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Golino e Rohrwacher, madri imperfette a Berlino

L’unico film italiano in concorso alla Berlinale è “Figlia Mia” di Laura Bispuri: un’opera che racconta la storia di due madri che si contendono l’affetto di una bambina ma che non riesce mai ad andare al di là di una serie di stereotipi

Nel 2015 Laura Bispuri esordiva portando il suo primo lungometraggio direttamente nel concorso principale del festival del cinema di Berlino. Tre anni dopo, l’unico film italiano scelto nella sezione principale della Berlinale numero 68 è il secondo film della quarantenne regista romana, Figlia Mia, di cui Bispuri (insieme a Francesca Manieri) è anche sceneggiatrice, e che è stato presentato domenica alla stampa e al pubblico.

Se Laura Bispuri con i suoi primi due lungometraggi, è entrata in uno dei maggiori festival di cinema del mondo sempre dalla porta principale, va riconosciuto al suo cinema qualche indubbio merito. Eppure, guardando questo Figlia mia, più dei pregi, sembrano emergere (amplificati) tutti i difetti dell’esordio, rispetto al quale rappresenta addirittura un’involuzione.

Bispuri ambienta il film ai piedi del Supramonte, nella Sardegna lontana dalle traiettorie del turismo estivo. Scelta suggestiva, che conferisce alla storia una dimensione arcaica e in qualche modo astratta: lo scenario perfetto per un’opera che avrebbe voluto e dovuto affrontare in modo problematico una questione complessa come la maternità. In questo non-lieu metafisico, due donne si contendono l’affetto di Vittoria, una bambina di dieci anni. La prima è Angelica, che di Vittoria è la madre naturale, sbandata e instabile, che per campare fa la custode in un’azienda ittica, trascorre il tempo perennemente ubriaca nel bar del paese e arrotonda prostituendosi con gli avventori del locale. L’altra, Tina, colei che Vittoria ha da sempre chiamato “mamma”, è il suo opposto: Angelica – data l’incapacità di assumersene la responsabilità – le ha affidato, e in un certo senso venduto, Vittoria subito dopo la nascita e a lei Tina ha completamente votato la sua vita, tanto da non dormire più con il marito ma in un letto nella camera della bambina.

Nella bizzarra e deficitaria selezione berlinese di quest’anno, Figlia Mia potrebbe anche raccogliere qualche premio, sia perché al momento i competitor non sembrano molto solidi, sia perché l’opera seconda di Laura Bispuri, ancora e di più rispetto a Vergine Giurata, il suo lungometraggio d’esordio, pare un film costruito a tavolino per piacere alla giuria di un festival.

C’è la fotografia raffinata di Vladan Radovic, che stacca in modo netto i soggetti dallo sfondo ed esalta i colori della terra, il marrone e il verde; c’è la camera a mano che si incolla ai personaggi, ai loro volti, soprattutto alle loro “nuche” e ai loro corpi; ci sono Alba Rohrwacher e Valeria Golino, due attrici “da festival” lasciate libere di essere sempre e a piacimento sopra le righe. Dentro a questa impalcatura scientificamente pensata, c’è però un film che sorprende in negativo soprattutto laddove ci si aspetterebbe di trovarne il punto di forza, e cioè nella costruzione dei due personaggi principali, che purtroppo non vanno mai oltre una colpevole e grossolana stereotipizzazione. Da un film scritto, diretto e interpretato “al femminile”, come lo ha definito la stessa Bispuri in conferenza stampa, sarebbe stato lecito aspettarsi una caratterizzazione psicologica delle “due madri” un po’ più dinamica e profonda e meno “maschile”. Invece, è proprio nella scrittura che la cineasta sembra non osare mai veramente e accontentarsi di categorizzare in modo semplicistico gli elementi di una storia che avrebbero richiesto ben altra complessità. Da un lato, infatti, abbiamo la madre biologica, instabile e pulsionale, ridotta però a gesti prevedibili, a un alcolismo da barzelletta, avvolta da attillati e succinti abiti anni ’80, svuotata di ogni spessore caratteriale e quasi ridicolizzata per la sua disinibizione sessuale; dall’altra la madre adottiva, con i vestiti da angelo del focolare, ossessionata dal controllo e dal proprio senso di inadeguatezza (è stata “biologicamente” incapace di avere un figlio dal marito Umberto, interpretato dal ruspante Michele Carboni), che ribadisce in continuazione il proprio ruolo in una serie di divieti che bloccano la bambina e la rendono emarginata rispetto ai coetanei. Il dubbio posto dal titolo, la vera suggestiva domanda del film, e cioè a quale delle due donne si debba legittimamente riferire l’aggettivo “mia” (alla madre biologica o a colei che Vittoria ha sempre accostato il significante “mamma”), non è mai attraversato fino in fondo o posto in modo dilemmatico, ma rimane annacquato in una rete di gesti caricati all’eccesso; né, purtroppo, viene esplorato il rapporto complesso, ambiguo e interessante che si intravede tra Angelica e Tina, rivali, certo, ma anche in qualche modo complici.

Problemi di scrittura, quindi, che dilapidano una serie di possibili spunti interessanti e che si manifestano anche attraverso dialoghi non sempre riusciti, talvolta ingenui e fuori tono, peggiorati da una recitazione insensata: in questo far west sardo brullo e duro, le due dive, Rohrwacher e Golino, raramente sono credibili, impostate in una dizione perfetta, recitano con troppa distanza dai non attori “veri” che completano il cast; questi ultimi hanno infatti, sebbene abbiano una recitazione grezza, sporca e dialettale, sono perfettamente appropriati, mentre le protagoniste oscurano costantemente i loro personaggi.

Anche quando vorrebbe spostarsi su un piano più simbolico Bispuri lascia intravedere tutti i limiti del suo cinema, che intavola le carte ma rinuncia poi a giocare: la scena primaria che Tina infligge a Vittoria, ad esempio, costretta ad assistere a una fellatio che Angelica sta praticando nello squallore del retro del bar, viene abbozzata ma non osata fino in fondo, e finisce per avere solo un effetto emotivamente ricattatorio; o la prevedibilità scolastica del finale, in cui Vittoria entra in una fessura-vagina nel terreno, per poi uscirne come in una nuova nascita, ri-generata e finalmente pronta per una nuova vita con due madri.

In conferenza stampa la regista ha detto che nel dibattito attuale, aver scelto di incentrare il suo film su figure femminili è «già di per sé una presa di posizione» particolarmente significativa. Aver però sciupato questa presa di posizione ricorrendo a stereotipi vetero-maschilisti, ci sentiamo di aggiungere, è allora una colpa ancora più grave.