle tante vittime, per fortuna postuma, dello stalinismo.

Uno degli aspetti più importanti analizzati dallo storico sovietico è la capacità del capitale di sfruttare la produzione non capitalistica. Per comprendere come, occorre tornare all’idea di Marx dell’accumulazione originaria del capitale. Per l’accumulazione originaria del capitale è necessario prendere denaro da qualche parte, cioè dalla produzione non capitalistica. Tuttavia non è una tappa iniziale che non si ripeterà mai più nella storia ma qualcosa che si ripresenta costantemente nel capitalismo.

Quindi scopriamo che il lavoro non capitalistico (lavoro non libero o non organizzato secondo principi capitalistici), viene sfruttato dal capitale in modo più efficiente perché costa di meno. Un esempio è la schiavitù dei neri in America, o in generale nell’emisfero occidentale, compresi i Caraibi. La schiavitù dei neri non era affatto antica ma è stata generata dai nuovi rapporti di produzione capitalisticici. Naturalmente, le piantagioni non erano un’impresa strettamente capitalistica, perché non c’era lavoro salariato, cioè lo schema del modo di produzione capitalistico non funziona qui, ma le risorse ottenute vengono investite sul mercato globale e quindi nella riproduzione di quel modo di produzione. Pokrovskij studiò la servitù della gleba russa che si sviluppò rapidamente con l’emergere delle relazioni capitalistiche in Russia mentre il paese si inseriva nel mercato capitalistico mondiale e diventava, come gran parte dell’Europa dell’Est, fornitore di grano per il mercato alimentare occidentale che stava nascendo nel XVII secolo. Per Pokrovskij ci sono due tipi di capitale: commerciale e industriale. Senza capitale commerciale il capitale industriale non esisterebbe, perché il capitale commerciale pompa fondi che vengono poi investiti come capitale industriale. Tuttavia non è necessario per il capitale commerciale che ciò da cui trae profitto venga prodotto in maniera capitalistica.

«Paragonando la Russia all’Inghilterra, Pokrovskij vede l’Impero britannico come una “felice” combinazione di capitalismo industriale nelle metropoli e di capitalismo mercantile che “si è trasferito nelle colonie”. Questo idillio verrà interrotto poi solo dalla Rivoluzione e dalla Guerra d’Indipendenza in Nord America. In Russia, invece, ci fu un conflitto costante tra i due tipi di capitalismo, che si concluse, di norma, non a favore del capitalismo industriale. È facile notare che qui Pokrovskij  segnala una delle principali differenze tra lo sviluppo del capitalismo del “centro” e della “periferia”. Uno dei principali vantaggi del “centro” è sempre consistito nella sua capacità di risolvere le proprie contraddizioni portandole “all’esterno”, cioè verso la “periferia”. Ciò che Pokrovskij  percepisce come una “peculiarità inglese” è in realtà un modello storico generale» (Kagarlitsky 2023, p. 44),

Alcuni esempi storici

1. La storia della Russia è sempre dipesa dalla sua integrazione nell’economia-mondo.

Il primo stato russo, la Rus’ di Kiev, nasce su impulso delle rotte commerciali fluviali che dalla Persia e dall’Impero bizantino arrivavano in Europa Settentrionale in una fase del Medioevo in cui l’economia di sussistenza stava cedendo il passo a un’economia basata sulle merci. La Russia di Ivan il Terribile dipendeva dalla tecnologia e dal capitale commerciale inglese per conquistarsi un accesso diretto al mercato mondiale. L’Inghilterra in cambio otteneva quelle stesse materie prime che importava dalle sue colonie in Nord America.

«La Russia esportava materie prime e importava tecnologia. Nel mercato mondiale competeva con altri Paesi e territori che si trovavano alla periferia del sistema mondiale emergente. Questa combinazione di potere e vulnerabilità determinò un’inevitabile politica  estera aggressiva della Moscovia, nonché i suoi successivi fallimenti. Quando Wallerstein conclude, paragonando la Russia alla Polonia, che Ivan il Terribile combatteva per evitare che la Polonia diventasse un’appendice del sistema mondiale europeo, si sbaglia di grosso. Lo Zar russo si sforzava di fare proprio il contrario, cercando senza successo di occupare nel sistema mondiale emergente lo stesso posto che la Polonia aveva occupato nel XVI – XVII secolo. […] Contrariamente alla visione di Wallerstein, i circoli dirigenti russi non cercarono di opporsi all’espansione dell’Occidente, ma piuttosto di integrarsi nel sistema mondiale come periferia, ma alle proprie condizioni» (Kagarlitsky, p. 156).

2. Per quanto riguarda lo sviluppo del capitalismo russo, è molto interessante l’analisi delle riforme di Witte e Stolypin.

La Russia della fine del XIX si trovava ad affrontare un problema che si sarebbe riproposto più volte nei paesi periferici nel XX secolo. «La creazione di un’industria moderna richiedeva subito un alto livello di accumulazione, mentre lo sviluppo “naturale” del capitalismo implicava una graduale redistribuzione delle risorse come era avvenuto in Occidente. I Paesi della “periferia” che avevano finanziato l’accumulazione nel “centro” con le proprie risorse, si trovarono improvvisamente a corto di denaro e una bilancia commerciale positiva non era sufficiente a risolvere il problema. Più l’industria cresceva, più si sentiva la carenza di investimenti di capitale. Il problema venne in parte risolto dagli investimenti pubblici».

La combinazione tra formazione di relazioni economiche capitaliste e il ruolo attivo dello Stato che agisce«come motore, forza motrice e agente principale dello sviluppo» (Kagarlitsky, p. 365) è una caratteristica dello sviluppo di molti paesi periferici nel XX secolo.

In Occidente, in questo stesso periodo, c’era una crisi di sovraccumulazione che rendeva il credito a buon mercato e i proprietari non avevano modo di investire il proprio capitale in modo redditizio. La Russia divenne una meta ambita per gli investitori occidentali grazie ai suoi alti tassi di profitto e alle commesse governative.

Il conte Witte, all’epoca il principale responsabile della politica economica dell’Impero russo, varò una riforma monetaria che trasformò il rublo in una delle divise più importanti d’Europa, diventando più costosa dell’oro in Occidente. L’obiettivo era attrarre capitali stranieri mantenendo la bilancia dei pagamenti attiva grazie alle esportazioni di grano.

Mentre la moneta si rafforzava, permettendo agli investitori stranieri di sostenere il costo del protezionismo russo importando a basso costo macchinari e utensili mentre il governo russo otteneva sempre più prestiti sui mercati finanziari, aumentava anche la spesa pubblica per la costruzione di infrastrutture, come le ferrovie, che seguivano sempre gli interessi del capitale straniero in Russia, e di macchine utensili.

Approfittarono di questa situazione favorevole gli investitori francesi, con le loro risorse finanziarie, e belgi, giocando il ruolo di junior partner dei francesi ma portando con sé la tecnologia di uno dei paesi più industrializzati d’Europa.

Quindi, mentre all’epoca di Ivan il Terribile gli stranieri cercavano in Russia materie prime, alla fine dell’Ottocento cercavano tassi di profitto superiori a quelli europei. In pratica erano superprofitti coloniali garantiti, come nel caso delle ferrovie, dalle commesse statali.

«I giganteschi prestiti presi dal governo russo sui mercati finanziari di Parigi e di altri Paesi avevano a che fare con i profitti degli imprenditori occidentali, quindi il debito pubblico cresceva, perché bisognava pagare enormi commesse governative, attirando capitali stranieri. Allo stesso tempo, era necessario mantenere un “rublo forte” senza tagliare i contratti governativi, e di conseguenza il governo doveva aumentare la pressione finanziaria, costringendo la popolazione a pagare per lo sviluppo. I contadini sovvenzionavano l’industria che veniva costruita con il pagamento di tasse all’erario. Poiché il denaro non era sufficiente, furono necessari nuovi prestiti. E così inevitabilmente la Russia doveva pagare due volte: i dividendi agli investitori stranieri e i debiti statali con cui erano stati finanziati questi profitti» (Kagarlitsky, p. 378).

Queste riforme preparano la rivoluzione del 1905, quelle di Stolypin quella del 1917.

Stolypin promosse una riforma di compromesso tra capitale industriale e commerciale, provando a creare un contadino ricco che fosse il motore dello sviluppo capitalistico delle campagne. I contadini avevano il diritto di lasciare la propria comunità per insediarsi in terreni liberi. Questa riforma venne realizzata in una campagna che non aveva subito, nei cinquant’anni dall’abolizione della servitù della gleba, la trasformazione capitalistica attesa. Anzi, la distruzione delle comunità contadine aveva portato alla borghesizzazione e proletarizzazione di parte della popolazione rurale, con il secondo processo che procedette in maniera più veloce del primo, come in tutti i paesi arretrati.

Ne derivò l’aumento dei cittadini inattivi che non potevano essere assorbiti dal capitale urbano e rurale e frenarono i salari a causa della nuova offerta di lavoro prodotta.

«All’inizio del 1915, quando per la guerra ci fu una battuta d’arresto della riforma, il 30% dei contadini che avevano lasciato la comunità aveva venduto le proprie terre. In altre parole, invece di diventare contadini di tipo occidentale, diventarono operai, proletari rurali, Lumpenproletariat» (Kagarlitsky, p. 400).

3. Con la rivoluzione del 1917 e la successiva nascita dell’URSS c’è un nuovo tentativo di modernizzazione.

Kagarlitsky spiega la modernizzazione sovietica con una metafora con protagonisti un cavallo, il paese periferico, e un cavaliere, il paese centrale: «Il cavaliere e il cavallo arrivano allo stesso punto, verso la stessa meta, solo in stati diversi: il cavallo non può scegliere il suo obiettivo, né superare il cavaliere senza disarcionarlo. Ecco, la modernizzazione sovietica fu […] essenzialmente un tentativo del cavallo di disarcionare il cavaliere, pur continuando a correre nella sua stessa direzione» (Kagarlitsky, p. 421).

L’industria sovietica non serviva gli interessi dell’accumulazione di capitale in Occidente ma provava a produrre il capitale in proprio per recuperare il ritardo con i paesi occidentali. Inizialmente i bolscevichi non volevano fare a meno del mercato mondiale, semplicemente non volevano tornare ad occupare la posizione ricoperta dalla Russia. Il mercato mondiale era fondamentale per acquisire le tecnologie per lo sviluppo industriale in cambio delle esportazioni di grano sovietico. Lo sganciamento dal mercato dei capitali permetteva di fermare il drenaggio di risorse dal Paese e concentrarle verso gli obiettivi principali della modernizzazione.

Lo sviluppo dell’industria sovietica doveva essere pagato dalle campagne. Tuttavia nel 1927 scoppiò una crisi di approvvigionamento dei cereali quando aumentarono i suoi prezzi sul mercato privato a causa delle politiche bolsceviche verso la campagna. I bolscevichi imponevano un prezzo di acquisto sempre più basso che spingeva i contadini verso coltivazioni più redditizie, generando una carenza di cibo nelle città ma anche di valuta essendo il grano il principale bene di esportazione sovietico.

Mentre il prezzo del grano aumentava sul mercato interno, diminuiva sul mercato estero decretando il fallimento della strategia dell’industrializzazione sovietica basata sulla sua esportazione.

I bolscevichi adottarono politiche di requisizione forzata del grano sempre più dure a partire dal 1928 mettendo a serio rischio la fiducia dei contadini nei loro confronti.

Le requisizioni, che hanno avuto un loro senso durante la fase della guerra civile, non potevano più essere replicate in tempo in pace.

Si rese necessario un controllo diretto, attraverso lo Stato, dell’agricoltura attraverso la liquidazione dei kulaki e la collettivizzazione delle campagne che permetteva per via amministrativa di prelevare il grano necessario aggirando il mercato.

Questa svolta venne accompagnata dalla Grande Depressione di cui i sovietici provarono ad approfittare per comprare sul mercato mondiale macchinari, attrezzature e metalli indispensabili per industrializzare il paese. Tuttavia i prezzi delle esportazioni sovietiche scesero più rapidamente dei prezzi dei macchinari importati.

L’URSS dovette quindi aumentare la gamma di beni esportati per compensare il calo dei prezzi del grano visto che il paese era sull’orlo dell’insolvenza nei confronti del debito estero e il piano quinquennale rischiava di fallire. Il paese riuscì a pagare i propri debiti utilizzando una combinazione di mobilitazione politica, incentivi materiali e repressione per poter ottenere le risorse necessarie all’esportazione. Gli acquisti di macchinari proseguirono superando gli obiettivi del piano quinquennale.

Dopo la Grande Depressione, fu il protezionismo trionfante in Occidente a costringere la Russia a sostituire le importazioni, essendo diventato più difficile ottenere valuta estera.

La leadership sovietica decise di non sprecare più valuta per acquistare macchinari che potevano essere prodotti in URSS. Si era realizzata una vera e propria disconnessione dal mercato mondiale con la creazione di un’economia chiusa come risultato della Grande Depressione a cui Kagarlitsky associa anche la definitiva affermazione dello stalinismo.

Questa nuova industria venne creata sulle basi della tecnologia più avanzata dell’epoca. Una volta saliti al potere i nazisti, i sovietici si orientarono verso gli USA per l’aggiornamento tecnologico delle proprie imprese.

A partire dagli anni ‘70 questo schema iniziò a scricchiolare con la strategia della compensazione. A causa delle mancate riforme del sistema sovietico, l’URSS trovò una via di fuga nella possibilità di vendere materie prime all’Europa occidentale in cambio di investimenti, macchinari e tecnologie. 

Insomma, l’URSS stava tornando a occupare il posto della vecchia Russia nella divisione internazionale del lavoro. 

4. Il processo è stato ovviamente accelerato dalla dissoluzione dell’URSS che ha prodotto la deindustrializzazione di molte regioni della Russia, coinvolgendo in particolare le attività ad alto contenuto tecnologico mentre cresceva la produzione di materie prime e prodotti semilavorati.

«L’economia nazionale fu quasi interamente privatizzata e le imprese e il sottosuolo del Paese vennero venduti a sottocosto (a circa l’1,5% dei prezzi del mercato mondiale). […] Gli autori del programma di riforme liberali nascosero semplicemente il fatto che sul mercato mondiale c’era richiesta sia dei prodotti delle imprese sia della loro tecnologia e che avevano ovviamente un costo completamente diverso. Questo fu il punto di partenza per i nuovi proprietari, che avevano raccolto il maggior numero di informazioni sull’economia nazionale. Non sorprende che, nel giro di pochi anni dalle privatizzazioni, la capitalizzazione della maggior parte delle aziende aumentò di ottanta-cento volte, in un contesto di mancanza di nuovi investimenti, di contrazione della produttività del lavoro e di deprezzamento dei macchinari» (Kagarlitsky, p. 490).

Per avere una parvenza di legalità, queste operazioni dovevano essere effettuate con la cooperazione del FMI e delle istituzioni economiche occidentali. Non c’era bisogno di alcuna pressione esterna per effettuare le privatizzazioni. La classe dirigente russa aveva solo bisogno di una copertura legale e la certezza di entrare a far parte delle élite globali.

L’economia russa viene così integrata nel sistema mondiale post-URSS che rispondeva agli interessi delle aziende transnazionali che ormai dominavano il mondo. Ovviamente nel ruolo di fornitore di materie prime e risorse finanziarie per l’Occidente.

Per concludere, è doveroso menzionare come si inserisce la figura di Putin in questo scenario.

Il suo progetto di “democrazia sovrana” prevede la fine del saccheggio indiscriminato delle risorse dello Stato da parte degli oligarchi. Erano necessari ordine e stabilità per consentire una gestione efficiente dei beni privatizzati. Allo stesso tempo vengono rafforzate la repressione del dissenso politico e la posizione della burocrazia statale per imporre regole alle multinazionali russe nate nel frattempo.

Questo non è un fenomeno strano nel XXI secolo. In molti paesi periferici e semiperiferici sono nate multinazionali locali. Le multinazionali russe si sono espanse nei mercati occidentali, in particolare quello europeo, per fattori geografici, per mancanza di risorse umane, esperienza e tecnologie per produrre per il mercato interno ma soprattutto perché seguono le rotte delle materie prime dalla Russia.

Molte di queste aziende hanno una forte partecipazione statale ma non si può in alcun modo parlare di nazionalizzazione. 

«Il consiglio di amministrazione di Gazprom non solo era consapevole dei propri interessi aziendali, ma utilizzava anche i suoi legami con lo Stato per orientare la politica estera del Paese in modo vantaggioso per entrambi» (Kagarlitsky, p. 521).

Kagarlitsky sostiene che la grande stabilità del regime di Putin sia frutto dei superprofitti accumulati con la vendita delle materie prima sul mercato globale. Questo ha permesso di accontentare con facilità tutti i gruppi della classe dominante russa in conflitto tra loro, di soddisfare gli appetiti della burocrazia russa e anche di aumentare i salari dei russi senza erodere i profitti delle imprese private.

Il libro è stato scritto prima dell’invasione dell’Ucraina ma nei suoi interventi più recenti l’autore sostiene che le cause della guerra risiedono nelle sempre maggiori contraddizioni interne al paese, aumentate dopo la fase di boom delle materie prime sul mercato mondiale che ha contraddistinto la prima fase del regime di Putin. Il capo del Cremlino intende distogliere l’attenzione dai crescenti problemi socioeconomici, contrastare il suo declino elettorale e garantire l’estensione del suo mandato con questa guerra tuttora in corso.

[1] A cura di Anna Lavina e Yurii Colombo, Castelvecchi, Roma 2023.

Immagine di copertina Openverse di Hiro Otake