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Legare le persone non è un’arte ma un effetto delle politiche sociali neoliberali

La pubblicazione de “L’arte di legare le persone” (Einaudi 2021) di Paolo Milone ha suscitato critiche per la superficialità e la povertà di argomenti con cui viene trattato il tema della contenzione meccanica nei reparti psichiatrici. Questo testo vuole contribuire ad un’attualizzazione delle lotte basagliane

Il reparto psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale generale, residuo dell’antica istituzione totale, non costituisce l’unico contesto di gestione “contenitiva” del disagio. La contenzione fisica o farmacologica si può esercitare, e non sappiamo quanto ciò accada se non grazie a tragici eventi che talvolta rompono il muro di silenzio eretto attorno a questa pratica, in molti altri contesti genericamente restrittivi come i reparti carcerari, le REMS, i centri di identificazione ed espulsione, i centri d’accoglienza per i richiedenti asilo, le strutture protette per minori, le case-famiglia per madri sole, le case di riposo per anziani, le case di cura neuropsichiatriche, le strutture protette per individui senza fissa dimora, le residenze socioassistenziali e sanitarie a trattamento prolungato e in altri reparti ospedalieri come geriatria. Come suggerisce Robert Castel ne Il mito della deistituzionalizzazione, «dal tempo in cui prigione e manicomio si spartivano il dominio esclusivo dell’internamento, la rete delle istituzioni segregative si è allargata e differenziata e il passaggio dell’internamento si è complicato a tal punto che risulta difficile tracciarne la mappa esatta»1. A fronte di questa “rotazione” e “distribuzione” delle tradizionali funzioni del manicomio, per capire il fascino che ancora esercita la contenzione presso i tecnici che sono elettivamente deputati a gestirla, quelli che si occupano delle anomalie del comportamento, dovremmo analizzare le tendenze in corso nelle politiche sociali nel loro complesso e in particolare la funzione che al loro interno assumono i saperi “psy”.

Negli ultimi anni vari studiosi di politiche sociali hanno usato il concetto di detenzione sociale per indicare «l’incarcerazione di persone che vivono in uno stato di svantaggio, disagio o marginalità e per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate»2.

Detenuti sociali, in questo senso, sono i tossicodipendenti, gli immigrati non in regola con i documenti e tutti quei gruppi sociali spesso targettizzati come “estrema marginalità” tra cui senza fissa dimora, residenti senza titolo di soggiorno, badanti anziane non più in grado di lavorare. Soggetti che, nell’impossibilità di essere produttivi o divenuti problematici a causa di condizioni di di salute fisica o di comportamenti disturbanti, possono essere presi in carico solo da strutture “contenitive” per carenza di risorse alternative. Talvolta, l’impostazione “penale” delle politiche (piuttosto che sociosanitaria, come nel caso delle dipendenze da sostanze o per la restrittività del diritto di cittadinanza, come nel caso della distribuzione di titoli di soggiorno) effettivamente “crea” questi gruppi sociali, imponendo storie di vita che sono vere e proprie carriere devianti. Le ricerche sulla composizione sociale delle nostre carceri sovraffollate mostrano l’ampiezza e la gravità di questo fenomeno.

Con il termine di “carcerizzazione dei problemi sociali”3 si potrebbe indicare lo slittamento di una serie crescente di problemi dall’ambito del welfare a quello della detenzione e la mutazione interna delle politiche di welfare, che progressivamente si spostano verso un paradigma contenitivo e punitivo.

Spesso, a fare da spartiacque in queste carriere morali da portatori di bisogni sono la condizione socioeconomica e il potere contrattuale dei soggetti. «Gli strumenti adottati per attuare politiche indirizzate a soggetti o gruppi con immagine negativa sono generalmente più coercitivi ed autoritari di quelli rivolti ai gruppi ritenuti meritori, per i quali si adottano interventi che promuovono la capacità di autogestione, quali l’informazione e l’apprendimento, in quanto viene loro implicitamente riconosciuta una maggiore capacità di scelta autonoma. Gruppi costituiti negativamente, o percepiti come particolarmente vulnerabili o fragili (come anziani o bambini) sono costruiti nelle politiche pubbliche come se abbisognassero non solo di nuove opportunità, ma anche di un certo grado di supervisione esterna o di costrizione rispetto alle scelte personali di ciascuno»4. All’interno dello stesso sistema di salute mentale, è ben noto che gruppi maggiormente stigmatizzati e marginalizzati (secondo i cleavages di razza, genere e classe) tendono ad essere etichettati con categorie diagnostiche maggiormente invalidanti e caratterizzate da una cultura prognostica pessimistica.

Robert Castel5 ha inscritto questa dinamica in una grande descrizione sociologica, spiegando l’ultima metamorfosi della questione sociale: cresce il gruppo dei “sovrannumerari”, strutturalmente espulsi dalle garanzie della condizione salariale; le politiche sociali si strutturano in modo che questi “esclusi” siano chiamati ad aderire a progetti di assistenza tendenzialmente impossibili, nella misura in cui richiedono “l’attivazione”: l’elaborazione di un progetto di vita a cui non viene offerta alcuna possibilità materiale di realizzazione.

Viene dunque riesumata l’antica distinzione tra «poveri abili al lavoro» (da punire se non lavorano e da assistere se si sottomettono) e «handicappati», a cui l’inclusione nella cittadinanza si presenta sotto forma di un paternalismo caritatevole, ricattatorio e fortemente assoggettante.

Loïc Wacquant ha raccolto alcuni esempi pratici di questa tendenza con un titolo incisivo: “punire i poveri”6. Ad essa corrisponde una generale involuzione della formazione e della prassi degli operatori, che tendenzialmente si accosta al «pensiero unico securitario». Paradigmatico è il caso delle politiche penali e carcerarie, in cui si nota uno slittamento di grande portata: «trent’anni fa i Parole Officers uscivano dalle scuole per assistenti sociali e studiavano i fondamenti della psicologia e della sociologia, oggi mentre i casi da seguire sono raddoppiati essi si formano nelle scuole di giustizia criminale, dove apprendono le tecniche di polizia e l’uso delle armi da fuoco. La nuova filosofia panoptica che li guida è sottolineata da questo slittamento semantico: i programmi di Parole sono stati recentemente ribattezzati “Liberazione sotto controllo e Controllo in comunità”, sotto il nuovo regime liberalpaternalistico infatti l’individuo liberato con la condizionale non è tanto un ex pregiudicato restituito alla libertà quanto un quasi prigioniero in attesa di un imminente ritorno dietro le sbarre»7.

Nello specifico delle politiche di salute mentale la categorizzazione diagnostica esplica fino agli esiti più drammatici il meccanismo dell’inclusione sociale differenziale: se nelle istituzioni assistenziali e nelle politiche sociali il ruolo dei saperi psy spesso sanziona il passaggio verso forme di trattamento progressivamente più deresponsabilizzanti e paternalistiche man mano che si scende nell’inferno della scala di “gravità”, nel resto della società lascia il focus sugli individui oscurando le forme di oppressione e violenza sistemica di cui possono essere oggetto, come nel caso esemplificato dal processo di “psicologizzazione” della povertà. Per esempio è proprio tra marginali, homeless, detenuti, stranieri “irregolari” e pazienti “cronici”, largamente non trattati dai Dipartimenti di Salute Mentale territoriali, che si trovano tanti diagnosticati come “schizofrenici”. Che, nella debolezza epistemologica su cui si fonda questa classificazione, non sia proprio la loro caratterizzazione di marginalità ed esclusione il vero referente reale di una diagnosi così gravata di stigma? In questa direzione sembrano andare i dati riportati da Fabrizio Starace nel’introduzione al recente Libro bianco sulla schizofrenia della Fondazione The Bridge8.

Parlare di contenzione e psichiatria significa dunque aggredire il centro del problema costituito dai saperi “psy”, nel momento in cui la loro oggettivazione si estende a tutta la società informando di sé ogni forma di “presa in carico” e le politiche sociali subiscono le torsioni tipiche del neoliberismo (retorica dell’attivazione, approccio aziendalistico e prestazionale, assenza di integrazione tra sociale e sanitario, tendenza a risolvere problemi complessi all’interno di targetizzazioni semplificatorie).

Il modello di oggettivazione dell’uomo che la psichiatria porta in sé torna utile in una molteplicità di situazioni istituzionali, laddove la “targetizzazione” dei gruppi sociali e il loro matching con precise prestazioni lascia dei residui e la resistenza, l’inadeguatezza e l’inefficacia che ivi si dispiegano vengono ricondotte a manifestazione psicopatologica dell’utente, a “sindrome di agitazione psico-motoria”, ad “antisocialità”, ad “agito auto o eteroaggressivo”. Dietro queste manifestazioni lo sguardo psy sintetizza la “personalità” dell’utente applicandovi l’etichetta di un disturbo. Nel peso moralistico e stigmatizzante di questi etichettamenti si rinnova la coesistenza di cura e custodia che la società demanda ai saperi psy: esso permette di operare l’oggettivazione che in ogni contesto sociale giustifica la detenzione, la restrizione e la custodia, razionalizzando questi atti come conseguenze di caratteristiche della soggettività abnorme di colui al quale queste misure si applicano.

Il lungo processo di “medicalizzazione” della psichiatria, che ha cercato di normalizzarne la pratica e di assimilarne la teoria all’asciutta oggettività delle scienze positive, ne ha paradossalmente esteso il campo di gestione dell’abnorme e dell’escluso, irradiandola verso tutte le forme di presa in carico sociale. Come prevedeva Basaglia, l’inserimento completo della psichiatria nella medicina non ne ha risolto le contraddizioni, la «manipolazione dei bisogni» che le istituzioni operano si mantiene viva ed operante pure in ambito sanitario.

La riduzione del soggetto a cosa sotto il potere dello sguardo medico espropria il malato dalla sua esperienza, «il malato si trova a vivere la sua malattia come qualcosa di estraneo alla vita, per affrontare il quale deve affidarsi alla “scienza” diventando tutto malato. Il che gli impedisce di vivere la malattia come un’esperienza personale che non spezzi il continuum della vita e alla quale potrebbe soggettivamente partecipare con l’aiuto della scienza»9.

Che il tecnico, l’intellettuale privilegiato, neurotipico bianco e cis-etero, perfettamente armonizzato nella norma, possa sentire di stare praticando un’arte nel momento in cui svolge il ruolo di funzionario del consenso è possibile proprio in misura della malafede che caratterizza oggi larga parte della cultura dominante, della formazione scientifica e delle case editrici che un tempo facevano “cultura di sinistra”.

L’immagine di copertina è di Luna Ledi Prestint

1F. CASTEL, R. CASTEL, A. LOVELL, La société psychiatrique avancée. Le modèle américain, Paris, Grasset, 1979; capitolo tradotto in «Aut Aut», Il Saggiatore, n. 179-180, 1980

2A. MARGARA, Sorvegliare e punire. Storia di 50 anni di carcere, in «Quest. Giust.», 5, 2009, pp. 89-110.

33 R. CAMARLINGHI, F. D’ANGELLA, La carcerizzazione dei problemi sociali. Una scelta che riempie il penale e nega il sociale, in Animazione Sociale, 2010, 247, pp. 34-43.

4F. TARONI, Interventi di sanità pubblica e livelli essenziali di assistenza, in M. BIOCCA (a cura di), Cittadini competenti costruiscono azioni per la salute. I Piani per la Salute in Emilia-Romagna 2000-2004, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 201 ss.

5R. CASTEL, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Torino, Einaudi, 2011.

6L. WACQUANT, Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale, Roma, Derive Approdi, 2006.

7L. WACQUANT, op. cit.

8https://www.fondazionethebridge.it/wp-content/uploads/2019/09/Il-libro-bianco-sulla-schizofrenia-1-1.pdf

9F. BASAGLIA, Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica, in Scritti. vol II, Torino, Einaudi, 1982, pp. 391-409