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Il cerchio e la saetta

“Il cerchio e la saetta. Storie dai centri sociali romani” di Fabrizio C., uscito da poco per Fandango, si configura come un esercizio di memoria collettiva che si oppone tanto alla storiografia ufficiale quanto alla retorica della nostalgia. Non si tratta di una “storia dei centri sociali” ma di un archivio orale e plurale, in cui le voci che si rincorrono nel testo sono il filo conduttore

Il titolo ci catapulta in un immaginario e in un linguaggio che ha costituito parte dell’educazione politica e sentimentale di molte. Il cerchio come metafora della chiusura istituzionale e dei confini delle metropoli e la saetta della rottura, dell’imprevisto, dell’apertura del possibile, della “liberazione” di uno spazio. Per me poi leggere questo libro è stato un po’ come riaprire pagina dopo pagina un vaso di Pandora, di vissuti, sentimenti, scelte come quando si apre un album di foto che ogni volta ci racconta storie differenti a seconda del momento e della prospettiva da cui lo guardiamo.

Interviste, ricordi, dialoghi, riflessioni, compongono in questo libro un tessuto polifonico che rifugge la linearità cronologica. Sembra piuttosto un montaggio audio volutamente disomogeneo – con salti temporali e geografici – ma che riesce a restituire la fotografia appunto di un movimento attraversato da fratture, differenze interne, conflitti di orientamento, eppure incubatore per decenni di cultura, di politica, di immaginario. I centri sociali non sono e non sono mai stati un blocco unitario, ma un campo di tensioni, un circuito elettrico, in cui coesistono diverse visioni di politica, cultura, forme di vita e rapporto con le istituzioni e con la città. Nelle differenze, però in alcuni momenti catalizzatori è prevalsa, ed è evidente nel testo, l’appartenenza a una città alternativa, talvolta sotterranea ma pronta a venire alla luce – quasi sempre facendo “rumore” e a contaminare e formare generazioni.

In questo libro Fabrizio ricostruisce alcuni snodi fondamentali della vicenda romana: le prime occupazioni della metà degli anni ’80, i conflitti con le formazioni neofasciste, la produzione culturale alternativa (soprattutto musicale), fino al nodo cruciale del rapporto con il Comune (esemplificato allora dalla Delibera 26).

Le testimonianze raccolte restituiscono non soltanto l’“umano” del movimento (dubbi, contraddizioni, fallimenti), ma anche la politicità di processi che hanno trasformato spazi urbani abbandonati in laboratori di socialità antagonista, in quelle che io, non sono certa che Fabrizio sarebbe d’accordo con me, chiamerei istituzioni del comune. I quartieri citati – da San Lorenzo a Torre Maura – non sono scenari neutri, bensì luoghi in cui la lotta per lo spazio urbano si intreccia con processi di gentrificazione, sgomberi, politiche di riqualificazione.

Il cerchio e la saetta è un testo diverso da un precedente tentativo di “mappatura” e di racconto, che fino ad ora era stato IL (sicuramente il mio) punto di riferimento sui centri sociali, Centri Sociali, Cartografie di un desiderio. È diverso proprio perché parte dalle vite in carne ed ossa di molte compagne e compagni di quegli anni lasciando analisi e elaborazioni alle loro voci. In questo senso mai periodo per leggerlo è più propizio che questo inizio di “anno politico”, dallo sgombero del Leoncavallo e la sorprendente risposta di piazza agli scioperi, ai blocchi agiti con coraggio e determinazione da una marea inedita di queste settimane per la Flotilla e contro il genocidio in Palestina, nei quali molte e molti ci siamo rincontrati, faccia a faccia. C’eravamo proprio tutt e il perché è raccontato anche in queste pagine.

Tra gli elementi più interessanti che ho trovato seppur poco approfondito vi sono alcune parole nel racconto di Maria che costituiscono una suggestione che apre a una riflessione profonda sulla forte presenza femminile nei centri sociali di allora — una presenza che non era mera “presenza numerica”, ma agente politico e fattore trasformativo nei linguaggi, nelle pratiche, nelle relazioni interne che precedeva, come in termini di consapevolezza collettiva il movimento transfemminista Non una di meno.

Nel tessuto e nelle sottotracce delle memorie raccolte e nei ricordi soggettivi di tanti momenti differenti che hanno dato vita in particolare alla storia della Torre emergono effettivamente figure femminili che hanno assunto ruoli centrali nelle attività culturali, nella gestione quotidiana dello spazio, nella mediazione delle conflittualità interne, nella produzione di comunicazione autogestita. Questa soggettività femminile non proveniva né dal femminismo istituzionale né dai movimenti delle donne di quegli anni. A titolo esemplificativo e sicuramente non sufficiente ricordo l’esperienza delle compagne del “22” in via dei Volsci. Alla Torre si è costruita giorno dopo giorno una “immanenza femminista” che ha vissuto dentro le pratiche della collettività, nei corpi, nelle relazioni politiche quotidiane con le istituzioni e con gli altri spazi occupati e autogestiti romani. Non agivamo cioè come portavoce di un “movimento femminista” ma come soggetti incarnati e costitutivi del centro sociale dandogli una forma tutto sommato nuova per allora, seppure mai separata.

Dal punto di vista teorico, questa presenza femminile ha anticipato a mio avviso alcune tendenze del femminismo “intersezionale” — sottolineando come le pratiche di genere si incrocino con lo spazio urbano, con il conflitto politico, con le pratiche culturali. Una delle sfide è allora, forse, non relegare questo aspetto a nota laterale, ma integrarlo come dimensione strutturale nell’analisi del fenomeno dei centri sociali, soprattutto se intesa in senso genealogico.

In ultimo mi sembra importante evidenziare quanto questo lavoro di Fabrizio ci mostri la necessità di scrivere e riscrivere, una storia di quegli anni ’90 che hanno completamente trasformato il nostro paese, e di narrare con voci multiple e complesse le storie dei centri sociali, di prima, di seconda e di terza generazione, delle occupazioni abitative, dei collettivi e dei movimenti studenteschi, che dopo i lunghi anni ’80 hanno riaperto lo spazio del conflitto dello stivale.

La copertina è un’elaborazione da una foto di Tano D’Amico, pubblicata su il manifesto del 25 luglio 1995, che testimonia uno dei momenti di resistenza a Villa Farinacci, la prima sede del csoa La Torre

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