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Il focolaio

Sgomberando il campo da letture semplicistiche e da fantasie negazioniste, “Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale” di Francesca Nava restituisce la complessità della crisi pandemica a Bergamo, e analizza il complesso di responsabilità che l’hanno caratterizzata

Sgomberando il campo da letture semplicistiche e da fantasie negazioniste, “Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale” di Francesca Nava restituisce la complessità della crisi pandemica a Bergamo, e analizza il complesso di responsabilità che l’hanno caratterizzata: da quelle contingenti che riguardano Regione Lombardia e Confindustria, a quelle più strutturali che parlano dell’inadeguatezza del sistema sanitario lombardo e dell’assenza di una medicina territoriale

La pandemia è diventata oggetto di un folto sottobosco di interpretazioni, spesso impressionistiche e suggestive. Del resto, come (quasi) tutti abbiamo appreso, la malattia non colpisce in maniera uniforme, ma a grappoli e a macchia di leopardo, con esiti molto variabili in città diverse, persino su soggetti con profili sanitari affini: ciò ha contribuito a differenziare la percezione della malattia e dell’epidemia, consolidando una pluralità di sforzi interpretativi, maturati tanto in ambienti intellettuali, giornalistici, politici, quanto al bar, tra le persone comuni. In qualche caso, si può ben dire con il senno di poi, la fantasia ha preso il sopravvento, spingendo all’elaborazione di un campo di immaginari di taglio “negazionistico” verso i quali convergono mondi, almeno in apparenza, molto distanti, che vanno vanno dall’estrema destra ad alcuni individui legati culturalmente alla galassia antagonista e libertaria, mettendo d’accordo sulla non rilevanza del virus – o sul presunto uso politico dello stesso per ragioni di controllo sociale, o di dominio vaccinale – una famiglia di soggetti davvero ampia, da Donald Trump a Giorgio Agamben, da Jair Bolsonaro a Enrico Montesano.

Accanto alle libere speculazioni della mente, troviamo poi una famiglia di interpretazioni – spesso non meno reazionarie delle prime – che, senza mettere in discussione l’effettiva presenza di una pandemia globale, spostano l’attenzione dal complesso intreccio di fattori strutturali, economici, demografici e politici dei territori più colpiti, per radicalizzare invece la rilevanza di un singolo fattore scatenante, esaltandone l’impatto e cercando di offrire un ritratto della realtà verosimile e intuitivo, di agile spendibilità mediatica. Quando Bergamo e la Valle Seriana finirono al centro dell’attenzione nazionale come epicentro europeo del contagio, la necessità di trovare una spiegazione all’insistenza del virus su quel territorio alimentò una serie di letture del secondo tipo, tra le quali ebbe grande popolarità quella insistentemente evocata da Andrea Scanzi in televisione, nei giorni più funesti della storia bergamasca post-bellica: la partita Atalanta-Valencia del 19 febbraio 2020, come una bomba virale, avrebbe scatenato il contagio in Bergamasca, poiché mise gli uni a fianco agli altri decine di migliaia di cittadini orobici, tra stadio e metropolitana di Milano, tutti impegnati a passarsi sigarette e bottiglie di birra, tra una pacca sulle spalle e un coro ultras.

 

In tal senso, il grande merito del recente libro inchiesta di Francesca Nava (Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Laterza, Roma-Bari, 2020, pp. 241) è proprio quello di smarcarsi dalle letture semplici, per rimettere in fila i diversi tasselli di una vicenda drammaticamente articolata. L’autrice restituisce il quadro dell’accaduto in tutta la sua complessità, sgombera il campo dalle letture fantasiose e dalle semplificazioni alla Scanzi, magari seducenti, ma nefaste.

 

Perché, per esempio, come Nava mette in evidenzia nel primo capitolo, il 23 febbraio la dirigenza sanitaria lombarda si rese conto la situazione della bassa Valle Seriana – lungo l’asse Alzano-Nembro-Albino – era fuori controllo già da diversi giorni: e allora, inevitabilmente, puntando il dito su una partita giocata il 19 febbraio, si confonde il quadro e non si indaga ciò che ha provocato per davvero la catastrofe.

 

Nembro, uno dei luoghi in cui pare essersi sviluppato il primo focolaio (foto: commons.wikimedia.org)

 

L’inchiesta di Nava affronta in otto capitoli tutte le questioni imprescindibili per comprendere la strage compiuta dalla Covid-19 nella provincia di Bergamo e, contemporaneamente, si interroga sulle responsabilità di una vicenda la cui gestione presenta tratti opachi, all’origine delle procedure giudiziarie già avviate. Sono quattro i principali nodi problematici che l’autrice indaga: la questione dell’ospedale di Alzano Lombardo e le scelte compiute nei giorni a cavallo del 23 febbraio; la struttura del sistema sanitario regionale lombardo; la mancata decisione di istituire una zona rossa su Alzano Lombardo e Nembro; le scelte del governo circa la tipologia delle chiusure e le misure di contenimento stabilite a partire dal 7 marzo.

In merito alla prima: il 23 febbraio, dopo avere ottenuto il primo referto positivo su un paziente entrato in pronto soccorso quella stessa mattina, il direttore medico dell’ospedale di Alzano Lombardo, il dottor Giuseppe Marzulli, decide di chiudere il pronto soccorso e di bloccarne le attività. Un altro caso accertato è ricoverato nel reparto di chirurgia: è passato dal pronto soccorso e ha subito un primo ricovero della durata di due settimane tra il 5 e il 19 febbraio. Dopo poche ore l’ospedale viene riaperto, nonostante la contrarietà del direttore medico che ha ricordato a Nava: «Mi sono opposto in tutti i modi alla riapertura del Pronto soccorso, ho detto proprio: datelo voi l’ordine, io non lo do» (p. 30). Quindi: chi ha preso la decisione? Scrive Nava, dopo una dettagliata ricostruzione della “catena di comando” dell’ospedale: «Oggi sembrano non esserci dubbi sul fatto che le responsabilità siano da attribuire alla Regione Lombardia. L’ordine di riaprire tutto ad Alzano viene dato dal direttore generale dell’assessorato regionale al Welfare, Luigi Cajazzo, un ex-dirigente della squadra mobile di Lecco, braccio destro di Gallera» (p. 38).

 

L’obiettivo dei responsabili era contenere il panico tra la popolazione ed evitare di introdurre un precedente complicato da gestire in occasione della comparsa di altri pazienti Covid in altri ospedali della regione? Comunque sia, oggetto di indagine sono oggi le condizioni di sicurezza – tanto per il personale sanitario, quanto per i pazienti – a cui avvenne la riapertura dell’ospedale, dal momento che le dichiarazioni divergono al riguardo.

 

Al di là delle decisioni contingenti, però, la ricostruzione di Nava evidenzia come la struttura del sistema sanitario lombardo fosse inadeguata ad affrontare una pandemia. Tredici medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno scritto nei giorni più duri: «I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care [approccio per cui le decisioni cliniche dipendono da bisogni e valori dei pazienti]. Ma un’epidemia chiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care. Stiamo dolorosamente imparando che abbiamo bisogno di esperti di salute pubblica e di pandemie. A livello nazionale, regionale e di ogni singolo ospedale ancora non ci si è resi conto della necessità di coinvolgere nei processi decisionali chi abbia le competenze appropriate per contenere i comportamenti epidemiologicamente pericolosi. Per esempio, stiamo imparando che gli ospedali possono essere principali veicoli di trasmissione del Covid, poiché si riempiono rapidamente di malati infetti che contagiano pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza […]. Questo disastro poteva essere evitato soltanto con un massiccio dispiegamento di servizi alla comunità sul territorio» (pp. 148-149).

Là dove, invece, il sistema sanitario lombardo ha assunto negli anni della presidenza Formigoni una struttura nella quale si è accompagnata la parificazione tra privato e pubblico (progressivamente depauperato), a una drastica riduzione della medicina di base e dei presidi medici territoriali. La riforma Maroni ha confermato questo approccio, creando le condizioni per cui, a fronte della pandemia, non si disponeva di una rete di medici di base attrezzati per reggere l’impatto, con l’effetto di convogliare tutti i pazienti negli ospedali pubblici. Del resto, il deleterio approccio leghista alla medicina di base, veniva esplicitamente rivendicato da Giancarlo Giorgetti al Meeting di Comunione e liberazione il 26 agosto 2019, in una risposta diretta a Roberto Speranza: “Ma chi va più dal medico di base? Senza offesa per i medici di base anche qui presenti in sala. Nel mio piccolo paese vanno ovviamente per fare le ricette mediche, ma quelli che hanno meno di cinquant’anni vanno su internet, si fanno fare le autoprescrizioni su internet, cercano lo specialista”.

 

(foto: commons.wikimedia.org)

 

A proposito della mancata zona rossa su Nembro e Alzano Lombardo, invece, Nava riordina le mancate assunzioni di responsabilità delle amministrazioni e del governo centrale rispetto a una decisione che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche su un territorio ad altissima concentrazione industriale. Quando la gravità situazione s’era già delineata, a livello locale e regionale si decise di non procedere a blocchi, pure avendone le competenze, in attesa dell’intervento del governo. Fu un effetto politico collaterale del Covid: rendere gli autonomisti della Lega un partito centralista. Là dove però, pure il governo, preferì non prendere una decisione definitiva fino al 7 marzo, rimodulando peraltro le chiusure a tutela delle attività produttive. Appare a questo punto l’ombra di Confindustria e degli industriali locali su cui Nava si interroga:

 

ci furono pressioni dirette per impedire la zona rossa a Nembro e Alzano a tutela dell’attività economica di alcuni industriali? E se ci furono, di che genere e in quale misura? Emerge allora quella contraddizione tra salute ed economia da cui discendono, secondo l’autrice, le opacità e le scelte del governo nei primi giorni di marzo, quando si appesantì il dibattito sulle categorie di imprese da mantenere attive.

 

E così si giunge al cuore della riflessione di Nava, che ne costituisce insieme anche il nodo più problematico e controverso, dal momento che l’economia non riguarda solo la vita del capitale nazionale o internazionale, ma anche quella dei lavoratori. Certamente gli industriali della Valle Seriana – e di molte altre regioni – non volevano le chiusure, preferendo che si corressero rischi sanitari: starà alla magistratura stabilire in che modo agirono in concreto. Tuttavia, anche tra i lavoratori della stessa Valle Seriana erano diffusi i dubbi sull’opportunità di un blocco che, in assenza di misure e di sussidi statali importanti, agitava lo spettro della crisi, della disoccupazione e del disastro sociale. Certo è che, come ribadisce Nava a più riprese, la vita delle persone e la salute pubblica devono essere i beni da tutelare prima dei circuiti economici. Insieme, però, occorre ricordare che l’economia non è un affare di Confindustria e che i “negazionisti” usano e useranno nei prossimi mesi la crisi economica prodotta dalle chiusure per fomentare odio popolare contro chi ha avuto cura della salute popolare. Non basta chiudere, insomma: occorre essere all’altezza della gestione economica delle chiusure. La questione è cruciale e questo è un libro prezioso per rifletterci, soprattutto mentre la curva dei contagi si impenna nuovamente e si paventa l’incubo di dover scrivere tra qualche mese di nuovi epicentri e nuove catastrofi.

 

Foto di copertina Bergamo da ©Roberto Giussani – red zone chronicles