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CULT

Halloween, un dolcetto non vi salverà

Licantropi, Streghe, Zombie, Vampiri, Frankenstein: mostri dell’immaginario nati per esorcizzare le paure delle classi dominanti. Come la storia della festa di Halloween intreccia quella del capitalismo

Sentirsi disfunzionali rispetto al mondo in cui viviamo è ormai cosa comune, quasi motivo di orgoglio tra i più. Le ragioni possono essere diverse, molte delle quali connesse alle aspettative del nostro intorno. Studio, lavoro, famiglia e relazioni spesso esercitano una pressione non indifferente verso le nostre vite. Le pretese di una società sempre più asfissiante ci intrappolano in una sorta di sfiancante prestazione continua che affetta ogni aspetto della nostra esistenza. Causa ed effetto di questa condizione è l’esistenza di una classe sempre meno ampia di proprietari di immaginario, di denaro e di potere che tenta di imporci morale ed etica. Quando poi ci rifiutiamo di assecondare tutto questo veniamo messi al palo e giudicati, derisi, a volte isolati o alla peggio repressi. Allora, almeno per una notte ci sentiamo più liberi nei panni di un mostro che nei nostri. Questa strana sensazione di libertà potrebbe però avere radici più materiali della sola tetra magia di Halloween. Qui di seguito ricostruiamo le origini di alcuni dei mostri che sono soliti abitare questa notte. Nel caso leggendo vi doveste trovare in empatia con uno di loro, non fatevi prendere dal panico. È solo storia.

 

È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.
(William Shakespeare)

 

IL LUPO MANNARO

La figura metaforma di un essere che si trasforma da uomo a lupo a dire il vero è comune a moltissime epoche e a culture lontane e diversissime. Nel fondamentale saggio Vampiri e Lupi Mannari di Erberto Petoia si spiega che il lupo ha sempre richiamato al lato umano naturale e non addomesticabile. Tra le diverse trasformazioni dell’umano in una bestia, la Licantropia arriva specificatamente dalle steppe asiatiche. Il lupo per diverse culture indoeuropee rimandava al nomadismo e alla caccia, in conflitto con la territorialità stanziale e l’allevamento. Il lupo è quindi un simbolo ambivalente: amato per gli stessi pregi che hanno fatto del suo discendente, il cane, l’animale domestico per eccellenza; invocato lungo i secoli dagli sciamani come guida sul terreno di caccia, ammirato per la forza e l’astuzia, per l’organizzazione in branco, addomesticato per diventare un alleato, ma poi cacciato per impedirgli di predare le greggi e infine addirittura demonizzato durante il Medioevo.

Nell’immaginario gotico i branchi di lupi delle leggende dell’Europa centrale rimandavano alle orde barbariche, o meglio ai popoli delle cosiddette “seconde invasioni barbariche”. Nell’Alto Medioevo, infatti, alla fine dell’effimero impero Carolingio i vichinghi razziavano monasteri e chiese, i saraceni facevano lo stesso nel Mediterraneo e l’arrivo dei “branchi di lupi affamati” (gli slavi e gli ungari dalle steppe asiatiche) travolse i fragili confini orientali del Sacro Romano Impero generando caos e paura. Il destino di questi popoli, purtroppo, come spiegano Deleuze e Guattari, fu quello di riterritorializzarsi, cioè di smettere di essere nomadi e di fondare altri Stati o regni. Secondo Deleuze e Guattari, il nomade che più è riuscito a rimanere nomade e barbaro e che ha costruito il più vasto impero che il mondo abbia mai conosciuto, è Gengis Kahn, che non a caso si faceva chiamare “Grande Lupo”.

In questa polarizzazione tra istinto, nomadismo, naturalità dell’umano e spiritualità, società, stanzialità si inseriscono le tante leggende sui licantropi che popolavano le diverse culture europee. In particolare il Werewolf è, secondo la tradizione tedesca e anglosassone, un essere umano non più umano, la cui trasformazione è legata alla luna, alla natura oscura e cupa. La radice della parola è Wer (come Vir in latino “uomo”) e Wolf o Wulf (lupo). E i Werewolf, che sono ciò che più richiama gli Uomini Lupi come li conosciamo noi attraverso cinema e letteratura, ci dicono Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, discendono direttamente da demoni della cultura vichinga e norrena.

Questi demoni erano esseri umani banditi dalle proprie comunità, dediti al saccheggio perché mossi fondamentalmente da dipendenza da alcol (la preziosa birra). Nell’Europa Centrale la paura dei Licantropi produsse tra il 1300 e il 1600, stando alle cifre più ottimistiche, qualcosa come 20.000 processi e condanne a morte sul rogo. Chiunque fosse asociale o dipendente da alcol veniva processato per Licantropia e condannato a morte. Questi processi sommari furono la stragrande maggioranza dei processi e delle esecuzioni sui roghi per tutta la fine del Medioevo e anticiparono la grande caccia alle streghe. E del resto tra il il XVI e il XVII secolo i licantropi, spesso evidentemente sciamani vestiti con la pelle di un lupo, accompagnavano le streghe ai sabba.

Al tramonto del Medioevo questa ossessione per la minaccia ai Bürger (cittadini) dei villaggi del Centro e Nord Europa animava una cupa cappa e una cultura del sospetto che poi esploderà dopo la Riforma luterana. Ma come riconoscere il Mannaro quando non c’era la luna piena? In Francia ci si iniziò a guardare da chi aveva sopracciglia troppo folte o unite al centro, oppure il volto ferino, o i canini troppo affilati o pelo sia sul dorso che sul palmo delle mani. In Inghilterra poteva essere fatale avere il dito indice più lungo del medio, così come avere un insano appetito per la carne cruda. Nei feudi germanici si sospettava di era troppo in forze senza che lo si vedesse mai mangiare. Questo clima produsse rotture, odi, rancori nelle comunità tardo medioevali; il terreno sociale era stato arato per i secoli violenti successivi, quelli che dall’accumulazione originaria di cui parlava Marx portarono all’avvento della borghesia.

A conferma ulteriore della sovrapposizione tra il mito del Licantropo e le resistenze antisociali, al disagio psichico e alle dipendenze da alcol al processo di incastellamento e inurbamento feudale, vale la pena richiamare una definizione “scientifica” del Licantropo risalente al XVI secolo.

La licantropia, dal 1500, divenne non più un fenomeno demoniaco ma un disturbo psichiatrico con una sua sintomatologia; il primo disturbo psichiatrico giacché la psichiatria sarebbe arrivata da lì a tre secoli. La malattia si presentava quando, sotto l’influsso degli elementi naturali, in particolare della luna, il “folle” cessava di essere umano e “impazziva” in preda a raptus ferini. Non più una figura demoniaca ma un essere umano affetto da un male incurabile, una resistenza del «mondo passato, naturale, nomade» alla morale della civile convivenza.

Come non pensare a Foucault quando descrive il paesaggio dell’Europa Medioevale, o meglio la sua periferia, il contado, come una rappresentazione di Bosch in cui si muovono gli esclusi, i malati, figure animalesche e grottesche, i folli, licantropi poi risolti non più come pericolo sociale ma come anomalia dopo il Rinascimento. Il Licantropo, concludendo, il primo archetipo che ha abitato gli incubi del Vecchio Continente nel passaggio alla modernità era la scelta irrazionale, la libertà, la follia, la natura selvaggia, l’asocialità poi confinata a fatto individuale, disturbo dell’anima e malattia.

Infine, quando i Licantropi erano ormai protagonisti di fiabe infantili e non terrorizzavano le società europee, nel Secolo dei Lumi, avvenne la codifica medica che fece coincidere la Licantropia con l’ipocondria. Ancora oggi, in una grottesca continuità, in psichiatria, esiste la Licantropia. Per la “Scienza” contemporanea, sorta anche nell’evolversi e nel secolarizzarsi di antiche paure e superstizioni, la Licantropia è un disturbo psichico rarissimo ma con sintomi del tutto simili alle leggende di quasi cinque secoli fa.

 

 

LE STREGHE

Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle.
(Voltaire)

Non esiste però nel Vecchio Continente agli albori della modernità vicenda più sanguinosa di quella che ha visto il trionfo della Scienza, della Ragione, della Razionalità (e del patriarcato) sulle streghe. Le vittime, secondo la ricerca di Marina Montesano, furono almeno 100.000. Anche nel caso della caccia alla strega, come per il mito dell’Uomo Lupo, sebbene la violenza di genere fosse questione antica di millenni, la furia psicotica con cui si praticò la guerra contro le donne europee dal XVI secolo almeno fino al 1750 non ha precedenti storici per vastità e profondità. Contrariamente a quello che siamo soliti pensare, i roghi delle streghe non furono un fenomeno proprio del Medioevo. C’erano allora processi ma erano in numero inferiore a quelli per eresia e ai già citati per licantropia. E chi ebbe maggiori responsabilità nello stragismo di genere non furono le autorità cattoliche. Il vero e proprio femminicidio di massa fu un fenomeno diffuso nel mondo protestante, nel centro e nord Europa, e divampò dagli inizi del 1500.

Come spiega benissimo la sociologa marxista Silvia Federici, nel suo Calibano e la Strega – Donne, corpo e accumulazione originaria, il ruolo previsto per la donna nella nascente società capitalistica era esclusivamente quello di svolgere tutta l’attività domestica, il lavoro riproduttivo, di rendere disponibile alla borghesia la forza lavoro maschile. Questa funzione implicava un radicale stravolgimento rispetto alla relazione tra generi medioevale. Il ruolo delle figure femminili, infatti, nelle società feudali era molto simile a quello degli uomini. Le donne svolgevano quasi tutti i lavori che facevano gli uomini (nel Medioevo erano pochissime le corporazioni esclusivamente maschili) e avevano anche dei ruoli molto importanti nella vita dei villaggi e delle comunità fino al Rinascimento.

Erano spesso esclusivamente donne le curatrici, le levatrici, le ostetriche; inoltre le donne conoscevano l’erboristeria e le arti mediche tradizionali (Whittle, 2010). Erano loro, in estrema sintesi, depositarie dell’arte secolare della cura; ruolo che aveva resistito alla caduta di imperi, governi e alle incursioni dei barbari. Ma già dal tardo Medioevo a questo sapere, prettamente femminile, si andò contrapponendo la figura del “medico”, spesso errante, specializzato, si fa per dire, quasi sempre nella cura di malattie epidemiche (come la Peste). Uomini, formati spesso in modo coerente con la dottrina religiosa cristiana o, in un secondo momento, tra le appena nate ed elitarie Accademie e Università.

Questa polarizzazione tra saperi e generi traeva solidità filosofica da un passaggio importantissimo che superava il dibattito medioevale (lo scontro tra il Corpo e lo Spirito). La razionalità scientifica, la nuova Scienza, e con essa la nuova arte medica, su cui doveva fondarsi un nuovo ordine economico e sociale si lanciava in un’ulteriore astrazione, dallo Spirito alla Mente.

Per controllare i rivoltosi ordini religiosi germanici, Papa Innocenzo VIII nel 1487, pochi decenni prima della Riforma di Lutero, utilizzò la giovane tecnologia della stampa a caratteri mobili per l’edizione e la distribuzione del Malleus Maleficarum (Il martello delle malefiche), una sadica guida alla caccia a streghe e stregoni. Dette poi mandato ai due autori, i domenicani Kramer e Sprenger, di utilizzare il testo per condurre una guerra santa contro questo nuovo e oscuro male, la stregoneria femminile, che affliggeva particolarmente le comunità a Nord delle Alpi già segnate dalla lotta alla Licantropia.

Il tentativo politico fu in sé velleitario ma ormai erano gettate le basi per la guerra vera e propria, che iniziò all’indomani dell’affissione delle 95 Tesi di Lutero sul portale della chiesa del castello di Wittemberg nel 1517. Nel mondo protestante, emancipato da Roma, le condanne per stregoneria non venivano più comminate dalle autorità religiose, come prima per eretici e licantropi, ma da quelle civili, sebbene usando testi come quello citato scritti da religiosi fanatici e misogini. In qualche modo potremmo dire che su questa novità di poter disporre della morte, della tortura, della conduzione di processi morali arbitrari nacquero e acquisirono potere le istituzioni politiche protestanti del Centro e Nord Europa.

Nel prezioso libro di Mona Chollet Streghe: storie di donne indomabili dai roghi medioevali al Me too, si documenta quell’ondata di misoginia sociale e omicida indagandone le ragioni materiali, ulteriori agli studi di Silvia Federici. Se infatti la studiosa marxista italiana si sofferma sul cambio di paradigma produttivo tra società feudale e capitalismo, la cosiddetta accumulazione originaria, e le sue implicazioni, la giovane giornalista francese approfondisce i nessi tra questo modello di produzione e la Scienza, la Medicina, la Razionalità fino all’eredità lasciate nel presente.

Il testo inquadra il passaggio di fase storico come la «fine della sottocultura femminile vivace e solidale del Medioevo». Questo passaggio, esattamente come un “martello” si abbatté sull’intera femminilità, non solo sulle donne uccise, ma anche su quelle suicidate, linciate, morte di tortura o in prigione, abbandonate, bandite come anche su tutte le altre che furono piegate in un severo regime di terrore lungo secoli. A causa di questo terrore sistemico il rifugiarsi nel privato domestico, nella sottomissione e nell’ubbidienza fu una scelta di sopravvivenza per le donne durante il XVII secolo.

Secondo la Chollet quattro furono principalmente i colpi inferti alle donne dal martello inquisitore durante la caccia alle streghe. Prima di tutto ci fu quello inferto a tutte le velleità di indipendenza femminile. Tra le accusate di stregoneria la maggioranza erano nubili o vedove. Dopo un secolo o poco più di caccia alle streghe, le corporazioni divennero esclusivamente maschili, la vita di una donna sola era inevitabilmente segnata dalla marginalità sociale e dalla povertà (l’immagine della “gattara” rimanda a quella dell’anziana povera con il gatto, il famiglio della strega). La citata frase dell’“illuminato” Voltaire andrebbe quindi letta come il compimento di un processo violento, non con la sua negazione esattamente come per la medicalizzazione della licantropia. Infatti quando finalmente i roghi diventarono episodici in Europa, al trionfo della ragione giacobina, nel 1804, ci pensò il codice civile napoleonico a privare le donne sposate di qualunque riconoscimento sociale decretandone la totale dipendenza da una figura maschile.

Per tre secoli si piegò, ed è il secondo attacco, metà della popolazione europea a una funzione di semplice riproduzione biologica. La possibilità di non avere figli non era prevista socialmente e anzi le streghe, un tempo levatrici e ostetriche, erano coloro che uccidevano i bambini durante il parto, perché senza cuore e maligne. Per questo in Francia nel 1556 si promulgò una legge che imponeva alle donne incinte di comunicare la propria gravidanza all’autorità pubblica e ad avere testimoni durante il parto. I testimoni, ovviamente, furono i medici maschi. Sono le prime forme di controllo normativo del corpo femminile e dell’attività riproduttiva.

Un altro segno lasciato dalla caccia alla streghe nel nostro immaginario è la condanna dell’immagine della donna anziana. Sebbene fossero bruciate senza problema anche bambine di otto anni, gran parte delle condannate erano donne anziane, considerate ripugnanti per il loro aspetto fisico e pericolose per la loro esperienza di vita. Per capirne le ragioni conviene ritornare a Silvia Federici. Nei decenni dell’accumulazione originaria, cioè di quell’espropriazione di proprietà che preparò la strada al capitalismo moderno, la privatizzazione, la recinzione, l’appropriazione della borghesia dei terreni un tempo comuni (pensiamo alle enclosures inglesi) penalizzò moltissimo le donne.

Gli uomini infatti accedevano sempre più facilmente al lavoro retribuito mentre le donne dipendevano dai terreni di pascolo e raccolta, esattamente quelli privatizzati. Ciò rese molte donne anziane “indecorose” accattone. Queste, ormai inservibili per gli scopi riproduttivi, povere, più disinibite nell’eloquio a causa dell’esperienza, venivano immediatamente bollate come streghe. Ancora oggi viviamo il paradosso che malgrado l’accrescimento della consapevolezza sessuale procedano con l’età, per molte donne, per l’industria dei consumi e per i canoni sociali occidentali l’invecchiamento femminile è una catastrofe, una pre-morte.

Infine l’ultimo colpo che la caccia alle streghe diede alle donne fu quello, cui abbiamo accennato precedentemente, di affermare una medicina gerarchica verso il malato, fredda, razionale, non empatica. I roghi permisero agli ufficiali medici maschili di liberare il campo dalle guaritrici (mediamente più esperte). La medicina moderna nei fatti è proprio eredità maschile diretta della caccia alle streghe. E su questo basti pensare alla scienza ginecologica in cui gran parte degli organi di sesso femminili hanno nomi maschili o al parto che avviene in funzione del medico e non della donna, o pensiamo anche alla psicoanalisi e al concetto di isteria e così via.

Iconograficamente, simbolicamente, possiamo in definitiva riassumere dicendo che la strega, con il suo cappello a punta, la sua scopa volante e il pentolone è ciò che rimane di una guerra, l’immagine di un nemico tra le rovine lasciate dalla battaglia. Quella che l’emergente borghesia protestante, capitalista e proprietaria lanciò contro le donne brandendo manuali di inquisizione, strumenti di tortura, sapere accademico e razionalità moderna.

 

 

GLI ZOMBIE

Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra.
(George Romero – Zombie)

 

Oltreoceano e in contemporanea alla caccia alle streghe, la scoperta del Nuovo Mondo dette una dimensione globale al capitalismo, ai suoi genocidi, ai massacri e allo schiavismo. Proprio tra gli schiavi dei Caraibi troviamo i primi riferimenti a un altro archetipo mostruoso dalla recente molto fortunata carriera cinematografica: lo Zombie. Lo Zombie è un corpo, spesso in disfacimento, tornato dalla morte perché vittima di una maledizione (questo secondo la tradizione originale caraibica). Come la strega per il patriarcato e la licantropia per la società, lo zombie è il contrappasso onirico del colonialismo e dello schiavismo.

Diventare zombie era il terrore che, ad Haiti nel XVII secolo, provavano tutti gli schiavi di origine africana che praticavano l’antica religione degli Horuba, il voodoo. Terrore che sedimentò nella popolazione dell’isola diventando strumento di controllo anche dopo il tradimento della rivoluzione francese contro i Giacobini Neri a inizio XIX secolo e persino durante le dittature degli anni ’70 del ‘900. Lo zombie, nel voodoo, è lo schiavo la cui anima è di proprietà di un padrone.

Lo Zombie è un morto vivente che riproduce i gesti di una vita precedente (come nel film di George Romero Zombie del 1978, con i non morti che assediano un centro commerciale quasi come in un moderno Black Friday). In particolare, e almeno fino al ‘900, il padrone che ha rubato l’anima allo schiavo spesso è uno stregone, un negromante, mai un bianco; è una figura simile allo house nigger, come zio Tom, dello schiavismo statunitense, un Kapò, un conoscitore della cultura africana utile a ridurre in schiavitù un proprio simile per per non lavorare, per non essere schiavo, per compiacere il padrone.

Nella filmografia hollywoodiana del secondo ‘900 veniamo a sapere che nel processo di decomposizione del corpo di uno zombie l’unica parte del cervello che non si deteriora è l’archeo-cervello, cioè l’area degli istinti e delle pulsioni meccaniche. Lo schiavo, lo zombie, il lavoratore alienato della produzione non mangia per nutrirsi, per fame, né per piacere, risponde semplicemente all’istinto di nutrirsi che è anche uno dei pochi stimoli che la sua condizione gli permette. I film di George Romero (1940 – 2017) lungo oltre quarant’anni hanno ripreso la figura dello Zombie per criticare esplicitamente la fase “neoliberale” del capitalismo e in questo hanno attinto totalmente all’immaginario antischiavista della tradizione voodoo (invece che dalla maledizione, l’”apocalisse zombie” è solitamente causata da un virus che si trasmette rapidamente). Ma il terrore e il ribrezzo che i film suscitarono nel pubblico bianco, consumista, americano non corrisponde alla paura che per secoli, e ancora oggi, aleggia tra i dannati della terra, ad Haiti. Nell’isola più povera dei Caraibi, tra i discendenti degli schiavi, non fa paura lo zombie, lento, prevedibile, umano non più umano, ma la sua condizione, ciò che spaventa cioè è ancora il rischio di poter diventare uno zombie, di tornare schiavi. Fu con questo terrore per esempio, fino alla metà degli anni ’80, la famiglia Duvalier potè portare avanti un decennale regime sanguinario. Dittatori come stregoni capaci di trasformare gli haitiani di nuovo in schiavi, in zombies.

 

 

I VAMPIRI

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.
(Primo Levi)

Nel XIX secolo tra Germania e Inghilterra il lungo e doloroso processo di trasformazione della società verso l’ordine capitalista e borghese era pressoché compiuto. In quel periodo anche la produzione degli incubi divenne privata e borghese. I mostri partoriti nel XIX secolo, quelli che completano il pantheon classico di Halloween, non furono più frutto di superstizioni, né di saperi antichi, né di leggi e scomuniche religiose. Furono ideati nei circoli letterari, tra artisti, avanguardie del moderno pensiero della borghesia, spesso con una fascinazione per l’occulto e la demonologia. Il primo caso è quello del Vampiro. Questo, letterariamente parlando, viene disegnato, per come lo conosciamo, tra la pubblicazione del racconto di Lord Byron The Vampire nel 1819 e il successo del Dracula di Bram Stoker del 1897.

Prima caratteristica fondamentale, quindi, del Vampiro in generale, e del Conte Dracula in particolare, è che, per come lo conosciamo, è interamente inventata in ambito letterario: questo ne fa «il primo mostro compiutamente moderno» (Nick Groom, Vampiri). Moltissime leggende, credenze, fenomeni, prodromi fornirono ai letterati romantici inglesi del XIX secolo gli ingredienti per “creare” un mito la cui sagoma agli albori del cinema fu quella del Nosferatu di Murnau del 1922 (poi riscritto da Herzog nel 1979). Questi “ingredienti” hanno radici comuni anche con le leggende sui ritornanti, sui licantropi e sulla stregoneria almeno quanto nel capitalismo possiamo cogliere le radici del patriarcato, dello schiavismo, del nazionalismo.

Le prime leggende vampiresche registrate risalgono all’espansione dell’Impero austro-ungarico, quindi anche dell’illuminismo, verso l’Est Europa. Il vampiro abitava la frontiera tra due mondi, tra la vita e la morte, tra Ovest e Est, tra Occidente e Impero Ottomano, tra ragione e barbarie. Non apparteneva né al cristianesimo protestante né al cattolicesimo né all’Islam ma coabitava con gli antichi riti della chiesa Ortodossa, tra miti e tradizioni incomprensibili. Tra l’opera di Byron e il Dracula di Bram Stoker inoltre c’è una raffinata evoluzione. Il Nosferatu, il maledetto, il Vampiro che evoca l’altro da sé nella la frontiera si evolve nell’aristocrazia interprete di tutti gli stereotipi che all’epoca venivano caricati sullo straniero e sul Medioevo.

La pratica di disseppellire cadaveri per combattere il vampirismo, come le trasfusioni di sangue, come la ricerca sulle epidemie e le malattie veneree, come anche lo studio dell’anatomia umana cui attinsero a piene mani i creatori del vampirismo non era però pratica propria dei remoti Carpazi ma delle Accademie occidentali, del cuore pulsante dei Lumi moderni. Nel corso del XVII e del XVIII secolo però, sempre più spesso, le autorità locali delle appena acquisite province dell’Impero austro-ungarico iniziarono a parlare di vampirismo e di non morti.

Vienna solitamente bollò queste denunce delle autorità come retaggio di antiche superstizioni dal sapore esotico; in realtà la fenomenologia del vampirismo era il manifestarsi di un elemento identitario. Autorità religiose e civili, villaggi, comunità nei secoli in cui si andava affermando la “modernità” resistevano grazie ad una sorta di allucinazione di massa che si richiamava a leggende del folklore locale per mantenere una forma di controllo sul territorio. Se vi sembra un bias cognitivo inconcepibile, pensate a come metà dell’elettorato italiano oggi segua narrazioni politiche che attingono a un repertorio fatto di invasioni dal Mediterraneo, oscure macchinazioni antisemite e complotti lontani contro il farsi globale del capitalismo. Nel corso dell’Ottocento lo storico ebreo David Biale osservò come «lo stesso tipo di angosce verso la razza, il nazionalismo, la sessualità che pervade le moderne storie di vampiri può certamente essere visto nel contesto dell’accusa del sangue contro gli ebrei». La “vampirofobia” ottocentesca in Inghilterra si accompagnò con il montare dell’antisemitismo e la chiusura puritana della società vittoriana. Gran parte della borghesia industriale inglese non esitò spesso a dipingere l’aristocrazia finanziaria come “succhiasangue”, “vampiri”. E anche Karl Marx in quasi tutte le sue opere, dal Manifesto ai Grundrisse, non esitò a utilizzare immagini oniriche di vampiri succhia sangue.

Nel suo capolavoro, Stoker compì infine il più perfido degli “scherzi”. Grazie a un’approfondita ricerca storica realizzò un “romanzo – fake news” in grado di esasperare tutti gli incubi dell’epoca. All’inizio del romanzo, per esempio, il conte Dracula discende da Attila, re degli Unni, dai vichinghi «giunti dall’Islanda», dai Székely, fiera nazione ungherese a cui era dato l’incarico di difendere i confini orientali (quella a cui spesso di richiama oggi Orbán), e – naturalmente – a Vlad Tepes Dracul tanto denigrato dalla pubblicistica balcanica sua contemporanea. Stoker quindi stravolge l’origine etnica del Dracula valacco, storicamente esistito come Vlad Tepes Hagyak (1431-1476), e ne fa un esponente di quel “Nordicum” barbarico, “vagina gentium” dominato da popolazioni celtiche, turche, unne, ugro-finniche, iraniche, germaniche e slave, che tanto aveva impaurito nei secoli i popoli dell’Europa mediterranea. Si dice che il Conte avesse degli eredi che dopo il romanzo cambiarono il nome. Il ritrovamento di alcuni articoli di giornale tra i documenti di Stoker, ha fatto presumere che in realtà lo scrittore fosse stato ispirato non dalle vicende del principe Vlad III, bensì da un fatto accaduto, e documentato, alcuni anni prima della pubblicazione del romanzo, a Exeter nel Rhode Island. Nel 1892 la morte della diciannovenne Mercy L. Brown sconvolse la piccola comunità del New England.

La ragazza morì per una malattia molto particolare che aveva ucciso, qualche anno prima, sia la madre Mary che la sorella Olive; tale malattia causava sintomi quale pallore e mancanza di appetito. In seguito quella sintomatologia venne identificata come tubercolosi, ma allora si parlò di vampirismo. Considerando che la vicenda risale al 1892, ben cinque anni prima della scrittura del romanzo, si può ragionevolmente pensare che questa, più che la vita del principe Vlad III, abbiano influenzato lo scrittore. L’impatto dell’opera e dello sforzo di incastri di Stoker fu rivoluzionario al punto da plasmare ex novo un protagonista degli incubi della modernità: non morto, succhiatore di sangue, discendente di un’antica aristocrazia, espressione della frontiera e di saperi oscuri che riuscivano a spiegare ciò che la scienza non era in grado di fare. In qualche modo il vampiro è il negativo del positivismo della filosofia contemporanea a Stoker. In diversi riferimenti, ripresi anche nella sua opera poi, servitori dell’aristocrazia vampiresca orientale erano gli zingari, completando il quadro di tutte le fobie che avrebbero generato orrori, reali, nel secolo successivo.

In questo coagularsi di pensiero magico, nazionalismo identitario e puritano e di una xenofobia sempre più affine ad antisemitismo e antiziganismo si inserì l’opera da cui è nato il “principe delle tenebre”: il Conte Dracula.

 

FRANKENSTEIN

Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo.
(il replicante Roy Batty in Blade Runner)

 

Marginalizzazione del disagio, guerra alle donne, schiavismo, nazionalismo, xenofobia, antisemitismo, ziganofobia e sessuofobia si sono quindi nei secoli incarnati nelle figure degli incubi che abbiamo fin qui elencato. Ne manca ancora uno all’appello, anch’esso frutto di un capolavoro letterario, anch’esso generato da romantici anglosassoni con passioni per l’occulto: la “creatura” di Frankenstein, raccontata dalla giovanissima Mary Shelley nel 1819. L’opera è più legata di quanto si pensi a quella di Byron che plasmò il moderno vampiro. Proprio nel maggio 1816 infatti la sorellastra di Mary Shelley, Claire Clairmont, diventata la compagna di Lord Byron, convinse i coniugi Shelley a seguirla a Ginevra. Il tempo piovoso (fu l’«anno senza estate») confinò i dimoranti nella loro residenza di Villa Diodati, dove occuparono il tempo libero leggendo storie tedesche di fantasmi, raccolte nell’antologia Fantasmagoriana. Byron propose allora di comporre loro stessi una storia di fantasmi. Ma Mary non ebbe subito l’ispirazione. Le lunghe conversazioni dei villeggianti vertevano sulla natura della vita, sul galvanismo, cioè sugli stimoli elettrici ai muscoli animali, sulla possibilità di assemblare una creatura e infondere in essa la vita. Tali pensieri scatenarono l’immaginazione di Mary e portarono a un incubo: uno studente che si inginocchia di fianco alla creatura che ha assemblato; creatura che, grazie a una qualche forza, comincia a mostrare segni di vita. Mary iniziò il racconto decisa a ricreare quel terrore che lei stessa aveva provato nell’incubo: il successo dello scienziato nell’animare la creatura l’avrebbe terrorizzato ed egli sarebbe scappato dal suo lavoro, sperando che, abbandonato a se stesso, l’essere sarebbe morto; ma la creatura, reagì alla sua solitudine.
Così a Ginevra nel 1816 nacquero ben due mostri moderni: il Vampiro e Frankenstein.

Mentre però i vampiri distillavano le paura della borghesia inglese per il passato, lontano e straniero, il romanzo della Shelley dava un volto al terrore per il futuro, per la scienza, per il progresso tecnologico, per le scoperte nel campo elettrico. Il rovesciamento del mito di Prometeo fu il primo esempio del fortunato genere letterario distopico con i suoi riverberi dell’eugenetica e in una scienza oscura che sfida ogni utilità, come anche l’ordine religioso ed etico. Un incubo che si richiama alla leggenda, ebraica, del Golem di Praga. Shelley sostituì all’oscurità dei borghi boemi, dei ghetti e della magia cabalistica l’elettricità, la fredda macchinica tecnologica che infrastrutturava il capitalismo dell’epoca.

L’energia e l’elettricità come nuova prometeica innovazione opposte non a caso, per la Creatura con il fuoco, la prima innovazione tecnologica dell’umanità. La scelta della Creatura di morire carbonizzata in un suicidio che sfida ulteriormente la morale segna anzi quasi un oscuro orizzonte primitivista che parla in modo complementare proprio alla nascente vampirofobia. La tragedia della scienza che diffonde terrore, morte e disperazione nella storia del dottor Viktor Frankenstein è colma di quei presagi che nella metà del secolo successivo avranno compimento negli orrori del nazionalsocialismo, dell’eugenetica e della bomba atomica. Oltre alle influenze che il romanzo ebbe sulla società inglese ci fu anche in questo caso un utilizzo politico all’interno del nascente capitalismo industriale. Il fatto che la “Creatura” fosse senza nome e comunque priva di individualità la fece apparire, in un’ottica marxista, come il simbolo dell’emergente proletariato industriale, messo a lavoro sulle nuove tecnologie elettrificate. Questa suggestione bastò a far usare dai Tories il mito letterario come strumento di propaganda antiscientifica, antimodernista, contro l’ateismo e le tendenze rivoluzionarie della classe operaia.

In un parallelismo con il presente potremmo dire che in quella vacanza di Ginevra, tra la giovane Shelley e Lord Byron nacquero tue tendenze che ancora oggi circolano negli incubi della borghesia occidentale: la paura apocalittica, distopica per la tecnologia, per l’automazione, la robotizzazione da una parte e, dall’altra, il terrore per l’altro, lo straniero, incarnazione di antiche leggende e superstizioni di frontiera.

I MOSTRI DEL CAPITALISMO

Verremo ancora alle vostre porte
(F. De Andrè)

Licantropi, Streghe, Zombie, Vampiri e creature alla Frankenstein non sono altro che la perfetta rappresentazione di tutte le paure nate dal subconscio delle classi dominanti mentre imponevano un ordine sociale basato su violenza, isolamento e sfruttamento. È per questo che ognuna di queste figure ha tratti comuni con gli ultimi, con chi vive ai margini dell’Impero. Queste presenze oscure rovinano i sonni tranquilli delle élites perché hanno la forza di rovesciare l’ordine su cui hanno fondato la loro sicurezza, la loro morale e il loro ordine.

Le polemiche che da anni criticano la festa di Halloween come festa di una tradizione lontana, pagana, ignorano quanto quella tradizione e i mostri che porta con sé, siano intrinsecamente connessi al capitalismo per come si è storicamente determinato. Capitalismo che oggi ha una dimensione globale, come i suoi fantasmi. E se decine di migliaia di roghi sono stati accesi per imporre questa modernità, altri oggi continuano a bruciare di rabbia e rivolta in tutto il mondo mentre l’Impero vacilla.

Come in ogni Apocalisse che si rispetti i mostri si risollevano, si moltiplicano, mostrando il loro aspetto più originale e terrificante. Sono questi incubi che bussano alle porte di chi questo mondo ha costruito. Proprio oggi che i dolcetti sono finiti.