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Idles. Riscrivere le regole della musica politica

Negli ultimi due anni gli Idles si sono imposti come uno dei gruppi rock più promettenti del momento. Soprattutto grazie a una sensibilità politica genuina e attuale, un’attitudine inclusiva ed empowering che anima tanto i loro album quanto i loro concerti e che è una novità assoluta in questi anni di crisi del rock e della vecchia musica “impegnata”

In un’ipotetica lista dei tour più interessanti del biennio 2018/19, un posto speciale lo meriterebbe sicuramente quello degli Idles; se non altro per l’aura di curiosità naturalmente evocata da un gruppo che, nel giro di pochi mesi, è stato catapultato da platee di poche centinaia di persone ai palchi più importanti d’Europa e ai vertici delle classifiche. Senza lanci monumentali e operazioni da major discografica (escono per l’indipendente Partisan Records di L.A.), semplicemente un album, Joy As An Act Of Resistance, che ha allargato a macchia d’olio la fanbase già costruita col precedente Brutalism. Un passaparola di critica e pubblico che degli Idles decantava, sì, le qualità musicali. Ma che, soprattutto, li riconosceva come una risposta possibile, o almeno credibile e appetibile anche per un certa fetta di pubblico mainstream, alla crisi di identità che da anni affligge il rock e la sua capacità di osservare la realtà attraverso la lente della coscienza politica. Al punto che c’è chi ne ha parlato come di un gruppo in grado di riconciliare con con il rock o con il punk, insomma con le chitarre, anche chi se ne era allontanato da anni.

Sullo stato di salute del rock la dice lunga la fame di messia in grado di salvare “la musica con le chitarre”, e la scarsa voglia di interrogarsi su quale possa realmente essere il senso di un genere musicale che a lungo ha svolto nell’immaginario comune il ruolo di veicolo per istanze anti-sistemiche, ora che ne è totalmente deprivato e che quelle istanze, in forme sublimate, sono raccolte da altri linguaggi sonori; per fortuna, un panorama musicale sempre più diversificato e rappresentativo continua, direttamente o indirettamente, a raccontare la società e i suoi cambiamenti e a farlo con modalità inedite e attraverso linguaggi (relativamente) più giovani, rap in testa. Lo fa però riflettendo a pieno la scarsa consapevolezza politica di questi anni confusi, in maniera puntiforme, a volte contraddittoria e non organica; una sensibilità politica più “militante”, quella della musica “di protesta” che nonostante le mille contraddizioni ha insegnato tanto alle generazioni precedenti, latita: annichilita dall’invecchiamento di parole d’ordine e simboli, dalla difficoltà di veicolare un messaggio evitando la pedanteria, ma anche dall’oggettiva difficoltà di leggere e interpretare politicamente il presente. Condizione comune a ogni forma d’arte, ma che oggi risulta particolarmente tragica per rock e derivati. Se quel cosmo risulta diviso fra un underground variabilmente politicizzato in pratiche e/o contenuti, ma sempre più debole, e un mainstream istituzionalizzato e musealizzato, da dove al massimo si alza qualche facile tirata contro “i cattivi” della politica o un ribellismo di facciata, forse significa solo che quel mosaico di voci semplicemente non è più in grado di raccontare il presente e la sua complessità politica come ha fatto in passato. Persa questa funzione, rimane comunque il suono e tutto il resto, ma diventa facile chiedersi se, al di là della nostalgia, quella musica non abbia fatto il suo tempo. A scomparire però non sarebbe solo un’estetica musicale, ma un patrimonio di pratiche, rituali, conoscenze, codici sonori e visivi che a quel linguaggio sono legati e che per molti hanno ancora un significato, raccontano una visione del mondo. Forse vale allora la pena chiedersi se sia possibile immaginare una modalità in cui rock, punk e derivati possano trovare parole nuove per questo nuovo tempo, fare per quanto possibile sponda alle voci di chi lotta, magari anche fuori dai circuiti underground dove un certo tipo di sensibilità politica sembra essere, e con difficoltà, confinata.

Cercando nella produzione degli ultimi anni una risposta, o ancora meglio esempi concreti, Joy As An Act Of Resistance e Brutalism sono fra i pochi che vengono alla mente. Se non altro, perché il cantante/autore Joe Talbot e compagni sembrano aver filtrato nei loro testi la lezione dei movimenti sociali degli ultimi anni, in primis quella della quarta ondata femminista: intersezionalità, come chiave di lettura di un sistema dalle mille facce, come spunto per una resistenza collettiva e individuale che sappia essere realmente inclusiva. La coscienza dei vissuti e delle caratteristiche personali, del mosaico di profili di oppressione che ognuno di noi subisce quotidianamente sulla propria pelle, la loro valorizzazione contro il patriarcato eteronormativo, nazionalismi e razzismi, austerity; in un grido di rabbia e che però ha anche tanto dell’esaltazione gioiosa delle individualità di migranti, donne, lavoratori e lavoratrici, queer, di tutti coloro che subiscono sul corpo e nella mente le conseguenza di un sistema gerarchico e ingiusto. Forse è questa la strada migliore, oggi, per parlare di politica in un album e superare slogan e categorie ormai usurate. Sì, gli Idles sono cinque ragazzi inglesi bianchi e middle class, proprio l’identikit di quelli che “hanno già parlato abbastanza”. Anche per questo è tanto sorprendente che siano riusciti a dare voce a una moltitudine eterogenea di fan che dalle loro canzoni si sentono rappresentati e capiti, e a farlo in un momento di crisi totale: politica, sociale, di certe sonorità. Soprattutto, a farlo ottenendo una risonanza inaspettata che ha dato loro la possibilità di arrivare a molte orecchie, oltre che su palchi come quello del Glastonbury. Un vero banco di prova, perché in questo tipo di musica l’album è la base teorica, ma la prassi è nella dimensione del live: è lì che va testata la capacità di costruire significato intorno alla musica, in quei concerti dal vivo che spesso, da rituale collettivo, quando i numeri non sono più quelli del piccolo club si trasformano in un rapporto passivo di ascolto-adorazione.

E sono in effetti proprio i live dei cinque di Bristol a essersi fatti la fama di dare vita a momenti di condivisione emotiva, di entusiasmo gioioso e liberatorio, quasi di rivalsa collettiva. E continuano a conservarla anche ora che le loro platee sono cresciute.

Dal punto di vista musicale, un concerto degli Idles rispecchia fedelmente la loro idea di post-punk, dove la musica gioca con l’attitudine indie per travestirsi di melodie catchy, senza smussare mai la potenza di fuoco di una ritmica martellante e delle distorsioni abrasive. È soprattutto un concerto estremamente fisico, sotto e sopra il palco. Joe Talbot è un frontman carismatico, nervoso e irruento come il cantato con cui sputa fuori i versi in accento cockney, un po’ à la Sleaford Mods. Da lontano potrebbe sembrare il classico stereotipo del cantante muscolare e un po’ macho. Ma basta ascoltare le sue parole per vedere quella figura implodere sotto il peso emotivo di canzoni che parlano di depressione (1049 Gotho), della mascolinità tossica come una maschera imposta che, più che essere indossata, “ci indossa” (la bellissima Samaritans), che gridano l’importanza di vivere e comunicare i propri sentimenti. Se la mascolinità tossica è il motivo per cui «you never see your father cry» (sempre Samaritans), bisogna alzare il volume per spazzarla via e dirsi anche a un concerto quanto è importante riuscire a non reprimersi, a comunicare, ad allungare una mano quando lo spettro del disagio infesta noi o chi ci è vicino.

Nell’attitudine degli Idles c’è molta wholesomeness, parola che inizia a diffondersi attraverso i meme anche nella socialsfera italiana e di cui la traduzione letterale “salubrità” non rende affatto i significati relativi all’accettazione e alla fiducia di sé e degli altri, in un capovolgimento della cultura “cattivista” che da internet sembra quasi essere strabordata nel mondo reale.

Forse l’esempio migliore dell’approccio politico-emozionale della band è Danny Nedelko: una canzone sui migranti scritta nel Regno Unito sotto l’ombra della Brexit (lo spettro di molti dei testi di Talbot), dove il migrante compare come qualcosa di diverso dal povero africano da salvare. Una persona, una persona vera (Danny Nedelko, frontman degli Heavy Lungs) fatta di «carne, di ossa, di te, di me», in un inno alla «unity», a costruire comunità più che a salvare, accogliere e «tollerare». Ad abbattere muri e costruire strade, contro l’effetto domino di paura, panico, dolore, rabbia e odio che apre il ritornello, semi citazione del Maestro Yoda che calza perfettamente anche alla nostra Galassia. Il pezzo è una gemma pop con un ritornello contagioso, ma è il bridge, quando il chitarrista Mark Bowen dirige il coro di spelling, navigando sulle braccia del pubblico, come se la comunità si potesse iniziare a costruire qui e ora, nella condivisione della voce e del ritmo:

«D-A-N-N-Y-N-E-D-E-L-K-O-C-O-M-M-U-N-I-T-Y-S-O-F-U-C-K-Y-O-

«Fuck you, perché guai a scambiare positività e sentimenti per debolezza: nel racconto degli Idles sono i cosiddetti buonisti, gli snowflakes, a «diventare valanga», a dichiararsi feccia («I’m scum») per un sistema e una narrazione che considera l’inclusività e la giustizia sociale una battaglia da moralisti e marionette del “pensiero unico”. Un’attitudine antagonista, che però non lascia spazio al bullismo; perché essere scum qui vuol dire essere queer, pretendere una sanità pubblica e universale (Divide&Conquer, Mother), vuol dire gridare all’unità, ma anche non piegarsi al racconto che ci vorrebbe vittime passive di un’onda reazionaria che arriva per seppellire tutto quello per cui si lottato e si deve ancora lottare. «Ridere in faccia ai tiranni» e «cantare in faccia ai fascisti» (I’m scum), mandare a fanculo la televisione e gridare tutti insieme «love yourself» (Television).  Amore per se stessi, per le proprie vulnerabilità, per gli altri: #allislove è l’hashtag ufficiale degli Idles e della gigantesca community Facebook creata dai loro fan, la AF Gang, uno spazio dove ci si confronta sulla musica della band ma soprattutto sulle storie individuali dei fan, sulle loro debolezze, difficoltà, sulla forza taumaturgica ed empowering che le canzoni possono avere.

L’idea è che anche lo spazio e il tempo del concerto possano diventare un safe space per tutti: il palcoscenico come la platea, dove è possibile buttare tutto fuori e cantare, abbracciarsi, ridere e piangere, dove il pogo (ri)diventa occasione di espressione personale e fisica nel rispetto degli altri. In questa cornice di senso assumono una dimensione diversa anche i tradizionali riti di rottura della quarta parete tra palcoscenico e parterre, quella, forse, di una ricerca di orizzontalità inusuale per concerti di questa dimensione: gli Idles spesso lasciano gli strumenti a cinque controparti scelte fra il pubblico e orgogliosamente incapaci di suonare, o un microfono aperto a fine concerto per una canzone a cappella, e tutto sembra più genuino e realmente partecipato della canonica ospitata del fan virtuoso della chitarra (meglio se bambino) o dell’ammissione del fan (meglio se donna) all’incontro ravvicinato con la superstar. Allo stesso tempo, gli stage diving dei chitarristi sono estremi eppure così poco vistosi. Semplicemente, a un certo punto sono in mezzo alla platea che suonano.

Ecco, fare politica a un concerto punk in fondo significa questo, viverlo nella maniera più orizzontale possibile, passare messaggi dal palco ma cercando di dare voce alle soggettività di tutti e non solo alla propria, mettere in gioco un’idea senza troppe pose da music biz. Farlo davanti a migliaia di persone vuol dire demolire il carrozzone classico del rock show e ripartire da lì, dal basso, come in un centro sociale o nel piccolo club locale.

Non è facile, anzi, ma se c’è qualcuno che ci sta riuscendo in questo momento, questi sono gli Idles.