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EUROPA

I turisti e i sommersi

Città sconclusionata e dura, Marsiglia si divide in due: da un lato bianca, borghese e francese, dall’altro sporca, proletaria – o sottoproletaria – e meticcia. Se qualcuno si salva dal destino, lo si deve alla militanza dei compagni e delle compagne che costruiscono insieme modi alternativi di vivere lo spazio urbano

«J’ai vu la peur de l’opprimé, le malheur sans fin
Les meilleurs partent en premier, les plus malins s’en vont»
Keny Arkana, De l’Opéra à la Plaine 3

 

Lungo le stradine ripide e strette che dal Porto Vecchio salgono su al centro della città, bettole còrse dai pavimenti appiccicosi, cabaret tunisini, dancing curdi sporgono sedie e tavolini come delle dogane che controllano i passaggi nel quartiere. I clienti, viaggiatori fuori tempo massimo arrivati da quattro continenti, si sforzano di parlare la lingua straniera dell’impero per riuscire a ordinare da bere.

Marsiglia, nella sua contraddizione di città colonizzata e seconda città di una potenza mondiale, si presta facilmente all’esotizzazione dello sguardo nordeuropeo, la sua disorganizzazione disorienta e il suo disordine stordisce, mescola suoni e colori, odori e accenti stranieri.

È una città sconclusionata e dura, ma calorosa perché fatta per lo più di solitudini e, si sa, ci si avvicina agli altri se ci si sente soli e perduti, non quando ci si basta a se stessi. È principalmente per questo che la maggior parte delle persone che ho incontrato e con cui ho discusso in questi anni ha sempre ammesso che Marsiglia è una città stressante e difficile, dove non ci sono le condizioni per costruire un futuro sereno.

Sono in molti a partire fra quelli che possono permetterselo, come le coppie spaventate dalla prospettiva di crescere un figlio qui, chi vuole far carriera e arricchirsi, o chi sente il bisogno di un rapporto più armonico con la natura in una città soffocata dal cemento. Lo stato attuale della città è frutto delle scelte politiche che dal dopoguerra in poi hanno sempre assecondato gli interessi di una parte, o meglio di una delle almeno due città che vivono qui insieme ma separate da una linea di frontiera.

 

Da una parte una Marsiglia bianca, borghese, francese, e dall’altra una Marsiglia sporca, proletaria – o sottoproletaria –, meticcia.

 

Per quelli che vivono la prima, spesso con la famiglia ancora a Parigi, a Lione, o nei Quartieri Sud dove il Front National si contende l’egemonia con la destra repubblicana, il centro di Marsiglia è un luogo di passaggio, un ghetto dove non esiste alcuna prospettiva.

Invece di interrogarsi sui propri preconcetti, intrattengono un rapporto esclusivamente consumatorio con la città, qualcuno investe in un bistrot dallo stile parigino o in un hotel a cinque stelle, a ogni modo tutti ripartono in fretta.

Il futuro di questa città in crisi, al centro di una costante negoziazione identitaria fra chi la vorrebbe hub turistico e chi pretende di modernizzarla a marce forzate rendendola un centro multiculturale “euromediterraneo”, sembra essere ancora una volta alla mercé di potenti attori esterni e di una debole e corrotta borghesia locale.

 

Dall’altra parte della frontiera si trova la parte della città che invece non partirà mai perché non può farlo.

 

Si riconosce facilmente perché i suoi abitanti ripetono continuamente quanto l’amano questa città, ed è vero, di un amore esclusivo e viscerale, che a volte può far pensare a una malattia, chiuso com’è a quel che c’è fuori dai suoi confini.

A Marsiglia, come altrove, l’identità si costruisce contro quel che c’è all’esterno, non perché quel che è fuori non sia apprezzato, ma perché qui quel che è fuori ha sempre mostrato un solo volto, quello della violenza, della colonizzazione, del disprezzo.

Questa Marsiglia, maggioritaria, vive in maniera dignitosa e fiera una disperazione che sembra perenne e astorica. Marsiglia non è Napoli o Barcellona, dove si può rimpiangere un passato glorioso, qui il potere non c’è mai stato, la capitale in Francia è sempre stata una ed è l’acerrima nemica, perché di quel che succede sulle coste meridionali non ha mai capito niente.

 

Foto dell’utente Flickr Fred

 

In città basta citarla per vedere reazioni di disgusto teatrali e grottesche, a cui il tifo calcistico degli ultimi decenni ha aggiunto solamente un pizzico di folclore, ma che sono radicate in secoli di abusi subiti. E bisogna dire che nemmeno il governo giacobino capì la città focese – che si schierò contro il Comitato di Salute Pubblica – e i marsigliesi dovettero fare una Comune (anticipando quella di Parigi) per poter affermare la volontà di autodeterminarsi e di un’autonomia politica e culturale del Midi.

 

Nell’ultimo anno, andando a lavoro in una scuola media fra Belsunce e la Belle de Mai, nell’arrondissement più povero di Francia, ho spesso incrociato una parte di questa Marsiglia.

 

Lavoratori dei cantieri e della logistica, riconosco qualche padre dei miei alunni; mi capita di vedere i loro sguardi spenti durante le pause pranzo o sulla metro al ritorno la sera, i pantaloni da lavoro e le scarpe anti-infortunio, gli abiti consumati e sporchi.

Molti di loro sono arrivati perché qui esistono condizioni migliori dei posti da cui sono fuggiti: il sistema della previdenza sociale e l’assistenza statale francesi sono ancora fra i migliori al mondo, il costo della vita è più basso che in molte altre grandi città occidentali, e il clientelarismo, se ti integri e ti pieghi alle sue leggi, garantisce quasi sempre un salario.

Questi dispositivi, assicurando appena la mera riproduzione sociale, non soddisfano le attese di un miglioramento delle condizioni di vita, così che all’entusiasmo dell’arrivo subentra la frustrazione della ripetizione quotidiana. La necessità di portare a casa un salario che mantiene tutta la famiglia non permette slanci di immaginazione, nemmeno per una vita altrove, lascia solo alienazione.

 

Tanti lavoratori fumano hashish non per immaginare una vita diversa, ma per dimenticare e per non sentire il mal di schiena, e perché la coca costa troppo.

 

Esercitano un controllo autoritario sullo spazio domestico, almeno quando sono in casa, cosicché le famiglie restano patriarcali, tradizionaliste e possessive. Il conflitto generazionale, soprattutto quando si tratta della prima e della seconda generazione di immigrazione, lacera i rapporti fino all’insopportabilità, ma senza una reale alternativa alla dipendenza economica per i figli e all’autoritarismo su cui si basa la reputazione sociale dei padri.

Ho sentito molte storie familiari che si somigliano, con i padri che rimuovono la migrazione e diventano violenti, i figli e le figlie che parlano sempre meno, e le madri che sopportano per amore e per non dare scandalo. Spesso gli adulti tirano avanti nel nome di quel che sono stati da un’altra parte, in un’altra vita, al bled che diventa un paradiso perduto, da cui si è fuggiti ma dove si sono anche lasciati i ricordi migliori.

Quando cercano di ricostruire quel passato mitizzato qui a Marsiglia, socializzano tramite legami etnici o nazionalistici, che però servono solo a giustificare rapporti di potere già consolidati e incanalati facilmente nella competizione e nella violenza fra comunità.

 

Foto di Michele Marchioro

 

Sono i giovani a pagare il prezzo più alto, anche se molti al bled nemmeno ci sono mai stati; molti adolescenti, non avendo che la strada come alternativa alla scuola (la rue, come rivendicano orgogliosamente), diventano pedine del racket, dello spaccio o della prostituzione. Quelli, soprattutto maschi, affascinati dalla disciplina e alla ricerca di un esempio e di una guida, sognano di entrare nelle forze armate, finendo quasi sempre a lavorare sottopagati nella forma esternalizzata della sicurezza privata.

 

Esistono ovviamente delle resistenze tessute faticosamente da militanti e abitanti dei quartieri, come il Collettivo 5 novembre, El Manba, o il Collettivo 59 St Just, solo per citare qualche nome.

 

Queste esperienze subiscono però un isolamento tipico dei contesti post-coloniali, dove è estremamente difficile costruire un’organizzazione e un coordinamento (un partito potremmo dire) a causa della specificità degli obbiettivi di ogni singola lotta.

La convergenza manca anche perché gli spazi di contestazione sono già occupati dallo stato (che finanzia associazioni di quartiere, che fanno della solidarietà un lavoro salariato, affinché gestiscano la miseria prodotta dalle sue politiche) e da altri attori sociali come le famiglie allargate, i clan, le scuole e le cariche religiose, i capetti della criminalità organizzata.

Tutti vogliono che i giovani restino alle loro condizioni, mentre partire significa per loro rifiutare il mondo in cui sono cresciuti e soprattutto esserne rifiutati per sempre. Se perfino il carcere è accettato e anzi può essere considerato un rito di passaggio, non c’è reintegrazione possibile per chi parte a ricostruirsi la vita altrove.

Se è difficile agire in queste contraddizioni, esistono però realtà che attraverso un lavoro politico cercano di stare in equilibrio sulla frontiera, utilizzando gli interstizi, le crepe di questi due mondi, così invasivi e chiusi su se stessi, per costruire spazi di parola e di azione alternativi; provando a rimediare all’incomunicabilità con la solidarietà e utilizzando l’inchiesta sociale per trovare parole migliori per dire quel che è sbagliato, per razionalizzare il dolore.

Forse da chi, quotidianamente, nel suo piccolo, fabbrica gli strumenti culturali e pratici per contrastare le ideologie dominanti coloniali e oscurantiste, si può apprendere come non affondare, ma anche quanto costa caro amare un’umanità ferita.

 

E, se in questa storia esiliata e periferica ci sono dei salvati, lo si deve alla militanza dei compagni e delle compagne che costruiscono insieme modi alternativi di vivere la città.

 

I loro volti, le loro voci che in queste settimane si rincorrono alte e coraggiose per le strade durante le manifestazioni contro la loi sécurité globale sono il riscatto di una città altrimenti perduta. E anche i loro sguardi svuotati e sgomenti nell’affrontare momenti difficili, come di fronte alle macerie della rue d’Aubagne, o alla repressione poliziesca delle reti di solidarietà durante il lockdown.

Le espressioni di attonita meraviglia che gli ho visto quando la folla gridò spontaneamente Gaudin Assassin sotto l’Hotel de Ville, o quando circondò il commissariato per gridare che il processo per Adama era stato deviato dalla giustizia coloniale di una Repubblica coloniale.

I sorrisi tirati ma sinceri, alle sette del mattino, di fronte al posto di lavoro, passandosi il termos del caffè e i volantini, spiegando perché scioperare era giusto e necessario a chi diceva che non serviva a niente. D’altronde qualcuno l’aveva già scritto che in una città come Marsiglia, anche per perdere bisogna sapersi battere.

 

Foto di copertina di Michele Marchioro