EUROPA

La diplomazia francese e la repressione del movimento curdo: sull’arresto di dieci militanti curdi a Marsiglia, Parigi e Draguignan

In Francia la stretta repressiva nei confronti di attivisti e attiviste segna una nuova fase nelle relazioni geopolitiche tra Macron ed Erdoğan a seguito del colloquio telefonico tra i due del 18 marzo: perquisizioni e fermi a Marsiglia, Parigi e Draguignan

Martedì mattina 23 marzo la polizia francese ha arrestato dieci militanti curdi a Marsiglia, Parigi e Draguignan nel contesto di un’operazione “anti-terrorismo”. A Marsiglia sono stati perquisiti sei appartamenti, un negozio alimentari e il centro culturale curdo.

 

Tra gli attivisti fermati, alcuni hanno problemi di salute e necessitano di cure, altri rischiano di perdere lo statuto di rifugiati politici ed essere deportati in Turchia.

 

Al momento gli interrogatori sono ancora in corso e i capi d’accusa non sono stati resi noti. Quello che è certo è che in Francia si respira un’aria pesante dopo il colloquio telefonico tra Macron e Erdoğan avvenuto lo scorso 18 marzo, in cui i due presidenti auspicavano «misure congiunte contro le organizzazioni terroristiche».

L’ombra del Sultano pesa molto sull’apparato repressivo francese, tanto che il giorno seguente agli arresti Vidat Bingol, ex co-presidente del Conseil démocratique kurde en France, si è visto notificare dal commissariato di Villeneuve Saint George una convocazione per “oltraggio a Erdoğan”.

 

Foto da WikiCommons

 

Questa complicità nella repressione del movimento curdo non è inedita. A Parigi si chiede ancora giustizia per le tre militanti curde Fidan Doğan, Leyla Söylemez e Sakine Cansız (co-fondatrice del PKK), assassinate nel gennaio 2013 per mano dei servizi segreti turchi (MIT).

Il governo Macron non ha evidentemente messo in questione la linea anti-curda e ha in molte occasioni ribadito il proprio sostegno alla Turchia contro il “terrorismo” – nonostante il decreto del 15 novembre 2018 della Corte di Giustizia dell’Unione Europa consideri illegittima l’iscrizione del PKK nelle liste di gruppi implicati in atti di terrorismo.

In effetti, nell’ultimo anno una ulteriore decisione della Corte di Cassazione belga (29 gennaio 2020) si è aggiunta a quella della Corte di Giustizia aprendo possibili scenari di de-criminalizzazione sul piano europeo[1].

Si tratta di un passaggio importante perché vi è un uso interamente politico che i governi fanno di questa iscrizione nella lista delle organizzazioni “terroriste”, funzionale a colpire le rivendicazioni di democrazia e uguaglianza svolte dai movimenti sociali curdi, anche al di là di legami con il Partito dei lavoratori.

 

L’operazione di polizia contro i militanti curdi ha tutta l’aria di un’offerta al Sultano, funzionale a stemperare le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra Francia e Turchia nel 2020.

 

Le relazioni geopolitiche, già incrinate in Siria del Nord dall’operazione militare turca “sorgente di pace” (ottobre 2019), sono esplose nel Mediterraneo orientale (dove la Francia interviene a fianco della Grecia per la gestione di risorse di idrocarburi, agosto 2020) e in Libia (dove la Francia denuncia il traffico di armi turche nella guerra contro Haftar).

La crisi Francia-Turchia è poi diventata profondamente diplomatica nell’ottobre 2020, in seguito al tragico omicidio del professore di liceo Samuel Paty (decapitato da un giovane per aver mostrato le copertine di “Charlie Hebdo” in classe).

La recrudescenza islamofoba in Francia ha fornito ad Erdoğan una base discorsiva per il suo progetto espansionista, tanto da spingersi a suggerire pubblicamente a Macron un «controllo di salute mentale» e a denunciarne la vocazione da «prefetto coloniale» nei confronti dell’islam.

Il giorno seguente, 25 ottobre, l’ambasciatore francese ad Ankara sarebbe stato richiamato in patria.
Il colloquio telefonico del 18 marzo tra Macron e Erdoğan segna dunque un cambio di passo nelle strategie diplomatiche, le cui implicazioni di medio termine andranno comprese a partire dal Consiglio Europeo del prossimo giugno. Macron già twitta compiaciuto dei «miglioramenti da parte di Ankara»10 ma non è difficile vedere la posizione di forza occupata da Erdoğan.

 

Del resto, nonostante l’aperto autoritarismo patriarcale del regime turco, dal 2016 l’Europa versa milioni di euro nelle casse di Ankara in cambio del blocco delle migrazioni provenienti dalla guerra siriana.

 

Per altro verso, in Francia come in Italia si prosegue la repressione dei movimenti sociali curdi nonostante il ruolo che essi hanno giocato contro Daesh, sostenendo opportunisticamente un regime – quello di Erdoğan – che in questi giorni consolida la sua base sociale reazionaria e misogina ritirandosi dalla Convenzione di Istanbul sui diritti delle donne e tentando di eradicare l’opposizione parlamentare dell’HDP.

Rimane dunque da domandarsi in che misura gli arresti degli attivisti curdi a Parigi e Marsiglia facciano parte di questo sudicio gioco di scambi e confermano una linea di conflitto che non è tanto – come si ama far credere in Francia – tra l’universalismo laico e il fondamentalismo separatista, bensì tra le istanze di democrazia radicale dei movimenti sociali e la politica di potenza dei diversi imperialismi.

 

[1] Arrêt T-316/14 du 15 novembre 2018 de la Cours de Justice de l’Union Européenne (CJUE)

Tutte le foto di Felice Rosa