approfondimenti

MONDO

Guatemala, il genocidio dimenticato

Storia di un incontro fortuito tra i sentieri impervi di un paese senza giustizia

La storia del Guatemala mi aveva colpito molto fin da quando mi ci ero imbattuto per la prima volta, molti anni fa, nelle mie prime letture latinoamericane.

Il piccolo paese centroamericano infatti, già ben 20 anni prima della presa della Moneda da parte di Pinochet e della CIA, vive una esperienza molto simile. Jacobo Arbenz, presidente riformista democraticamente eletto nel 1951 con un programma progressista finalizzato alla riforma agraria redistributiva, viene destituito nel 1954 con un colpo di stato cruento, gestito direttamente da Washington e dalla United Fruit Company. Da lì in poi si susseguono una serie di dittature e giunte militari, sempre determinate dall’estrema destra che, ovviamente, non attuano nessuna redistribuzione di terre o di ricchezze e permettono al capitale nazionale e internazionale di continuare a sfruttare le risorse minerarie e agricole del paese. Il Guatemala infatti è potenzialmente molto ricco: minerali ma anche terre fertili, umide e calde dove fin dai tempi della colonia spagnola si coltivano piantagioni di caffè, canna da zucchero e banane. È anche un paese ricco di bacini di acqua dolce utilizzabile a fini idroelettrici, come sa bene, al giorno d’oggi, il gruppo Endesa-Enel, che ha costruito svariate dighe.

Anche in Guatemala tra gli anni ‘60 e ‘70 iniziano a formarsi i primi gruppi di guerriglieri: uomini e donne consapevoli che andare in montagna con un’arma era l’unica strada per difendersi e per lottare per quella giustizia sociale sempre negata da governi dittatoriali, eserciti sanguinari e, soprattutto, dalla volontà degli Stati Uniti che, uno a uno, decapitavano i governi latinoamericani che non accettassero il controllo economico e politico a stelle e strisce.

 

La guerra contro i rivoluzionari guatemaltechi è stata tra le più atroci di tutta l’America Latina. Si stima che tra la metà degli anni ‘70 e la metà dei ‘90 le giunte militari abbiano ucciso 200.000 persone e ne abbiano fatte scomparire almeno 45.000.

 

È un numero esorbitante in termini sia assoluti che relativi, se si pensa che in Argentina (dove abita più del doppio della popolazione guatemalteca) i desaparecidos furono 30mila. Il massacro dei guatemaltechi è stato correttamente definito genocidio in quanto esplicitamente finalizzato all’annientamento della popolazione indigena Maya (circa il 40% della popolazione, il resto sono meticci), accusata di sostenere la guerriglia.

Quando il 17 agosto varco il confine fluviale tra Messico e Guatemala, ricordo questi fatti e vorrei ritrovare tracce di quanto è accaduto, vorrei capire quanto rimane in termini di memoria storica collettiva e personale.

Ho ancora il ricordo vivo della memoria collettiva di quello che fu il terrorismo di stato in Argentina ma, in forme minori, le atrocità delle dittature novecentesche sono ricordate con musei, murales, narrativa e cultura popolare anche in Bolivia, Colombia e Uruguay.  Mi domando se troverò qualcosa di simile anche nel paese centroamericano.

Nei primi giorni guatemaltechi la mia “ricerca” non porta risultati. Non trovo musei né targhe, se le trovo sono amaramente filogovernative. La popolazione locale è aperta a chiacchierare con chi parla spagnolo (anche se per molti quest’ultima è la seconda lingua, la prima è quella indigena) ma quando chiedi, discretamente e con delicatezza, qualche ricordo degli anni ‘80 e ‘90, i più duri nello scontro tra guerriglia e stato, le risposte sono vaghe e scoraggianti. «Non mi ricordo perché ero piccolo», «Brutti tempi ma per fortuna tutto è finito e ora stiamo bene», «Non c’è stata giustizia per quanto accaduto, ma tanto la giustizia è solo quella divina» e altre interazioni analoghe. Non mi arrendo e seguendo suggerimenti e indicazioni di libri arrivo fino a Nebaj, piccola cittadina circondata dalle montagne della regione del Quiché, terra degli indigeni Ixil, un sottogruppo dei maya, a 2000 metri sul mare. Qui la guerriglia aveva una base importante e i massacri nei confronti della popolazione civile furono inenarrabili. Su una popolazione della vallata di 85.000 abitanti ne furono uccisi 25.000.

Mi reco a un ufficio di guide di montagna, chiedo in merito alla possibilità di fare una escursione, almeno così posso capire la geografia dei luoghi dove si consumò il genocidio. Mi propongono un giro di due giorni, con guida e pernottamento in famiglia nelle comunità rurali. Per un attimo ho una incertezza, so bene, per esperienza, cosa sia la vita in comunità rurali: niente luce, niente acqua corrente, bagni sempre distanti dalla casa, cibo scarso, dormire per terra, fango e insetti. Mi domando se ho ancora l’età per farlo, poi forse per orgoglio mi rispondo di sì, e così la mattina seguente, molto presto sono pronto per l’appuntamento.

Conosco così Jacinto, che sarà la mia guida per le montagne Ixil.

Per fingere di non essere un turista occidentale ossessionato dalla memoria storica, durante la prima mattinata svago con i discorsi e parliamo di altro: la migrazione negli USA, la situazione dell’Italia, il viaggio che avevo fatto fino a Nebaj. Dopo un po’ di ore però vengo alla mia domanda ormai trita e ritrita, che ormai porgevo con poche speranze: «hai qualche ricordo di cosa fu il conflitto armato in questa zona?». Jacinto mi sorprende: «Beh, si, sono stato membro della guerriglia in queste valli dal 1979 al 1996, ti posso raccontare se ti interessa». Finalmente mi si apre un mondo e per un po’ mi sento più leggero nonostante zaino e salita.

 

 

Non è sempre facile ascoltarlo, il suo spagnolo qualche volta si mescola all’Ixil, e soprattutto, come tutti gli indigeni americani che ho conosciuto, rifugge ogni racconto che segua consequenzialità temporali in forma lineare, ma procede invece per progressiva approssimazione circolare rispetto al nocciolo di quanto vuole raccontare. Al contempo è estremamente affascinante e arricchente stare con lui. In qualche momento faccio fatica perché il sentiero, oltre che pendente e lungo, è molto fangoso e mi viene da ridere mentre Jacinto saltella agilmente da un lato all’altro con scarpe improbabili e io con i miei scarponi da alpinista sono incollato nel fango fino alle ginocchia e faccio sforzi scoordinati e affannati per riuscire comunque a stargli vicino. Nel frattempo, senza sosta e con entusiasmo, sgrana i suoi racconti di 17 anni passati a combattere per quei sentieri.

La sua storia è quasi paradigmatica. Nasce a Nebaj nel 1962, quando compie 7 anni ha già perso entrambi i genitori, «morti di schiavitù» li definisce lui, cioè morti di malattie curabili mentre lavoravano in una piantagione lungo la costa. Nelle piantagioni, racconta, lavoravano tutti i giorni per 25 centesimi di quetzal al giorno (10 centesimi di euro), con poco cibo e senza nessun diritto. A 13 anni parte anche lui per le piantagioni ma non riesce ad adattarsi al clima, al lavoro massacrante, alla violenza. A 17 torna a Nebaj, cercando di sopravvivere con espedienti. Un giorno incontra in un sentiero di montagna un gruppo guerrigliero, si avvicina, chiede informazioni. I combattenti gli raccontano perché lottano e cosa fanno e in poche ore decide di unirsi a loro.

 

«Ho scoperto molte cose nella guerriglia. Ho imparato cosa sia la politica, ho conosciuto la storia, mi hanno insegnato a leggere a scrivere e ad usare il fucile e la mitragliatrice, ma soprattutto ho compreso lo spirito del compañerismo, cioè la bellezza di avere compagni con cui lottare assieme, dormire assieme, suonare la chitarra di notte attorno a un fuoco e poi a fianco in battaglia».

 

Il sentiero continua e così i racconti. In quelle zone la strategia del governo era fare “tierra razada” (terra rasata, bruciata, ndr) attorno ai gruppi di guerriglieri. Perciò unità dell’esercito scendevano nei villaggi, concentravano gli uomini in una stanza, di solito nelle scuole, e poi sparavano indiscriminatamente, mentre le donne, terrorizzate, aspettavano fuori in lacrime sperando che il proprio compagno si salvasse. In tanti venivano semplicemente prelevati e fatti scomparire e il lavoro di antropologia forense per individuare le fosse comuni non si è ancora concluso.

Gli chiedo quali furono gli errori maggiori dell’URNG (Unità Rivoluzionaria Nazionale Guatemalteca, che componeva le 4 formazioni guerrigliere del paese). «Ci hanno accusato di qualunque cosa pur di rappresentarci come mostri sanguinari. Non abbiamo mai compiuto massacri né ucciso civili. La guerriglia sta con il popolo non può massacrarlo. Una cosa però l’abbiamo sbagliata. Durante gli anni siamo avanzati molto sul piano politico, poiché il sostegno di cui godevamo era molto amplio, riuscivamo a convincere della necessità di una rivoluzione una parte consistente del paese, però non avevamo capacità militari per riuscire a difendere quella fascia crescente della popolazione che aderiva al nostro progetto, e questo ci ha indebolito, ci ha fatto perdere appoggio e sostegno».

 

Coloro che non accettavano la violenza dell’esercito e al tempo stesso comprendevano che la guerriglia non era in grado di difenderli, lasciavano la propria comunità e costruivano nuove “comunità in resistenza” in zone estremamente impervie e isolate nella foresta della regione di Ixcan.

 

Le comunità in resistenza, nascoste dal potere statale, cercavano di ricostruire una vita sociale ed economica. È proprio in una di queste comunità, che appoggiavano l’URNG, che Jacinto conosce la sua futura moglie, da cui avrà i primi due figli mentre ancora veste l’abito del combattente.

Mi racconta anche del ruolo forte svolto dalla chiesa evangelica (sostenuta dagli USA) al fine di allontanare la popolazione dalla lotta, promuovendo il pentimento e la speranza in una giustizia divina successiva alla morte, mentre invece la chiesa cattolica, soprattutto nelle piccole comunità, era spesso molto vicina ai guerriglieri anche per via della forte adesione alla teologia della liberazione.

Qualche volta è anche divertente e autoironico. «Un giorno una pallottola mi ha perforato il petto, mi hanno portato in un ospedale da campo vicino al confine con il Messico dove una dottoressa volontaria tedesca e un dottore messicano mi hanno curato. Dentro di me pensavo “magari ora per le cure mi mandano in Messico, non ci sono mai stato, vorrei tanto vederlo, un giorno, il Messico” e invece niente, solo ospedale da campo e dopo alcuni mesi, sono tornato a combattere, uff!».

Parlare degli accordi di pace è un tasto dolente, perché furono firmati da un movimento rivoluzionario in una posizione di netta inferiorità e sostanziale sconfitta. Gli chiedo quali siano per lui i risultati più importanti di quegli anni di lotta. «Ora l’educazione bilingue è un fatto comune in tutte le zone indigene, prima si era obbligati a imparare lo spagnolo e per questa ragione molti bambini neppure andavano a scuola.  In numerosi municipi ci sono due amministrazioni, quella statale e quella indigena che gestisce una serie di questioni legate alla giustizia, al diritto, alle controversie tra persone in base a tradizioni e norme consuetudinarie della popolazione indigena. C’è meno violenza. Qui a Nebaj, poi, siamo riusciti con le prove raccolte, a portare a processo per genocidio Efrain Rios Montt, il più efferato dei dittatori degli anni ‘80. L’obiettivo più grande però non siamo riusciti a ottenerlo: la giustizia sociale. Il paese è povero e ingiustamente diseguale quanto lo era nel 1979, quando ho preso in mano il fucile. Non è cambiato nulla».

Purtroppo quello che dice Jacinto è amaramente vero e si può riscontrare ogni giorno girando per paesi e città guatemalteche.

Il trekking prosegue tra racconti di episodi sparpagliati nel tempo e nello spazio. È realmente piacevole stare con lui, mi adatto senza alcun problema alla povertà della famiglia che ci ospita e continuo con i racconti anche il giorno successivo.

Lasciare Jacinto è un misto dolce e amaro. Da un lato la fortuna di aver conosciuto una persona così, l’energia che trasmette un uomo che ha lottato per tanti anni in quel modo totale e assoluto, ma anche l’amarezza di comprendere quanto sia mancato l’obiettivo più importante al quale ha dedicato la sua vita: un Guatemala più giusto per tutti e tutte.

Questa sconfitta si vede chiaramente nei suoi occhi ma non si vede la resa e proprio per questo, per quella dignità, per quella disponibilità a continuare a lottare che ho sentito nei suoi racconti, salutandolo mi sento arricchito e motivato. Penso a quanto importante sarebbe che Jacinto raccontasse la sua vita nelle scuole e nell’università, che scrivessero magari un libro su di lui, che si facesse un film, che potesse trasmettere ai giovani guatemaltechi la voglia di cambiare e di spendersi come è riuscito a fare con me mentre mi accompagnava nel fango dei monti di Nebaj.

So però che non accadrà, perché mi è chiaro quanto le persone come Jacinto siano ai margini della società guatemalteca, oggi.

Spero almeno che tanti altri montanari possano avere la fortuna di fare trekking per le terre degli Ixil ascoltando i suoi racconti. Grazie Jacinto!