approfondimenti

EUROPA

La logica politica dell’imperialismo russo

La Russia di Vladimir Putin si sta accreditando da anni come garante della stabilità di regimi conservatori e autoritari, dalla Siria di Assad alla Bielorussia di Lukashenka. Una sorta di “Santa Alleanza per il XXI secolo”

Il dibattito sull’invasione russa in Ucraina, inclusi i contributi già pubblicati su FocaalBlog, si è spostato dalla dicotomia “Nato o Russia” a un più sfumato riposizionamento sulla falsa riga di “È colpa della Nato, ma…” opposto a “È colpa della Russia, ma…”.

Con un gradito passo in avanti, gli opinionisti hanno iniziato a seguire il consiglio di Tony Wood rispetto alla necessità di attribuire il “giusto peso” ai diversi fattori che hanno portato all’invasione da parte della Russia. Il presente testo ha le medesime intenzioni, con la differenza che invece di portare avanti questo obiettivo da un punto di vista quantitativo e cercare dunque di attribuire il “peso” ad ogni singolo attore in campo, preferisco, come Don Kalb, illustrare il quadro delle relazioni.

Oltre al lavoro sul campo in Ucraina interrotto nel 2021, questo contributo al dibattito sulla guerra si basa anche sulla mia ricerca in Bielorussia (2015-2017) e sulle mie conclusioni riguardo al modo in cui il “regime cesarista” di Lukashenko è cambiato quando ha dovuto confrontarsi con le sfide poste alla sua “strategia passivo-rivoluzionaria”, per usare un lessico gramsciano, sia di stampo popolare che geopolitico (2020, 2021).

A partire dalla mia comprensione del contesto ucraino e bielorusso, traccerò le linee della logica politica che sta dietro all’aggressiva espansione territoriale della Russia come reazione allo scenario globale dato dal declino dell’egemonia statunitense.

Sostengo che questo espansionismo sia guidato dalla logica di legittimazione con la quale la Russia propone ai propri ipotetici “clienti” una nuova “Sacra Alleanza” anti-rivoluzionaria, proprio come fece la Russia zarista nel 19esimo secolo, e generi un sistema di regimi “anti-Maidan” che condividono importanti aspetti comuni di natura culturale e politica.

Capi di Stato, tra i quali i presidenti russo e ucraino, partecipano ad un incontro a Minsk il 26 agosto del 2014. Foto di Mykola Lazarenko, Ufficio stampa presidenziale Ucraino da Flickr

Questa logica politica, espressa con chiarezza nel discorso di Putin alle Nazioni Unite del 2015, segue uno spostamento nella strategia imperialista della Russia. Secondo l’economista politico Ilya Matveev, intorno al 2014 l’imperialismo russo ha compiuto una transizione da una logica di natura economica a una di natura territoriale, quando lo stato russo ha rinunciato alla strategia di espandere la sfera del business privato in Ucraina e altre repubbliche post-sovietiche e ha iniziato a costruire un controllo politico su questi territori, anche ai danni degli interessi del capitale privato.

L’esempio più lampante di questa nuova strategia è rappresentato dall’annessione della Crimea e dal sostegno ai ribelli filo-russi del Donbass. Tuttavia, la strategia sembrerebbe essere più ampia e comprenderebbe anche la rivitalizzazione degli altri “conflitti congelati” (Georgia nel 2008, forse la Moldavia), il coinvolgimento in conflitti interni (Ucraina nel 2014, Bielorussia nel 2020, Kazakihstan nel 2022) e la fornitura di assistenza militare (Siria e diversi paesi africani).

Il principio cardine di questa strategia territoriale di legittimazione è stata la difesa e il mantenimento di quei regimi neopatrimoniali minacciati dallo scontento popolare. Gli staterelli separatisti del Donbass sono stati i primi di una serie di regimi che hanno iniziato a comparire nello spazio post-sovietico dal 2014 in poi in reazione alla minaccia, reale o percepita, delle proteste popolari.

Definisco queste forme di governo regimi “anti-Maidan” in riferimento alla loro narrazione di legittimazione iniziale secondo la quale nascevano per resistere alle proteste del Maidan ucraino. Ciò che li unisce è il fatto di costituire delle reazioni a sollevazioni populiste, di promuovere una de-mobilitazione più che una mobilitazione delle rispettive popolazioni, e di fare affidamento sulla coercizione poliziesca e militare più che su un progetto egemonico.

Nel momento in cui le élites in difficoltà si sono unite a questa Sacra Alleanza, i loro regimi si sono trasformati di conseguenza: questi comprendono la Siria di Assad, la Bielorussia di Lukashenko, più recentemente il Kazakihstan e le regioni dell’Ucraina occupate recentemente. Riportando tale logica dentro le mura di casa, lo stesso regime russo si è trasformato in uno stato di polizia autoritario con tendenze post-fasciste.

Questo progetto dovrebbe essere riportato alle continue crisi strutturali emerse violentemente in superficie nel 2008 che hanno reso possibili le condizioni della vigilia della sollevazione di Maidan del 2013. Le proteste del Maidan ucraino erano un’espressione locale di quelle “mobilitazioni globali” (Kalb e Mollona, 2018) contro i regimi neopatrimoniali neoliberisti sotto pressione per via della crisi, rappresentate al meglio dalle Primavere Arabe.

Generate attorno alla precipitazione territoriale di pulsioni politiche, queste sollevazioni affondavano le proprie radici in qualcosa di simile al mito politico soreliano che è stato capace di produrre una spaccatura fra “noi e loro”, ma che non è riuscito a generare un cambiamento duraturo per via della mancanza di strutture organizzative e di leadership.

Per questo motivo, sono stati i gruppi più violenti e radicali ad approfittare di questi movimenti, come una sorta di “condottieri” contemporanei i quali, ciononostante, non sono stati capaci di incarnare la volontà collettiva (Gopal, 2020).

Questi regimi neopatrimoniali e di post-sviluppo si trovavano su livelli di declino diversi e intrattenevano relazioni differenti con i propri vicini. Per questo i regimi tunisino e bielorusso, potendo contare sui propri sponsor e avendo stati più solidi, sono riusciti a sussumere le sollevazioni all’interno delle loro continue strategie passivo-rivoluzionarie.

Altri invece hanno subito l’intervento dei propri vicini, come successo i Bahrain, Yemen e Ucraina. Altri ancora sono sprofondati in una lunga guerra civile, come la Libia o la Siria, e sono diventati il terreno di scontro della competizione degli imperialismi statunitense, turco e russo.

Contrariamente a quanto affermato da preconcetti largamente diffusi, gli Stati Uniti hanno dimostrato il fallimento della propria egemonia quando si sono confrontati con queste situazioni.

In questo caso, utilizzo il termine “egemonia” in senso gramscian-arrighiano, ovvero in quanto insieme di istituzioni e ideologie sostenute e rafforzate dalla possibilità che l’uso di una forza credibile possa superare le crisi e riallineare gli interessi delle élite centrali e di quelle periferiche. Nonostante la Federal Reserve fosse riuscita a mitigare la crisi del 2008 in Europa con relativo successo, ha fallito nel riportare ordine nella sua periferia (Tooze, 2019).

Allo stesso modo, le operazioni militari statunitensi hanno prodotto conseguenze indesiderate: una volta che questo vuoto di egemonia si è aperto e gli Stati uniti hanno dimostrato la propria debolezza, uno “spettacolo di merda (usando le parole di Obama) si è creato nel momento in cui i vari contendenti si sono gettati immediatamente all’azione offrendo il proprio aiuto per ripristinare l’ordine.

Uno di questi contendenti per l’egemonia era la Russia, uno dei regimi neopratrimoniali il cui declino iniziava appena a manifestarsi. I primi segni di questo declino si sono manifestati nelle proteste della classe media del 2011-2013 che furono immediatamente represse.

Dal momento che, secondo Gramsci, il dominio nelle relazioni internazionali rappresenta un’estensione del modello di dominio della classe dominante, anche il sistema neopatrimoniale di interdipendenze internazionali della Russia stava sfuggendo via.

Pertanto, la Russia si è inventata una dottrina di sostegno ai “regimi legittimi” in opposizione alla guerra ibrida portata avanti dall’Occidente (Göransson, 2021). Come alternativa alla traballante egemonia statunitense basata sulla “esportazione della democrazia” e che includeva il sostegno alle sollevazioni popolari, la Russia ha elaborato l’offerta di una Santa Alleanza per il 21esimo secolo.

In termini gramsciani, si trattava di un’offerta per la preservazione di quel blocco storico basato su un tipo di dominio di stampo cesarista più che di stampo egemonico. Quindi, in opposizione all’incertezza degli Stati Uniti, la Russia ha proposto un sistema internazionale senza egemonia.

Un’offerta del genere assolverebbe due compiti: rinvigorire il controllo del regime interno in Russia e assicurare la stabilità dei regimi degli stati che aderirebbero alla Santa Alleanza. Questa è una chiave di lettura degli sviluppi successivi al Maidan. La caduta di Yanukovich metteva in luce la fragilità dei regimi neopatrimoniali e pertanto minacciava il ruolo della Russia di garante della sicurezza dopo che lo stesso Yanukovich aveva accettato l’offerta sul finire del 2013.

La componente di debolezza mitopoietica della sollevazione di Maidan ha finito col produrre la linea di frattura del “Noi contro di loro”, ignorando completamente una parte considerevole della popolazione ucraina (Zhuravlev e Ishchenko, 2020).

Prevedibilmente, ne è seguito lo stadio del condottierismo dell’estrema destra che ha acuito ulteriormente la frattura. L’Europa era disorientata e gli Stati Uniti erano cauti nel lasciarsi coinvolgere in un’altro “spettacolo di merda”. L’annessione della Crimea e il soffiare sul fuoco della guerra civile in Ucraina non sono stati altro che la logica applicazione della dottrina di legittimazione.

Questa prima mossa è stata in puro stile cesarista, un’operazione speciale della “guardia pretoriana” di Putin. L’obiettivo di rinforzare la legittimazione interna è stato ottenuto grazie al cosiddetto “effetto Crimea”, mentre quello di instaurare un’ordine costituito in Ucraina era ancora in via di svolgimento.

Gli analisti russi si aspettavano che il governo post-Maidan non sarebbe stato molto diverso da quelli precedenti e che avrebbe avuto quindi bisogno di un garante della sicurezza contro la minaccia separatista alimentata dalla stessa Russia.

Incendio del quartier generale dell’Euromaidan nella Sede dell’Unione dei Sindacati. Foto di Amakuha da Wikipedia

Il governo russo sapeva inoltre che né l’Europa né gli Stati Uniti avrebbero avuto l’intenzione di svolgere loro il ruolo di garanti nella misura richiesta dalla situazione. Infatti, hanno offerto i cosiddetti “accordi di Minsk”, che rappresentavano una consacrazione diplomatico-militare della vittoria militare russa sul debole regime post-Maidan.

Gli accordi di Minsk prevedevano la presenza delle forze politiche e militari russe che si trovavano de facto all’interno dello stato federale ucraino e che avrebbero potuto prevalere nella guerra civile che sarebbe seguita.

L’Unione Europa non aveva altra scelta se non quella di provare a congelare la situazione di “nè guerra nè pace”, nella speranza che si sarebbe risolta da sola in futuro. Gli Stati Uniti, dal canto loro, si sono tenuti a distanza durante l’interregno di Trump.

Tuttavia, le autorità di Kiev e gli eredi dei condottieri di Maidan hanno lottato con le unghie e coi denti per evitare questa situazione. Hanno imposto il “post- Maidan consensus”, facendo breccia con la frattura aperta dell’impeto politico del Maidan e sul sostegno dei condottieri. Con l’aiuto limitato dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, le autorità di Kiev sono riuscite a ricostituire le istituzioni pubbliche e a riorganizzare l’esercito.

L’Occidente non ha avuto altra scelta se non quella di accettare il nuovo “cesarismo” di Kiev. Questa volta la Russia decise di aspettare mentre rinforzava le repubbliche separatiste del Donbass come avamposto dello scontro imminente.

A quel punto le Repubbliche Popolari di Lugansk e Doneck, tenute insieme dal perenne stato di emergenza
e da una dura repressione contro il dissenso politico e culturale e contro gli attivisti per i diritti sul lavoro, sono diventate una “zona grigia” controllata da enti pubblici e privati russi (Savelyeva, 2022).

Avendo consolidato la propria sovranità su questi “avanposti anti-Maidan” in Donbass, la Russia ha rivendicato il proprio successo incontrastato in Siria ripristinando il controllo di Assad sulla maggior parte del paese e seppellendo ogni residuo della sollevazione del 2011.

Infine, la Bielorussia post-2020, passata dall’essere un regime di stampo populistico-autoritario a uno stato di polizia apertamente dittatoriale (Artiukh, da pubblicare), ha rappresentato senza ombra di dubbio l’esempio di maggiore successo dell’assistenza offerta dalla Russia all’interno della Sacra Alleanza.

Similmente alla leadership delle Repubbliche del Donbass, Lukashenko ha cementato la propria legittimità nel periodo successivo alle proteste del 2020 presentandosi come il salvatore della nazione col fucile in mano contro il tentativo di un colpo di stato favorito dall’Occidente, che veniva esplicitamente paragonato al Maidan ucraino.

Il sostegno politico, mediatico ed economico della Russia è riuscito non solo a garantire la stabilità del regime di Lukashenko, ma anche a legarlo indissolubilmente a Mosca, assicurandosi così anche una nuova postazione militare.

Questa serie di successi sullo sfondo dei fallimenti americani ed europei hanno incoraggiato le élite russe. Mentre la Russia reinstallava il potere di Assad in Siria, esportava i propri servizi nei paesi africani e reprimeva le proteste interne, gli Stati Uniti erano concentrati sullo “spettacolo di merda” interno di Trump, rischiando di perdere alleati Nato, annunciando una virata verso l’Asia e perdendo miseramente con il ritiro dall’Afghanistan.

L’ultima questione in sospeso per la Sacra Alleanza era l’Ucraina. Fin dall’inizio del 2020, la Russia aveva incominciato a integrare gli staterelli separatisti del Donbass nella sfera ideologica, economica e politica russa, mentre contemporaneamente metteva pressione sulle autorità ucraine per implementare in fretta e furia la parte politica degli accordi di Minsk.

Dopo un breve intesa con Putin, il governo di Zelensky si è reso conto che non avrebbe potuto in alcun modo ripristinare la propria sovranità sulle regioni separatiste se il processo di Minsk veniva supervisionato dalla Russia e se le politiche interne venivano contestate dai nazionalisti.

Le azioni della Russia suggerivano che l’intenzione fosse quella o di integrare completamente gli staterelli dentro il proprio territorio sull’esempio della Crimea o di utilizzarli come avamposto del “mondo russo”, così come veniva declamato nella dottrina ideologica delle repubbliche di Lugansk e Doneck all’inizio del 2020.

Secondo alcuni analisti, questo il momento in cui le autorità russe hanno iniziato a prepararsi per un’eventuale operazione su larga scala contro l’Ucraina. Il passo successivo era solo una questione di tempo e opportunità. Questa opportunità è arrivata tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022.

Molti fattori che avrebbero indebolito l’Occidente e rafforzato la Russia convergevano, e le élites russe lo avevano capito. Non solo l’Europa e gli Stati Uniti erano colpiti dalla pandemia, ma si trovavano anche ad affrontare un periodo di transizione politica: il nuovo e debole presidente statunitense che continuava la svolta verso l’Asia, il nuovo cancelliere in Germania e le imminenti elezioni in Francia [20 giugno 2022 – ndt].

Le cose andavano molto meglio per la Russia: la Bielorussia era saldamente sotto il suo controllo come un “bambino modello” della Sacra Alleanza, l’economia russa si era stabilizzata e aveva accumulato quantità di risorse come non mai e l’operazione speciale lampo in Kazakihstan avrebbe dato prova della Russia come garante della sicurezza credibile.

Perciò, la Russia ha annunciato il proprio assalto con una prima minaccia di guerra ad aprile del 2021 che aveva apparentemente aperto un dialogo su questioni di sicurezza strategica fra Russia e Stati Uniti. Dopodiché, Putin e Medvedev hanno scritto i loro articoli riguardanti l’Ucraina e Zelensky, annunciando essenzialmente un ultimatum: o l’Ucraina viene riconfigurata secondo la volontà russa oppure verrà distrutta in quanto nazione.

Zelensky era probabilmente consapevole del pericolo in arrivo, per cui ha accelerato l’operazione di “pulizia” del proprio dominio interno e ha provato a migliorare il proprio esercito il più possibile mentre restava aggrappato al cessate il fuoco nel Donbass.

Sperava di poter restare in equilibrio e trovare una via d’uscita dallo stretto cammino che aveva di fronte a sé. Nel frattempo, la Russia lanciava un altro ultimatum a dicembre del 2021 con cui chiedeva già il ritiro delle infrastrutture Nato dai paesi dell’ex-Patto di Varsavia in aggiunta al divieto di accettare nuovi membri nell’Alleanza Atlantica.

In maniera molto simile all’ultimatum dell’Austria contro la Serbia del 1914, anche quello di Putin era pensato in modo da non poter essere rispettato. Dopo qualche arretramento iniziale, l’esercito russo ha continuato a occupare il territorio ucraino oltre i territori delle repubbliche separatiste, mantenendo deliberatamente vaghi gli obiettivi politici della guerra.

Dopo tre mesi di guerra, i territori occupati da poco nel sud dell’Ucraina vengono controllati grazie ai metodi sviluppati dagli altri regimi anti-Maidan, nello specifico quelli della Bielorussia e delle Repubbliche del Donbass.

Proteste in Bielorussia del 2020. foto di Спадар Бурак da Wikipedia

Il successo incontrastato della repressione di Lukashenko nei confronti delle persone che contestavano i risultati delle elezioni illegittime del 2020 si è basato su una violenza poliziesca senza precedenti, condanne di incarceramento a lungo termine e da un’opera di indebolimento del morale dei dissidenti.

Dopo aver abbandonato il suo caratteristico populismo, Lukashenko ha dimostrato che la forza bruta da sola può funzionare se le persone sono sufficientemente alienate nelle città e sulle catene di montaggio. Le manifestazioni di massa iniziali contro l’occupazione russa sono state disperse mentre la Russia rinforzava la propria capacità di implementazione delle politiche nelle retrovie dell’esercito occupante.

Ci sono testimonianze di attivisti politici rapiti e torturati, reiterando l’esperienza del Donbass. Uno dei metodi utilizzati in Bielorussia (videoregistrazioni sistematiche di confessioni forzate), è stato appena riproposto nell’oblast [suddivisione territoriale ucraina – ndt] di Cherson, in cui le persone scontente dell’occupazione sono state costrette a scusarsi davanti alla videocamera e dichiarare che “avevano seguito un corso di de-nazificazione”.

Tutto questo non è accompagnato da alcuna narrazione ideologica coerente. Al contrario, il progetto comunicativo russo è un mix caotico di simbolismo sovietico, zarista e vagamente fascista il cui unico scopo è intimidire e mostrare l’inutilità della resistenza (Artiukh, 2022).

Mentre costruiva questo sistema di regimi anti-Maidan, la stessa Russia si è trasformata da una “democrazia controllata” a uno stato di polizia con tendenze post- fasciste imponendo un mix postmoderno di ideologie che non sono pensate per convincere veramente le masse (Budraitskis, 2022).

Se gli Stati Uniti hanno presieduto l’emergere del mondo post-sovietico promuovendo linee guida di stampo neoliberale e fallendo nel creare un nuovo paradigma egemonico di sicurezza, la strategia anti-Maidan della Russia ha avuto successo nel chiudere i ponti con ogni caratteristica di “post-sovieticità” distruggendo ogni residuo della civilizzazione sovietica di cui gli stati emersi da quel crollo si sono nutriti.

Da una parte, si tratta di una “decomunistizzazione simbolica”: dalla distruzione materiale dei monumenti in Ucraina alla zombificazione dei simboli sovietici trasformati nelle effigi della conquista coloniale della Federazione Russa).

Dall’altra, si tratta di una “de-comunistizzazione politica ed economica”: la delegittimazione dei confini delle ex-repubbliche e la distruzione dei centri dell’industrializzazione sovietica nel Donbass, a Mariupol o a Kharkov. Il lungo declino della pax postsovietica è quasi arrivato al termine.

Volodymyr Artiukh è un Ricercatore Postdoc presso il COMPASS [Centro sulle Politiche Migratorie e Società ndt] dell’Università di Oxford con il progetto finanziato dal Consiglio Europeo EMPTINESS: Vivere il capitalismo e la democrazia dopo il (post) socialismo. Ha completato il suo dottorato di ricerca in Sociologia e Antropologia Sociale alla Central European University nel 2020 con una tesi sul lavoro e le migrazioni nei paesi post-sovietici. I suoi interessi di ricerca includono l’antropologia del lavoro e delle migrazioni nei paesi post-sovietici, l’antropologia del populismo e lo studio dell’egemonia nell’Europa Orientale.

Articolo pubblicato originariamente su FocaalBlog

Traduzione a cura di Francesco Brusa e Michele Fazioli

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org