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Italia, 7 aprile 1979: pum, pum. Chi è? La polizia

In occasione della ricorrenza del 7 aprile, un estratto dal libro Autonomia operaia,di Emilio Quadrelli edito da Interno 4.

Alle prime luci dell’alba in molte case del Paese si consumò questo rituale. Orde fameliche di agenti dell’antiterrorismo si riversavano nelle abitazioni private di non poche donne e uomini con alle spalle una lunga militanza tra le file del movimento comunista non ortodosso. Gran parte delle loro biografie politiche raccontano di esperienze passate, nel corso degli anni Sessanta, dentro “Quaderni rossi”, “Quaderni piacentini”, “Classe operaia”[1] poi, con il sopraggiungere del ’68, all’interno degli organismi operai e studenteschi[2] confluendo infine in Lotta continua[3] e Potere operaio[4], i due gruppi della sinistra extraparlamentare che erano stati in grado di sintetizzare al meglio, pur con non poche differenze tra  loro, il senso della pratica autonoma posta in atto dalla classe nel corso degli anni Sessanta e che ora, in quello che è stato chiamato autunno caldo, mostrava non solo il suo carattere dirompente ma si poneva come possibile forza egemone dentro la classe. L’autunno caldo sembrava ampiamente confermare e radicalizzare tutte le intuizioni che le aree teoriche e politiche formatesi negli anni Sessanta, attraverso lo strumento della “inchiesta operaia”, avevano elaborato[5]. L’altro movimento operaio non aveva nulla di bohemien, eccentrico o fantasioso, non era una suggestione coltivata da eterni acchiappa nuvole continuamente alla ricerca di un sogno sempre impossibile da catturare. Nessuna utopia millenarista faceva da sfondo all’elaborazione teorica e politica di questo ceto intellettuale bensì, a caratterizzarlo, era il riconoscere la concretezza di un conflitto di classe che, giorno dopo giorno, si mostrava sempre più deciso a dare l’assalto al cielo.

L’autunno caldo poneva in tutta la sua durezza e materialità l’irrompere di una forza operaia che quando sognava lo faceva a occhi aperti[6], ponendo all’ordine del giorno la questione del potere tanto che, per molti versi, si può dire che le masse si stavano mostrando più avanti delle stesse aree radicali le quali, di fronte all’irrompere della lotta operaia, si trovarono spesso almeno un passo indietro. Quanto andava in scena obbligava a fare i conti con la questione dell’organizzazione o, per essere maggiormente chiari, con la messa in forma del partito dell’insurrezione e l’attualità della rivoluzione[7]. Palesemente si stava ampiamente delineando e consolidando uno scenario che spostava il baricentro dell’azione dalla radicale conflittualità di fabbrica al conflitto politico tout court. Dalla lotta contro il padrone alla lotta contro lo stato. Questo scenario o lo si accettava o non restava altra scelta che chiamarsi fuori. Non fu certo un passaggio facile e indolore. Non pochi militanti e intellettuali, che in passato avevano avuto un ruolo predominante nell’elaborare ipotesi e linee di condotta dell’altro movimento operaio fecero marcia indietro, per ricollocarsi, ancorché in maniera critica, dentro gli istituti del movimento operaio tradizionale.[8] Tutti gli altri, invece, accentuarono il loro grado di militanza consapevoli che il dado era tratto il che, inevitabilmente conduceva a dare forma politica e organizzata a quel o il fucile, o le catene come unica e possibile scelta e via di uscita dai livelli di scontro che le masse avevano obiettivamente imposto. L’esperienza dei gruppi extraparlamentari fu il primo tentativo di risposta organizzata al delinearsi di questa strettoia.[9]

Proprio da questo “ceppo” teorico, in seguito alla crisi irreversibile dei gruppi della sinistra extraparlamentare, prese forma l’area della Autonomia operaia[10] contro la quale la mattina del 7 aprile si riversò tutta la potenza repressiva dello Stato. Grazie a ciò, il presunto Gotha del terrorismo, questa la notizia che immediatamente rimbalzò tra le agenzie di stampa internazionali, era stato individuato e reso innocuo. La sua decapitazione, a questo punto, si riduceva a un fatto di semplice routine. Accurate e minuziose indagini sembravano non lasciare scampo agli imputati. Un ventennio di lotte e insubordinazioni operaie e proletarie poteva finalmente essere archiviato e insieme a queste tutte le declinazioni organizzate che le avevano prodotte. Infatti, secondo gli inquirenti, l’Autonomia operaia non era altro che, al contempo, la facciata pubblica e legale di tutte le organizzazioni antagoniste, armate e combattenti presenti sul territorio nazionale e il “cervello politico” che le dirigeva e indirizzava. Brigate comuniste, Brigate rosse, Comitati comunisti rivoluzionari, Formazioni comuniste combattenti, Prima linea, Unità comuniste combattenti insieme alle centinaia di sigle che costellavano il panorama dell’illegalità di massa e della guerriglia non sarebbero state altro che emanazioni di un unico centro politico facente capo a quella sorta di massoneria dell’insurrezione che i “cattivi maestri” avevano pazientemente e costantemente posto a regime.[11]

Dietro alle diverse sigle non vi sarebbero state corpose differenze politiche, presupposti teorici diversi e prospettive divergenti se non addirittura contrapposte ma tutto quel guazzabuglio di sigle non sarebbe stato altro che un sapiente piano di depistaggio ordito dai “cattivi maestri” per confondere gli inquirenti e condurli fuori pista. Insomma, secondo gli inquirenti, le rigide Brigate rosse e gli Indiani metropolitani facevano parte di un medesimo progetto politico finalizzato a rendere ingovernabile il Paese, destrutturare lo stato al fine di aprire le porte alla guerra civile dispiegata. Al confronto persino l’operazione “bodyguard”, comunemente considerata una delle più complesse e incredibili azioni di depistaggio mai poste in opera, finiva con l’impallidire[12].  Gli arresti, in linea di massima, non sparavano nel mucchio ma avevano avuto l’accortezza di scegliere con cura gli obiettivi. Colpiti ed eliminati dovevano essere quelli che, secondo l’acume investigativo, avevano incarnato il ruolo di “cattivi maestri” per intere generazioni. Sulla base di ciò e ampiamente spalleggiata dall’intera stampa nazionale, ah la cara libera informazione vanto delle democrazie avanzate, prendeva forma una delle più grandi bufale giudiziarie della storia di questo Paese. Pietro Calogero, un non troppo noto magistrato padovano, dava il la a quello che, di lì a poco, avrebbe preso il nome di “teorema Kalogero”.

 

[1] Per una buona ricostruzione sia di queste esperienze, sia del ruolo svolto dall’operaismo nel contribuire alla messa in forma di quanto andrà in scena negli anni Settanta si vedano: G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, a cura di, Gli operaisti. Autobiografie di cattivi maestri, Derive Approdi, Roma 2005; F., Milana, G. Trotta, , a cura di, L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni rossi” a “Classe operaia”, Derive Approdi, Roma 2008; M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma 2009; S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008.

[2] Una buona e articolata descrizione di questo percorso si trova in, G. Viale, Il 68, Edizioni interno 4, Firenze 2018.

[3] Sull’esperienza complessiva di Lotta continua si veda, in particolare, L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano 1988. Di notevole interesse, con un approccio più “sociologico” che storico, è il saggio di, E. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni Settanta. Lotta continua, Edizioni Associate, Roma 2002.

[4] Su Potere operaio oltre all’ormai classico, A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storie di Potere operaio si vedano gli ottimi lavori di M. Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria, vol. I, Derive Approdi, Roma 2018; Potere operaio. La storia. La teoria, vol. II, Derive Approdi, Roma 2019.

[5] Una delle migliori esemplificazioni di questo metodo di lavoro politico è rappresentato dai contributi di R. Alquati presenti nel volume, Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1975.

[6] Il riferimento è al famoso passo: “Tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini: ma coloro i quali sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a occhi aperti, per renderli possibili”, presente in, Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Bompiani, Milano 1949.

[7] Ci sembra che tutto ciò abbia non poco a che vedere proprio con quella attualità della rivoluzione intorno alla quale si sofferma a lungo il testo eretico di G. Lukács, Lenin. Teoria e prassi di un rivoluzionario, Red Star Press, Roma 2019. Ciò che, infatti, sembra profilarsi dentro l’asprezza del conflitto è l’attualità della rottura rivoluzionaria il che obbliga a centralizzare tutte le forze in funzione di quella prospettiva. Per una discussione e attualizzazione di questo piccolo capolavoro della teoria politica e filosofica del Novecento mi permetto di rimandare al mio, György Lukács, un’eresia ortodossa, con il quale ho cercato di introdurre e accompagnare il testo  lukácsiano.

[8] Figure come quelle di Mario Tronti e Massimo Cacciari, ad esempio, proprio di fronte a questo passaggio scelsero di rientrare nei ranghi del partito comunista ipotizzando un lavoro di critica al suo interno. Cfr. M. Scavino, Potere operaio. La storia. La Teoria, vol. I, cit.

[9]  Per una sintetica ricostruzione di questa esperienza dove ne sono evidenziati grandezze e limiti si veda, A. Negri, “Un passo avanti, due indietro: la fine dei gruppi”, in AA. VV., Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano 1974.

[10] Su questo passaggio si veda, soprattutto, Editoriale, Potere operaio, n. 50, settembre 1973.

[11] Su quanto fosse variegata e ben poco omogenea l’area dell’antagonismo radicale e della guerriglia comunista è facilmente constatabile leggendo i testi programmatici delle varie organizzazioni o semplici collettivi che hanno caratterizzato il movimento dell’insorgenza sociale e politica degli anni Settanta. Al proposito è quanto mai utile, per una panoramica sintetica ma esauriente, il volume, AA. VV., Progetto memoria, Le parole scritte, Sensibili alle foglie, Roma 1996.

[12] L’operazione Bodyguard è stata posta in atto, nel corso della Seconda guerra mondiale, dall’intelligence britannica al fine di convincere la Germania che gli sbarchi in Normandia rappresentavano solo un diversivo tattico mentre il vero e proprio sbarco sarebbe avvenuto a Calais. In questo modo l’intelligence britannica riuscì a paralizzare l’esercito tedesco che, proprio a Calais, continuò a mantenere concentrato il grosso delle sue forze, comprese le due temibili Divisioni panzer che rimasero in riserva in attesa dello sbarco vero e proprio. Sbarco che doveva essere guidato dal generale Patton alla testa di un’armata che, però, non era mai esistita. Grazie a Bodyguard gli Alleati poterono sbarcare con una certa facilità e con perdite alquanto contenute in Francia. Lo sbarco consentì di allestire una corposa e solida testa di ponte che permise, in piena tranquillità, lo sbarco del grosso dell’esercito Alleato. Bodyguard è comunemente considerata come una delle più importanti e incredibili   operazioni di intelligence della storia. Per una sua minuziosa ricostruzione si veda, R. Hesketh, Fortitude: The D – Day Deception Campaign, The Overlook Press, Woodstock (NY) 2000.

 

Estratto dal libro Autonomia operaia,di Emilio Quadrelli, Interno4 edizioni, 2020