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CULT

If I can’t dance, it’s not my revolution

Cile, Catalogna, Libano, Haiti, ma anche Iraq, Indonesia, Ecuador: luoghi più o meno lontani dall’Europa che nelle ultime settimane sono stati attraversati da movimenti e conflitti sociali. In tutte queste piazze c’è stata una presenza musicale significativa che spesso non si è limitata fare da colonna sonora, ma che ha riempito questi movimenti di significati inediti. Quali sono i suoni che stanno accompagnando le piazze di questo autunno? E che cosa ci dicono di questi movimenti?

Dalla Marsigliese dei rivoluzionari francesi alle canzoni di protesta degli anni ‘60, la musica ha sempre accompagnato movimenti di massa e rivolte, non solo facendo da colonna sonora, ma arrivando spesso a rappresentarle e riempirle di significati inediti.

In queste settimane il pianeta è scosso da un’ondata di sollevazioni e proteste come non se ne vedevano da anni: Cile, Haiti, Catalogna, Ecuador, Libano, Iraq, Indonesia, ma la lista potrebbe continuare; movimenti con origini, obiettivi e modalità diversissime, ma accomunati da un certo livello di conflittualità e da un baricentro non europeo.

Nell’epoca in cui si ascolta più musica che in qualsiasi altro momento della storia, ma in cui alcune potenzialità del mezzo musicale sono state quasi anestetizzate dal leviatano del mercato e del ciclo bulimico di produzione/fruizione, può essere interessante vedere quando e come la musica si manifesta più visibilmente nelle piazze e nei cortei dei cinque continenti, cercando di individuare i suoni dei movimenti che stanno caratterizzando il 2019.

 

FFF e la Catalogna in Europa

In Spagna, cori di migliaia di manifestanti catalani intonano l’inno ufficiale catalano, Els Segadors; una canzone del XIX secolo di matrice romantico-nazionalista e inno che quasi stride con la composizione antagonista che lo intona nei momenti di confronto più diretto con la polizia, a ricordarci ancora una volta la difficoltà di leggere il movimento indipendentista con le categorie politiche classiche.

 

 

Intanto ancora risuona l’eco delle enormi marce del Climate Strike del 27 settembre. Un movimento pacifico e dotato di una diffusione trasversale che tocca anche il gotha della cultura occidentale, il che peraltro ci dice molto sulle sue potenzialità ma anche sui potenziali pericoli che corre. La colonna sonora di Fridays Forma Future è quindi quella dei tanti artisti che si sono schierati a favore dei giovani stikers o di Greta Thunberg, da Billie Eilish ai 1975, passando per il remix di Right here, right now con il discorso di Greta all’ONU, suonato anche dallo stesso Fatboy Slim ai suoi show. Senza dimenticare le tante produzioni musicali più o meno amatoriali e legate ai nodi nazionali o locali di FFF che traboccano su YouTube.

Intanto però, nelle piazze italiane del 27 settembre i camioncini passavano 90 Min di Salmo, Soldi di Mahmood e anche le hit trap più sfacciate, protagoniste passive di una specie di sovversione e risignificazione (quanto consapevole?) in chiave rivendicativa della loro retorica di strada. Un piccolo esempio tratto dal contesto locale di come, da questa nuova generazione di manifestazioni e manifestanti, possiamo imparare qualcosa anche sul  rapporto dei più giovani con i significati della musica pop contemporanea, ammesso che riusciamo a smettere i panni dei vecchi censori.

 

Libano

Più a est dei relativamente pacifici fronti occidentali, in Libano per circa due settimane migliaia di manifestanti hanno riempito le strade protestando contro l’aumento delle tasse e la crisi economica, ottenendo le dimissioni del premier Saad Hariri. In forte contrasto con l’immagine castigata che spesso abbiamo del Medio Oriente, le recenti proteste sono state rappresentate su Internet da episodi di un entusiasmo quasi stravagante: un matrimonio celebrato nel mezzo di un corteo, o una folla di manifestanti che cerca di tranquillizzare un bambino cantando la canzone Baby Shark, diventata grazie alla diffusione virale del video una sorta di simbolo della protesta ed eseguita in coro anche sotto i palazzi del potere. In pieno accordo con l’ottima fama della night life di Beirut, invece, hanno fatto il giro del web i video di alcuni rave improvvisati dai manifestanti, che hanno scaricato la tensione ballando musica elettronica nel bel mezzo delle proteste.

 

 

 

L’inno delle proteste di Hong Kong

Ancora più a oriente, Hong Kong è in subbuglio da ormai quattro mesi; una mobilitazione nata contro la legge sull’estradizione, ma che riguarda in generale lo status quo dei rapporti fra Hong Kong e Cina e ha obbligato i manifestanti a sperimentare livelli di efficienza inediti per contrastare le tattiche repressive delle forze dell’ordine. In piena linea con questo spirito di organizzazione, le proteste di Hong Kong hanno un loro inno ufficiale composto per l’occasione, Glory to Hong Kong, con tanto di video ufficiale in cui viene eseguito da un’orchestra mascherata con caschi e passamontagna, e che per molti è ormai è il vero inno della città.

Anche parecchi artisti della scena locale hanno sentito l’impulso a scrivere e rilasciare brani ispirati agli ultimi mesi di subbuglio politico, dai rapper LMF a metal bands come Cadaver e CharmCharmChu.

 

 

La musica popolare e le rivolte in Papua Occidentale e Haiti

Intanto in Papua Occidentale la popolazione locale si è di nuovo sollevata contro la decennale occupazione indonesiana; non si tratta della prima volta che i papuani chiedono l’indipendenza dall’Indonesia e la fine della separazione dalla Papua Nuova Guinea, e purtroppo i morti delle ultime settimane sono solo gli ultimi di una lunga serie di vittime dell’esercito indonesiano. La copertura mediatica delle recenti mobilitazioni è peraltro incredibilmente bassa, anche a causa di un blocco di Internet imposto dal governo indonesiano. Quello che è certo è che dai tempi dei Mambesak di Arnold Ap e dai Black Brother fino alla evocativa Sorong Samari, la musica ha sempre aiutato i papuani a elaborare i traumi e le violenze dell’occupazione, come il massacro di Biak del 1998. Ancora di più, è grazie alla musica se la questione papuana è riuscita in parte a bucare il muro della censura indonesiana, diffondendo l’identità culturale della regione e il suo desiderio di indipendenza. La nuova ondata di proteste ha tratto energia proprio da una consapevolezza sempre più diffusa nell’area oceanica, Indonesia compresa, dell’ingiustizia dell’occupazione.

 

 

C’è un’altra isola in fermento da mesi ed è una delle culle della storia rivoluzionaria mondiale, Haiti. La musica popolare haitiana ha una dimensione processionale strettamente legata alle celebrazioni religiose e alla spiritualità vudù: già le cronache della rivoluzione del 1791 parlano di armate di schiavi ribelli e stregoni in marcia al suono di strumenti a fiato tamburi, che avevano avuto un ruolo fondamentale anche nella comunicazione fra le varie comunità durante la prigionia nelle piantagioni. Naturale quindi che anche le recenti proteste contro il governo Moïse si manifestino in cortei accompagnati da danze, canti e dal suono delle marching band di rara, genere strettamente legato alla celebrazione della storica rivoluzione.

 

Inti-Illimani e Victor Jara in Cile

Il Sud America ha un ruolo particolare in questa carrellata di suoni e agitazioni; per la sua particolare storia politica, stretta fra grandi movimenti popolari, autoritarismo e ingerenze esterne durate ben oltre l’epoca coloniale, ma anche per una cultura musicale ricchissima, frutto dell’incrocio fra le tradizioni pre-colombiane, la musica delle potenze coloniali e le sonorità provenienti dall’Africa insieme alla tratta degli schiavi.

 

 

In questo quadro risalta particolarmente la questione cilena. Da più di un mese il Cile è teatro di una mobilitazione titanica che aspira a farla finita con l’eredità della dittatura e con la disuguaglianza economica. Un movimento importante per tutti se non altro a livello simbolico, in quello che è stato il laboratorio politico del neoliberismo autoritario dopo il golpe di Pinochet.  La musica cilena ha una storia particolare anche all’interno del vivace contesto sudamericano, quella della Nueva Canción Chilena:  il movimento artistico inaugurato da Violeta Barra e figli, ma rappresentato soprattutto da Inti-Illimani, Victor Jara e Quilapayún, era una creatura mutante che univa il recupero dell’eredità Inca e della cultura andina pre-colombiana con l’impegno politico. Una sensibilità militante identitaria e post-coloniale, strettamente legata alle speranze e alle rivendicazioni del movimento Unidad Popular, alla figura di Salvador Allende e inevitabilmente alla tragica fine di quell’esperienza. Gli Inti-Ilimani, forse il gruppo più rappresentativo di quel periodo, dopo il golpe del 1973 si rifugiano in Italia portando la voce del Cile nel mondo e ottenendo un grande successo che, alla lunga, li condanna a una reputazione ingloriosa. Osteggiata dalla controcultura degli anni ‘70, la formazione diventa presto sinonimo di gruppo noioso da festa dell’Unità, viene assimilata alla musica andina da strada con flauto di pan e suoni plasticosi, poi al massimo rimane materiale buono per qualche remix cumbia.

 

 

L’inno immortale che li incatena a questa immagine è El pueblo unido jamás será vencido, portata al successo da loro ma in realtà composta pochi mesi prima del golpe Pinochet dai Quilapayún e da Sergio Ortega Alvarado, musicista e ambasciatore culturale del governo di Unidad Popular. Una marcia amatissima, inflazionata come ogni inno, di cui però la potenza è riesplosa grazie a un video in cui viene eseguita da un’orchestra davanti all’Iglesia de Los Sacramentos, durante la monumentale marcia da oltre un milione di partecipanti che ha riempito Santiago de Chile il 25 ottobre. La solennità dell’esecuzione e lo sfondo della basilica restituiscono in qualche modo il realismo magico della musica degli Inti-Illimani, dove la spiritualità mistica Inca e le sacrali melodie andine diventavano veicolo di rivendicazioni politiche, sociali, anti imperialiste.

La Nueva Canción Chilena e la dittatura richiamano però alla mente soprattutto la memoria di un altro artista. Subito dopo il golpe, Victor Jara è fra le migliaia di persone internate nel campo di concentramento dell’Estadio Nacional de Chile, dove viene torturato e infine ucciso. La vendita dei suoi dischi sarà proibita dal regime e le matrici delle registrazioni distrutte in un tentativo di damnatio memoriae. Sulla sua efficacia dice molto il fatto che, quarantasei anni dopo, El Derecho a vivir en paz di Jara sia il simbolo più forte della mobilitazione cilena. In un altro video virale, un’orchestra di strumenti a corda suona il brano accompagnata da un coro imponente di manifestanti; un momento corale ed emozionato, ma anche un grido contro la brutale repressione applicata nelle ultime settimane dalle forze dell’ordine cilene, tristemente evocata dal brano e dalla storia di Victor.

 

 

Anche gli ascolti del brano su Spotify sono cresciuti vertiginosamente, mentre la canzone classica è stata affiancata da una nuova versione, con un testo aggiornato e interpretata da circa 30 musicisti pop, rock e rap cileni.

A proposito di nuove produzioni, già da qualche settimana circolava su YouTube #CACEROLAZO della rapper franco/cilena Ana Tijoux, un invito alle dimissioni rivolto a Piñera sulla base di un cacerolazo, forma di protesta con pentole, padelle e cucchiai tipica dei paesi ispanici. La Tijoux scrive da sempre testi politicizzati, ma la rapidità di questa produzione ad hoc ricorda da vicino le canzoni scritte dal reggaetonero Bad Bunny contro il governatore Rosselló, durante le proteste a Puerto Rico di quest’estate.

 

 

Ci sono alcune considerazioni che si possono trarre dal ruolo simbolico ri-assunto da El derecho a vivir en paz ed El pueblo unido.

La prima riguarda una certa “retromania”, per dirla con Reynolds, perché le canzoni simbolo del Cile del 2019 hanno quasi 50 anni. C’è però una spiegazione: la marea scesa in piazza in queste settimane sente di avere un conto in sospeso con il pinochetismo, con la sua eredità economica e militare, ed è giusto che lo si chiuda anche al suono delle canzoni che hanno rappresentato quella fase storica. La seconda riguarda la misura che episodi del genera danno del livello di organizzazione dei manifestanti cileni, in grado di produrre momenti artistici e partecipati nel mezzo di una campagna repressiva durissima e violenta. La terza è in realtà applicabile a tutte gli scenari che abbiamo passato in rassegna e a tanti altri: nell’epoca di internet e dei social, video come quelli delle orchestre di piazza cilene, della Nubian Queen sudanese o dei carri armati kurdi in marcia con Down Rodeo dei Rage Against The Machine, raccontano qualcosa in più della colonna sonora di un momento di agitazione e non agiscono solo sul morale dei partecipanti, ma sono finestre da cui migliaia o milioni di persone si possono affacciare su un momento storico. Nel flusso caotico e inarrestabile della comunicazione globale, è facile farsi scorrere addosso eventi epocali; la diffusione virale di contenuti musicali o di immagini simboliche si assume spesso il gravoso compito di richiamare e mantenere l’attenzione mediatica, contemporaneamente aiutando a comprendere e veicolare meglio il senso, la provenienza e la direzione di un movimento.