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La Roma ribelle di Carlo Lizzani

Il regista di Achtung! Banditi racconta la sua Resistenza.

Carlo Lizzani è una persona molto alta e magra, molto alta soprattutto. I suoi molti e lisci capelli grigi incorniciano uno sguardo limpido e ceruleo, sorridente, intuitivo e attento.

Carlo si muove con eleganza. Incrocia le lunghe gambe e braccia scambiandole tra loro in un ritmo cauto e lento, senza scatti. Si liscia spesso la testa, da un lato, sopra l’orecchio, quasi ad accarezzare i pensieri e i ricordi, vivi, attuali, tutti presenti. Una memoria di acciaio. Perfettamente integra.

Pochi mesi fa lo abbiamo incontrato in un bar sotto casa sua a Prati. Un bar senza pretese, per prendere un caffè e fare un’intervista per la “Guida alla Roma ribelle”. Disponibile, si è trattenuto a lungo, spiegandoci nei dettagli e nella sostanza, un episodio in cui mio nonno, lui e un altro tipo, tutti e tre gappisti, si sono trovati sotto coprifuoco bloccati dalle Ss. In mano avevano i pennelli e i secchi per fare le scritte. Scritte che dovevano essere in tedesco – per farsi capire meglio e colpire al cuore il nemico – e per questo parecchio lunghe. I cognomi erano lunghi. A scrivere solo LUXEMBURG ci avevano messo una vita. Poco dopo erano stati fermati; erano già morti. Secondi che per loro sono stati eterni. Che cazzo facciamo. Carlo ebbe un guizzo, uno scatto. Lui sempre così morbido e fluido fece un gesto improvviso e inaspettato. Diede un colpo forte al mitra che aveva puntato sul petto e cominciò a correre. Ognuno corse in una direzione differente. La notte e il buio della città vennero loro in soccorso. Le Ss mitragliarono a destra e a manca, avviarono la jeep e la lanciarono all’inseguimento almeno di uno. Tutti e tre pensavano che gli altri fossero stati presi. Carlo ci disse che non aveva mai corso così veloce in vita sua e che se gli avessero preso il tempo, sarebbe diventato il recordman dell’anno. Pure molto spiritoso, un sacco di battute ci ha fatto, che non sai se ridere o no, forse meglio di no, però fanno ridere lo stesso e negli occhi con lui si sorride anche di cose tremende e paurose. Dopo qualche giorno si ritrovarono in posti nuovi tutti e tre salvi e ricominciarono il loro lavoro partigiano.

Un regista grande e umile, riservato e messo da parte, distante dalla spocchia ridicola e squallida, molto colto e assai curioso. Si fece, giovanissimo, finanziare “Achtung Banditi!” con una specie di produzioni dal basso, una roba cooperativa di lavoratori interessati a mettere una piccolissima quota affinché lui girasse. Stava avanti e non aveva paura di niente, pronto a ricominciare sempre insieme anche a molti giovani; ha girato fino a pochissimo tempo fa, anche per bisogno economico, con una piccola telecamera digitale. La sua casa era a piazza della Libertà, davanti ad un bel mercato, una piazza il cui nome spiega molto della sua vita e morte.

Il racconto di Carlo Lizzani che segue, uscito il 7 settembre in anteprima su Repubblica, è stato raccolto per la “Guida alla Roma Ribelle” di Rosa Mordenti, Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti e Giuliano Santoro che uscirà nel mese di novembre per le edizioni Voland.

Era il 7 novembre del 1943. Roma era stata appena occupata dai tedeschi, eravamo dopo l’8 settembre. Io e altri due compagni, Renato Mordenti e Marcello Bollero, avevamo deciso con altri gruppi di antifascisti di fare delle scritte per inneggiare all’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, che cadeva appunto in quel giorno. La lotta armata ancora non era nata a Roma. C’erano le prime formazioni dei Gap ma non erano attive.

Ci dividemmo per quartieri. A noi tre toccò la zona del centro. Decidemmo di scrivere, a vernice rossa, oltre che “Viva il 7 novembre” anche “Viva Rosa Luxemburg” e “Viva Karl Liebknecht”. Era una mia idea, pensavo che questi soldati erano tedeschi, che il nazismo in fondo c’era da appena dieci anni, dal 1933, e che dunque magari quei nomi gli avrebbero ricordato i comunisti tedeschi e la tentata rivoluzione nel loro paese. Erano due nomi un po’ complicati e soprattutto un po’ lunghi da scrivere. A Roma cominciava il coprifuoco e la luce era sempre più scarsa anche perché si faceva economia sull’energia elettrica. Facemmo parecchie scritte, fino a risalire davanti a via Nazionale, dopo il teatro Eliseo, più o meno all’altezza di via Quattro Fontane. Lì una pattuglia tedesca ci fermò e vide le nostre mani sporche di rosso. Si accorsero anche dei pennelli. Non sapevamo ancora delle deportazioni, ma sapevamo che rischiavamo arresti e torture. Col coraggio della disperazione facemmo un gesto disperato: avevamo tre mitra puntati e a mani nude li alzammo quasi sbattendoli in faccia. Questi rimasero allibiti e quadagnammo quei quattro secondi che ci permisero di correre in quattro direzioni diverse. Loro spararano ad altezza d’uomo, tanto che giorni dopo andai a curiosare e vidi le scalfitture delle pallottole ad altezza d’uomo lungo il percorso che avevo fatto, cioè tra l’Eliseo e l’imbocco e il tunnel verso via del Tritone. Ma ce la cavammo. Il segno di Roma ribelle restò poi a lungo: le scritte vennero cancellate ma si intravedevano anche dopo, come il segno delle pallottole sui muri.

Per prudenza nessuno tornò alle proprie case. Il giorno dopo seppi che neanche gli altri erano stati catturati. Ero responsabile di un gruppo del mio quartiere Prati, che comprendeva altri cinque-sei giorni. Una volta preso c’era da affrontare le torture e magari il rischio di coinvolgere altri compagni. Abitavo sul Lungotevere de’ Mellini, al numero 7. Il contatto con il Partito Comunista era avvenuto attraverso Giuseppe De Santis e Antonello Trombadori. Mi fissarono un appuntamento a San Lorenzo, quartiere operaio, dunque speravo che questa volta non avrei incontrato uno studente come me o un intellettuale ma finalmente un lavoratore. L’accordo era che avrei trovato una persona con il Messaggero davanti agli occhi, seduta in un bar. Quando abbassò il giornale, vidi un altro come me, con gli occhiali: ecco un altro intellettuale. Lui ci disse di reclutare altri militanti nella mia zona, per lancio di manifestini e altre azioni più politiche e di propaganda che propriamente armate. Fu ben accolta l’idea che il mio appartamento potesse funzionare dal punto di vista logistico: era al piano terra e dunque in caso di perqusizioni o irruzioni di tedeschi o polizia si poteva fuggire dal retro. Questa disposizione venne vista con favore: i dirigenti continuarono a chiedermi di tenere riunioni a casa mia, insospettendo molto mio padre che si accorse che questi erano piàù anziani di noi universitari. Un giorno, prima del 25 luglio e della caduta del fascismo, si presentò anche Giorgio Amendola, allora quasi quarantenne, e dovetti dire a mio padre che si trattava di un produttore cinematografico che stava leggendo un soggetto che gli avevo sottoposto. In seguito, venne a casa mia anche Luigi Longo, che doveva dare disposizioni in vista dell’armistizio. Prima della battaglia di Porta San Paolo si presentarono diverse persone a casa mia, tra questi anche Vasco Pratolini, per chiedermi “le armi”. Gli dissi che non c’erano armi in casa, ma in seguito abbandonai quell’appartamento perché a quel punto poteva essersi sparsa la notizia. Perché non bisogna dimenticare in tutti i movimenti clandestini ci sono spie, doppiogiochisti, persone che non resistono alla tortura o magari gente che non vuole mettere in pericolo i suoi familiari.