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Il senso di Capitan Uncino per il capitalismo. Su Il pirata. Antropologia del conflitto

L’ultimo libro di Marco Mazzeo mostra come, nel corso della storia, la figura piratesca ci abbia messo di fronte a contraddizioni e “aut/aut” valoriali, fra rifiuto e incarnazione del sistema economico vigente

Con Il pirata. Antropologia del conflitto (Derive Approdi, Roma, 2021) Marco Mazzeo allunga la spirale della sua fenomenologia dello spirito rovesciata. Non momenti e figure attraverso cui l’autorità dello Zeitgeist si esprime, ma «sintomi» di forme di vita che avrebbero potuto qualificare l’epoca e che, invece, sono state sconfitte, rimosse, risucchiate dal capitale. Bambini, operai, neri, sofisti, migranti: questi i principali motivi dell’ultimo decennio di ricerca militante. Questo il catalogo in cui, ora, inserire il brigante del mare.

Nel libro, l’autore difende una tesi radicale: il pirata è un rivelatore antropologico nella misura in cui «condensa» l’esperienza empirica di Homo sapiens. È radicale perché intende «spezzare alle radici quel che oggi conosciamo» (p. 139). Che cosa sappiamo oggi del pirata? Che è il fuorilegge, l’hacker, il criminale alla guida, il naufrago siriano sulle coste calabresi. Oppure, ruotandolo di 180 gradi, che è il nuovo capitano di ventura del capitalismo contemporaneo (cap. 5). La sua dimestichezza con il rischio e la sfida, con il dire e il fare la cosa giusta al momento giusto non è più finalizzata a mettere in salvo la propria pelle e quella dei compagni, bensì al profitto. O un uomo meno umano degli altri uomini, o la persona di successo che ha qualcosa in più rispetto a tutti gli altri, una sorta di supereroe dell’economia di mercato.

L’aut-aut, secondo Mazzeo, non è solamente riduttivo ma è anche sbagliato. Perché non tiene conto del fatto che il nesso peiratés-empeiria (entrambi i termini derivano dal verbo greco peirao: “io sfido, metto alla prova, tento”) coglie le premesse generali del modo umano di fare esperienza, il «pensiero verbale» (logismós) e la «tecnica» (techne), dalle quali non consegue necessariamente né la figura dello scarto d’uomo, né quella di un uomo super.

Nella sua condotta storica di lunghissimo corso, che va dal mondo antico (dei greci e dei romani) fino alle soglie del capitalismo industriale (XVIII secolo), i cui snodi principali sono indicati con perizia nel testo, il pirata ha esibito il carattere ambiguo, conflittuale e polimorfo dell’esperienza empirica. Un essere anfibio, che vive tra mare e terra, che ruba e mette in salvo, che promette e poi non mantiene, il nemico di tutti i miei nemici e il mio miglior amico. Il suo uso della vita eccede ogni impiego specializzato che la tradizione occidentale ne ha fatto, compresa la completa rimozione tanto del peiratés – neutralizzato nel vecchio lupo di mare in pensione (cap. 3) – quanto dell’empeiria – liquidata nella sensibilità estetico-contemplativa (aisthesis, cap. 1).

Per mostrare l’ambivalenza che connota l’esperienza di capitan uncino, Mazzeo articola il discorso secondo cinque bivi antropologici. Il primo oppone uso e tentazione (cap. 1). La tentazione è l’uso nella forma passiva: è sempre qualcun altro a tentarmi/usarmi, per esempio dio o il denaro (le due cose coincidono); l’uso è il tentativo nella forma attiva: “io tento“, “io metto alla prova“ il mondo, constatandone l’esistenza tramite urti e attriti.

Il secondo è il bivio ordalia/giuramento (cap. 2). Sono due tecniche per far corrispondere il dire e il fare: è vero che chi giura fa qualcosa dicendo, ma è nel paradosso che anima l’atto linguistico il fatto di mantenere/non mantenere la parola data (il pirata è uno spergiuro); nell’ordalia, come camminare sui carboni ardenti o gettarsi in mare per testare la propria veridicità o innocenza, chi si mette alla prova dice quel che fa e fa quel che dice: il responso lo dà l’esperienza (il pirata è uno specialista in sfide ordaliche).

Terza coppia di opposti: corsaro o animale (cap. 3). Corsaro è il pirata addomesticato, il capitano alle dipendenze della nazione, per esempio del sultano ottomano (come Khair ed-Din, il più celebre dei Barbarossa) o del nascente impero coloniale inglese. Sea dog erano detti i corsari della corona, come Francis Drake. Costruito l’impero, dei cani del mare di sua maestà rimarrà solamente il dog, il pirata ridotto a ladro, non più degno di onori e glorie, un animale non umano.

La penultima alternativa è tra storia e romanzo (cap. 4). A partire dal Settecento, la società europea prende a disprezzare il pirata: la sua storia (esperienza empirica) diventa avventura, raccontata nel genere letterario più diffuso, il romanzo (prototipo è il Robinson Crusoe di Daniel Defoe). Secondo Mazzeo, il modello dell’avventuriero prossimo e pure in contrasto con la pratica piratesca, è un altro esempio di addomesticazione del predone marino e di riduzione dell’esperienza a estetica (qui il bersaglio è Agamben). L’obiettivo è di consumare il pirata mediante la lettura/visione di beni culturali tipicamente borghesi (dopo i romanzi, arriveranno i film).

Infine, il bivio esodo/tortura (cap. 5). Si tratta di due istituzioni sovversive e liberatorie: una è tipica dell’antichità e riguarda lo schiavo, l’altra è coniugata al presente e riguarda noialtri lavoratori precari del capitalismo linguistico. Il servo, per ottenere come premio la libertà dal padrone, si sottoponeva alla prova della verità, rischiando la morte.

Oggi, per «realizzare una vita felice (libera, non sottomessa) e lunga» (p. 136), vale la pena di ispirarsi agli istituti pirateschi dell’autogoverno della nave, della produzione, dell’uso e del possesso comune dei beni, del multilinguismo e della multietnicità, della parità di genere: tutte pratiche che si sottraggono allo Stato e al lavoro salariato (qui i soci sono Rediker e Graeber).

I cinque capitoli del libro rappresentano altrettante isole del tesoro dove l’autore approda, prende e lascia sempre qualcosa, perlopiù domande, mai soluzioni affrettate o, peggio, giudizi morali. In questo senso, è lui stesso un pirata che nel viaggio da una terra emersa all’altra ha da cavarsela con testi, tradizioni e lingue differenti (da Euripide, Aristotele e Cicerone fino a Winnicott e Simondon, passando per l’inglese seicentesco), che gli tendono la mano solo per gettarlo in mare oppure da estranei diventano compagni di navigazione. Mazzeo è un bravo capitano, quindi, sa bene che cosa fare e chi/che cosa derubare/trafugare o abbandonare.

Ma il problema che abbiamo, che il volume pone e che, insieme, è da porre al suo autore, è il seguente: come facciamo a declinare alla prima persona plurale il verbo peirao, per passare da “«io sfido, metto alla prova, tento’” a “noi sfidiamo, mettiamo alla prova, tentiamo” il mondo?

In altri termini: come e che cosa inventare di istituzionale per attribuire l’aspetto di una res publica alle premesse generali dell’esperienza empirica di Homo sapiens condensate nella figura del pirata? Come fare per indurre il marinaio con l’occhio bendato a non cedere alla privatizzazione delle condizioni pre-individuali dell’empeiria (ladro o imprenditore) e a optare per il comunismo del pensiero linguistico e della tecnica? Il mondo, tanto meglio hackerarlo insieme.

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