EDITORIALE

La città del dopo. Dalle macerie dello spazio pubblico

La città che abitavamo è in dissoluzione e lo spazio pubblico non esiste più. Dobbiamo affrontare un futuro ignoto, con strumenti tutti da inventare, ma occorre costruire dalle macerie e assicurare per tutti le condizioni di una vita finalmente piena.

L’architettura scenografica della piazza ellittica e del grandioso sagrato trapezoidale hanno fatto da sfondo all’Avvenimento di questi giorni. È avvenuto il “sorprendente” che rappresenta il significato profondo dell’architettura barocca e sarebbe piaciuto a Gian Lorenzo Bernini, il più grande scenografo urbano mai esistito che quella piazza ha progettata. Il movimento spaziale, studiato come dovesse essere funzione di uno spettacolo teatrale, è stato capace di restituire gli effetti emotivi e visivi dell’avvenimento. L’estetica della meraviglia ci è apparsa in quel grande spazio vuoto, racchiuso fra le accoglienti braccia dei porticati, attraversato da una figura solitaria, mentre il crepuscolo trasformava i colori, resi lucidi dalla pioggia. Immagine perfetta della città che è diventata Roma in questi giorni sospesi. Più preciso sarebbe chiamarla la non-città. Lo spazio vuoto è diventato il simbolo urbano di questo tempo drammatico. Le strade, insieme alle piazze e ai giardini, appaiono deserti. Lo spazio pubblico è inanimato. La città, luogo sociale per eccellenza, non esiste più. Le immagini raccolte da droni in volo ci restituiscono visioni di spazi tanto belli, quanto inutili e desolati. Con l’eccezione, quel pomeriggio, di piazza San Pietro.

Ci tornano in mente quegli spazi com’erano poco più di un mese fa. Ripensiamo alla città di “prima”. Dopo, continuiamo a ripeterci, nulla sarà più lo stesso.

Com’era prima? Una città fatta di circolazione, trasporto, mobilità dove più che lo spazio è il tempo a definirne la struttura. Tempo del lavoro e del non-lavoro senza confini e relazioni sociali annullate rappresentano il quotidiano. Competizione, relazioni d’affari e turismo vorace trasformano i cittadini in utilizzatori della città. Estranei che coabitano uno spazio immateriale, sono soggetti connessi con il tempo dell’informazione e non più con lo spazio. Abbiamo costruito città come enormi espansioni urbane senza qualità, indifferenti ai luoghi che travolgevano, come somma di accampamenti, enclave per ricchi o ghetti per poveri, che ora l’epidemia mostra in tutta la loro ingiustizia. Le periferie sono diventate un tramite fra la città e la campagna, che di fatto non esiste più da quando è diventata spazio turistico di seconde case, produzione agricola industriale che si regge sulla schiavitù e qualche brandello di riserva di natura. Avanti all’infinito come se non esistesse un limite, lasciando che fosse la finanza a modellare lo spazio, organizzandolo al proprio comando e regolando le nostre vite.

Dopo, ci diciamo, non sarà più lo stesso.

Ora siamo racchiusi fra le mura di casa, facciamo piccoli passi all’interno del nostro spazio privato, mentre là fuori il contagio minaccia chi è costretto al lavoro. Lo spazio pubblico, l’acqua in cui nuotiamo, non ci appartiene più. Imprevisto e imprevedibile è quello che oggi viviamo.

Lo spazio che la città neoliberista aveva cancellato torna il protagonista della narrazione urbana. Lo fa addirittura misurandolo: un metro e mezzo è il distanziamento che ci protegge. Lo fa assegnando a ognuno di noi un recinto spaziale: le mura domestiche.

Mentre il tempo che dominava le nostre vite perde valore, si dilata all’infinito. Lo spazio si riappropria brutalmente della città. Ci sentiamo inermi mentre il flusso della logistica resta l’unico segno della città che scompare.

Per cercare di salvarci dobbiamo costruire un’altra città che non conosciamo. Non quella che noi stessi caparbiamente abbiamo distrutto. Possiamo provarci convincendoci che dovremo farlo in un nuovo universo, reso più povero dalla crisi che stiamo attraversando. Dovremo comprendere come cambiano le condizioni che pensavamo immutabili, mentre ci accorgiamo non essere più le stesse. Pensiamo al sostentamento, al cibo inteso come atto del nutrirsi che non è per tutti, al controllo climatico, al valore che dobbiamo assicurare ai beni comuni, al prendere atto che il modello sviluppista non è più in grado di imporre i suoi paradigmi di vita alla società, all’accettare che il territorio è un bene limitato. Significa assumere come indicatore della valorizzazione proprio la città quale spazio comune da non investire con politiche di privatizzazione.

Racchiusi fra le mura di casa, fragili di fronte a quello che succede, guardiamo quelle magnifiche piazze e quelle strade rese inutili e desolate. Le stesse che percorrevamo sicuri attraverso il nostro fare comune. Capiamo il valore del sistema sanitario pubblico, l’importanza di un reddito incondizionato, la necessità di preservare gli spazi comuni costruiti negli anni e sappiamo che dobbiamo ricostruire lo spazio pubblico ridotto in macerie e pensare insieme quali strumenti dobbiamo inventare per determinare le condizioni di una vita finalmente piena.