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ilmondoinfine: vivere tra le rovine

Si conclude mercoledì 23 gennaio, con l’attesa relazione di Paolo Virno, “ILMONDOINFINE: vivere tra le rovine”, il progetto espositivo della Galleria Nazionale, ideato da Ilaria Bussoni, che, a partire dal 13 dicembre scorso, e articolando una mostra e una serie di eventi dal vivo, ha interrogato «le forme umane e non umane, presenti e passate, di mondanità».

ilmondoinfine: vivere tra le rovine

di Ilaria Bussoni

 

ilmondoinfine, si scrive tutto attaccato perché a ciascuno sta di mettere uno spazio e di decidere se vivere in un mondo in fine o in un mondo, infine. Nella distanza tra un complemento di un tempo che giunge al termine e un avverbio che esclama l’occasione di afferrarlo si colloca un progetto espositivo a più dimensioni promosso dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.

Le narrative dell’apocalissi, che siano culturali o ecologiche, che assumano la forma del collasso o dell’esaurimento, che prefigurino l’evaporazione dei riferimenti simbolici o una reale scomparsa della nostra specie, il crollo della catena significante o della produzione del valore, vengono a interrogare la nostra presenza di umani, viventi tra gli altri ma di certo singolari, su questo pianeta. Per nessuna di esse il nostro passaggio sarà stato indenne. E le tracce della nostra era, quella geologica dell’homo sapiens, potranno avere la forma dell’industrializzazione o dello sfruttamento intensivo delle risorse, della tecnica o della crisi ambientale, e dunque declinare l’attuale era geologica con l’anthropos o il capitale, con Chtulhu o la piantagione, ma saranno comunque tracce della devastazione. In questo mondo che ha iniziato a misurare il nostro impatto e quel che resta della sua durata saremmo chiamati a continuare a vivere, in un mondo in fine.

Ma un mondo è entità diversa da un astro tondeggiante graziato dalla vita chiamato Terra. Un mondo è questo sommato a un’idea di natura, l’idea tutta umana attraverso la quale si è immaginato il come starci. Nel come precipitano così le nostre forme di mondanità, i modi nella storia e nella geografia diversi attraverso i quali i viventi umani hanno creato e continuano a creare qualcosa senza la quale sembrano avere un certo disagio: la propria presenza. Parola indicata dall’antropologo Ernesto De Martino per esprimere il nostro specifico dello stare su un pianeta non senza una certa capacità creativa in virtù della quale il mondo, o meglio un mondo, lo si dovrà inventare. Da lì le montagne saranno divinità o oggetti rocciosi, le foreste mangeranno i bambini, gli animali avranno diritto di parola ma solo per la notte dell’epifania, e la sintassi di volta in volta mutevole che farà da relazione a quel che l’Occidente tassonomico chiama la divisione dei regni – vegetali, animali, minerali – consentirà che spunti l’inattesa varianza dei mondi possibili. Tra i quali, quello che si presume il nostro, dei mezzi e dei fini, dell’operare industrioso con certi strumenti tra i quali la materialità di un’astrazione chiamata denaro, non è di certo il migliore ed è indubbiamente il più problematico. Ma è quello che per il momento sembrerebbe aver vinto sui mondi degli altri, lasciando la gran parte di noi a vivere tra le rovine, incluse le sue.

Proprio lì, tra le rovine degli ambienti boschivi collassati, sui cumuli di macerie delle città di continuo dissodate, limitrofa ai resti della nostra civiltà prima che li si trasformi in monumenti, ostinata e sorprendente torna a proliferare la vita. Abbia essa la forma dei funghi matsutake, agenti creatori di mondi in grado di ospitare gli umani espulsi dai circuiti della valorizzazione, delle specie vegetali pioniere capaci di predisporre un ambiente perché ne giungano altre, delle giungle urbane che tra gli interstizi di territori socialmente normati proliferano di forme di vita in transito, vivere tra le rovine è un paradigma che va ben oltre le aree desolate dalla guerra o dalle catastrofi. Lo si può leggere come capacità di adattamento o mera sopravvivenza, ma c’è chi ci ha insegnato a guardare alla vita tra le rovine come a quell’occasione da afferrare per fare posto alla vita degli altri, a quel processo incessante di metamorfosi con il quale si esprime la vita su questo pianeta. Dove quell’abilità umana di creazione di mondanità, anche sul cumulo di macerie dell’umano passaggio, ha modo di ribadire che la vita è in divenire e che la nostra presenza ha da sempre lo statuto provvisorio di un mondo, infine! [1]

 

[1] Ilmondoinfine si fa grazie alla riflessione portata avanti, con le loro ricerche, da: Emanuele Coccia, Stefania Consigliere, Gilles Clément, Ernesto De Martino, Philippe Descola, Silvia Federici, Donna Haraway, Bruno Latour, Jason Moore, Isabelle Stengers, Anna Lowenhaupt Tsing, Paolo Virno.

 

 

Lì fuori, nel mondo

di Francesco Raparelli

 

«La gente sta fuori»: così si dice della confusione metropolitana, dell’aggressività immotivata, delle reazioni scomposte, delle amicizie un tempo care e poi perdute, d’improvviso. Fuori, da un’altra parte rispetto alla ragione e al buon senso, alle convenzioni e alla gentilezza. Fuori di sé, ovvero da quel confine che fa di una vita un individuo. Varcare il confine significa dunque essere matti, imprevedibili, sciagurati, maleducati o troppo accaldati, appassionati. Ma rimane la domanda: fuori dove? Nel mondo, dispersi tra le cose. Così confusi da non riconoscere più il mio e il tuo: la proprietà privata e l’individuo (che lavora) coincidono. Il mondo, invece, è comune.

Fuori stanno anche i giovani che si drogano o bevono più del dovuto. Chi balla in modo selvaggio, quasi si trattasse di possessione. Non stupisce che la droga dei rave e dei club si chiami ecstasy. «Sta in estasi» è un modo per dire la gioia eccessiva, un’esplosione più forte di chi la prova. Così forte che si viene trascinati nel mondo, tra il battito della musica, i colori, i corpi che danzano. Se c’è un disturbo quando l’effetto va via, è che bisogna tornare a “casa”, nell’interiorità; smetterla di stare fuori di sé. La fugace esperienza del mondo e della sua anima, ovvero la materia inquieta ed eterna che ci fa, rende nostalgici e impacciati: «cosa ci faccio qui?» L’individuo che sono, non è più posseduto, ma torna a essere possessivo, quindi guerrafondaio, spietato, cinico, ecc.

Incuriosisce il Mistico a portata di mano, anzi, di bocca e di stomaco. Basta una pastiglia, legale o illegale, per provare un briciolo di estasi, per stare meglio, per essere meno tristi. A pensarci bene la malinconia è la sofferenza, o la patologia, degli individui; di chi non fa altro che starsene presso di sé. Il disagio della civiltà, appunto. Sempre se siamo convinti che la civiltà coincida col capitalismo e lo Stato. Mettere in dubbio questa coincidenza è il primo gesto di libertà, quello che fa la differenza. Perché? Perché è una mossa, della prassi e del pensiero, che ci getta nel mondo, finalmente. O forse nel mondo già ci stavamo, dal mondo (e non dal paradiso) ci hanno semplicemente cacciato – sia esso terra, strumento, legame. L’individuo è un prodotto storico: per farlo ci sono voluti secoli, recinzioni e torture, internamento e catene.

L’estasi, a pensarci bene, è originaria. Cos’è l’infanzia se non la nostra primaria mondanità? L’infante sta fuori di sé, nel senso che èil suo fuori: dal nutrimento ai sorrisi, dai sorrisi al lamento, dal lamento alla lallazione, dalla lallazione alla lingua, al gioco. Il suo è un luogo di transito affettivo: il mondo. Che è comune, ma che da subito si fa suo, ovvero lo fa. Nell’estasi profana, quella a portata di pastiglia, un po’ d’infanzia riemerge dagli abissi, dove in troppi l’hanno cacciata. Non stupisce allora che l’ecstasy (lo «stupefacente») faccia a volte fare l’esperienza della fine del mondo, che però coincide col mondo al suo inizio. Esaurire il mondo (e le forze) per ripeterne l’origine.

La domanda da farsi allora è la seguente: per essere felici occorre necessariamente essere addicted? A giudicare dai vizi e dai numeri che descrivono la lost generation di cui anch’io sono parte, parrebbe proprio di sì. I populisti, però, hanno chiarito: i giovani saranno liberati dagli anti-depressivi. La promessa è nitida, tra i mezzi utili spicca la ruspa, che da sempre – si sa – cancella la malinconia, eliminando dalla vista pubblica i malinconici.

C’è un’altra esperienza del mondo e della sua infanzia: si chiama movimento. Il movimento – dei poveri, delle donne, dei migranti e degli studenti, degli artisti – è come un battito cardiaco, si contrae ed esplode. Quando esplode, il movimento conquista le strade e le piazze, occupa la città e i suoi resti. Allora si sente una vibrazione che corre da un corpo all’altro. Contrariamente a quanto affermano le tradizioni, non è nell’isolamento assorto che si incontra l’anima del mondo. È il movimento, la «vile multitude» odiata da Luigi Bonaparte come da Thiers, da Trump come da Bolsonaro, che rivela la materia dinamica e intensa delle cose. Ovvero il mondo come fonte, sorgente della vita di tutto, di tutti e di ciascuno. Dunque è vero che nel mondo ci siamo già da sempre, ma è pure vero che dobbiamo sempre tornarci. Meglio: pur essendo la materia inquieta che ci fa, dobbiamo anche farla. Si tratterà allora, ogni volta, di esaurire il mondo che c’è, di trascinarlo con le lotte fino alla fine, per ripetere la sua origine, infine.

 

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