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MOVIMENTO

La protesta sul lettino

In questa intervista Fachinelli ripercorre il suo incontro con il ’68 muovendo dal proprio sguardo di psicoanalista. Quel che viene raccontato è un processo di trasformazione reciproca: la «dialettica del desiderio dissidente», nel seguire una logica contrapposta a quella del bisogno, è stata capace di interrogare la psicanalisi, di sperimentarla come strumento di «contestazione al sistema»; d’altra parte, chi, come Fachinelli, si è lasciato attraversare dal «grande innamoramento collettivo» del ’68, ha aperto nuove strade, ipotesi e tecniche nell’ambito della stessa psicoanalisi

Quali sono stati gli elementi che hanno convinto uno psicanalista freudiano a lasciare il suo studio per immergersi nel ’68?

I primi segnali risalgono a prima del fatidico ’68. Già da qualche anno seguivo i mutamenti dei giovani americani e cominciavo a intravedere qualcosa. Poi, nel ’67, un libro illuminante, Lettera a una professoressa di don Milani: vi ho trovato un richiamo all’uguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze dell’istituzione scolastica. Alla fine di quello stesso anno mi sono trovato con amici alla manifestazione di Palazzo Campana, all’Università di Torino.[1] Sono rimasto colpito dall’acutezza della contestazione e dalla risposta dei professori: alcuni (pochi) riuscivano almeno ad ascoltare, gli altri (i più) sembravano statue di sale. Contemporaneamente leggevo i primissimi documenti della Cattolica e della Statale di Milano. Era la fase del puro antiautoritarismo, un fenomeno affascinante per uno psicanalista.

Ne ha tentato subito un’analisi?

Sì, partendo dal cartello di protesta più diffuso: «Lotta alla repressione». Dal momento che era un giovane o un adolescente a portare quel cartello, la repressione rimandava immediatamente al problema dell’autorità paterna e la tentazione era quella di cominciare a disquisire sul complesso di Edipo.

E invece?

L’esperienza ci stava rivelando che il conflitto con la figura paterna nei soggetti in analisi era spesso in secondo piano, mentre il problema dell’autorità e del potere si poneva in modo più perentorio e angoscioso.

Vuol dire che da un punto di vista psicologico i bersagli dell’appello contro la repressione erano altri?

Sì, e a prima vista potrebbero sembrare tutti quei personaggi che cominciavano a mostrare la loro vuota essenza autoritaria: uomini che si dicevano di ferro perché erano fatti di cartone, uomini che parlavano più forte degli altri con una voce che non era la loro, uomini che dal vuoto atterrito dei loro palazzi senza finestre minacciavano la morte nucleare… Ma la protesta andava ancora più in là.

Verso che cosa?

Verso un fantasma di società che, per quei giovani, mentre prometteva una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minacciava una perdita dell’identità personale. Abbinava un’offerta di sicurezza immediata a una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio. Da qui è partita la dialettica del “desiderio dissidente”, come l’ho chiamato nel ’68.

Come veniva messa in pratica dai gruppi del ’68?

In modo dapprima irriflesso, poi sempre più consapevole, realizzavano che ogni meta doveva essere superata nel momento stesso che veniva raggiunta, che l’essenziale non era l’“oggetto” del desiderio, ma lo stato del desiderio. L’appagamento del desiderio era sentito come la morte del gruppo.

Quindi a una società che offriva la soddisfazione del bisogno opponevano un deciso “non basta”…

Esatto. I gruppi diventavano così una cerniera di passaggio: trasformavano quelli che entravano a farne parte e li restituivano all’esterno come germi vitalmente pericolosi. E la loro stessa esistenza diventava fonte di contagio: pareva dimostrare che la tensione utopica così organizzata fosse la sola possibilità di negare il presente.

La psicanalisi si è accorta subito di tutto ciò?

Io scrivevo queste cose già allora, ma la frattura fra il movimento e la psicanalisi ufficiale era profonda. Bisognava percorrere nuove strade.

Sono state trovate?

Ci abbiamo provato. Nell’inverno ’67-68 all’Istituto superiore di scienze sociali di Trento, alcuni studenti avevano organizzato un controcorso intitolato Psicoanalisi e società repressiva che intendeva utilizzare la psicanalisi come strumento per una «alternativa e verifica di ipotesi, tesi, strumenti di contestazione al sistema». Quando fui chiamato a Trento, proposi ai partecipanti di costituirsi in “gruppo d’analisi” per sperimentare, nel gruppo stesso, le modalità di repressione e di autoritarismo che fino ad allora erano state considerate e criticate in modo ideologizzato ed esteriore.

Accettarono?

Sì, ma ci trovammo subito di fronte a un problema decisivo. L’analisi di gruppo si restringe perlopiù a sei-sette persone: è un gruppo chiuso. Ma ciò appariva contrario all’antiautoritarismo e a molti sembrava più idonea la tesi di un gruppo aperto: veniva chi voleva e quando voleva. La discussione che ne seguì fu estenuante.

E alla fine, chiuso o aperto?

Chiuso. Per un’esigenza di impegno duraturo da parte dei singoli partecipanti, per non correre il pericolo di dover fare e rifare gli stessi discorsi, per consentire la liberazione delle inibizioni dei singoli senza la possibilità di disturbo, di derisione o di denigrazione di chi avrebbe potuto intervenire in qualità di esterno.

L’estraneo visto come pericolo?

Proprio così. C’era, come del resto nei gruppi politici, la spinta a difendere l’ideale di gruppo che sembrava continuamente minacciato da nemici. Da qui anche le inevitabili espulsioni e frammentazioni in direzione di un processo di settarizzazione.

Non poteva esserci un’alternativa?

Certo, se si fosse innescato il processo inverso, quello di accomunamento. In altre parole, l’«esercito agguerrito esterno che schiaccia la setta» avrebbe potuto essere guardato come una «massa sterminata offerta alla propria comunicazione». Ma è rimasto un progetto utopico. Ogni ostacolo incontrato tendeva a far sì che il gruppo fosse tentato di abbandonare l’azione di comunicazione per rifugiarsi nella propria sicurezza interna. La setta, proprio perché setta, soltanto di rado riesce ad aprirsi. Rimane, ed è questo il suo significato, come testimonianza della rivoluzione fallita. O come promessa di quella futura.

Rivoluzione fallita. Perché?

Perché il ’68 era qualcosa di completamente diverso dall’idea vigente di rivoluzione di tipo marxista che consiste in un sommovimento delle masse, prodotto dai loro bisogni, che viene sapientemente canalizzato dal partito in direzione della presa del potere. Il desiderio dissidente era una manifestazione veramente rivoluzionaria, tanto che un anno dopo suscitò l’ondata degli operai. Ma proprio perché era così rivoluzionario finiva per porsi addirittura in un’altra logica.

Che non aveva possibilità di successo?

L’esperienza dei gruppi di Trento ci aveva già fatto intuire di no. Quello che stava succedendo aveva un grande effetto sorpresa. La logica del desiderio, contrapposta a quella del bisogno, aveva messo improvvisamente in luce una generale mancanza di senso nella società. Scopriva che c’era un grande vuoto. E allora tutti a interrogarsi su questo vuoto, a chiedersi: «Che senso ha?».

Ed è stata trovata una risposta?

La ricerca ha innescato processi molto fecondi, ma anche angoscianti, che hanno spinto a voler chiudere troppo in fretta il vuoto, facendo ricorso a forme organizzative vecchie: i gruppi, i partiti… la chiusura invece dell’accomunamento, la settarizzazione fino agli orrori e ai terrori degli anni successivi.

Ma il movimento non ha partorito solo questo…

Certo che no. È stata una grande esperienza che ha coinvolto profondamente gli individui, tutti, anche quelli che la rifiutavano. I nemici dei processi rivoluzionari dovrebbero capire che il messaggio, per contagio, entra anche dentro di loro. Il ’68 è stato un grande innamoramento collettivo, non è servito solo per acquistare uno sguardo più consapevole sulla società, per averne, alla fine, una visione lucida e fredda. Anche se non è per caso che ex sessantottini sono oggi brillanti agenti di Borsa o sagaci manager.

E alla psicanalisi, il ’68 che cosa ha dato?

Ha favorito il formarsi di gruppi di ricercatori più indipendenti, capaci di esplorare tecniche nuove, come le esperienze con le droghe. Ha dato spazio anche a scuole più o meno ortodosse, come la reichiana che predicava la liberazione istintuale dalle catene repressive interne. In pratica, il ’68 ha influito anche sugli studiosi della psiche e del cervello.

Perché un fenomeno così epidemico, che si è esteso da un continente all’altro con velocità fulminea contagiando in diagonale tutti gli strati sociali, è scoppiato proprio nel ’68?

Abbiamo detto che era un momento in cui la società tendeva a soddisfare i bisogni, anche quello di informazione. Stava nascendo la società dei mass media che diffondeva immagini e notizie. I fermenti americani e la rivoluzione culturale cinese, per esempio, erano “notizie” che arrivavano ovunque attraverso i giornali e la televisione. Ecco: il contagio del ’68 è stato trasmesso e moltiplicato dai media.

 

Supplemento a Panorama, n. 1137, 31 gennaio 1988, pp. 122-27. Il presente titolo è quello della riedizione dell’intervista in IS, 1998, pp. 194-99, mentre quello originale era Storia dei giovani. Prima, durante e dopo il ’68.

[1] Il riferimento è al 27 novembre 1967, quando ci fu l’occupazione da parte degli studenti di Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche.