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EUROPA

I Gilets Noirs non sono un collettivo, ma un movimento! Archeologia di una lotta antirazzista

Nati contemporaneamente ai Gilets Jaunes, in pochi mesi il movimento dei Gilets Noirs si è imposto come uno spazio di coordinamento e di lotta autonoma per numerose persone sans-papiers, abitanti affittuari di foyers dell’ile-de-France o persone senza tetto. Dopo diverse azioni di forza organizzate insieme al collettivo la Chapelle Debout e destinate a ottenere una regolarizzazione collettiva negoziando con la prefettura, il movimento ha deciso di rivolgersi direttamente al primo ministro e di dare avvio a una campagna di azioni, che puntano a svelare e destabilizzare il sistema che, dall’illegalizzazione fino all’espulsione, passando per lo sfruttamento sul lavoro, produce persone sans-papiers. In questa intervista, discutiamo insieme ad alcuni attori del movimento – due referenti dei foyers in lotta (B. e K.) e due membri della Chapelle Debout (D. e V.) che hanno preferito restare anonimi – sulla genesi del movimento, la sua strutturazione e la sua ambizione a ridefinire la grammatica della lotta dei sans-papiers.

PEM: Potete tornare all’inizio e ripercorrere la genesi di questo movimento dei Gilets Noirs?

V: A novembre 2018, all’inizio, nessuno sapeva che i Gilets Noirs sarebbero diventati questo, abbiamo “superato” noi stessi. Abbiamo cominciato a mobilitare con l’idea di riaprire le porte della prefettura, e ha funzionato. Il 23 novembre, durante una prima azione che consisteva nell’occupare il Museo nazionale di storia dell’immigrazione, eravamo molto più numerosi del previsto… Abbiamo fatto una seconda azione alla Comédie française, il 16 dicembre, e siamo riusciti a ottenere un appuntamento in prefettura.

B: Grazie a questa azione, abbiamo visto che il meccanismo aveva successo. Abbiamo creato dei gruppi nei foyer e scelto dei referenti per allargare e strutturare la mobilitazione. I referenti andavano di foyer in foyer per parlare con gli altri e mobilitare. È importante questa comunicazione, poiché qui, quando sei senza documenti, non sai quali sono i tuoi diritti. Ora siamo almeno 1500 persone. All’epoca dell’appuntamento ottenuto con la prefettura, a dicembre 2018, il questore ha accettato di dare una risposta favorevole a 30 domande di regolarizzazione ogni mese. Ma queste 30 domande sono ancora là, nessuna ricevuta né niente. La prefettura gioca con noi, ci dice: ci vediamo tutti i mesi, poi è ogni tre mesi e in realtà… appena l’appuntamento arriva, lo rimandano. Quindi continuiamo la lotta. Quindi, siamo tornati nei foyer per mobilitarci di nuovo, abbiamo anche partecipato alla Marcia della Solidarietà il 16 marzo… A titolo personale, prima non mi ero mai mobilitato perché avevo paura vista la mia condizione, non avevo fiducia nelle persone. Da quando ho incontrato la Chapelle Debout e poi grazie a queste mobilitazioni, non abbiamo più paura e non perdiamo più! Perdevamo sempre, oggi non perdiamo più e i foyer adesso hanno fiducia in noi. Quindi non molleremo. Possiamo avanzare delle rivendicazioni anche perché cominciamo a conoscere i nostri diritti. Prima, come persona sans-papiers, non sapevo neanche se avevo diritto all’assistenza medica e la polizia poteva farmi credere qualsiasi cosa, ma dopo questa mobilitazione so che cosa ho diritto di fare: ho diritto alla solidarietà, all’assistenza medica… Prima non cercavo niente, non chiedevo aiuto allo Stato, parlano di “diritti dell’uomo” ma per i sans-papiers è “diritto alla prigione”. Quando sei sans-papiers, i diritti dell’uomo non ti riguardano, anche quando paghi le tasse, ti comporti bene. Se chiedi l’asilo, ricevi un decreto di espulsione. Qui se chiedi l’asilo e te l’hanno già respinto, ti rispediscono a casa tua.

D: Dopo questo primo appuntamento alla prefettura, abbiamo fatto delle assemblee, in particolare a Montreuil, alla Parole Errante, dove eravamo 700 persone. Un’assemblea in 5 lingue, per decidere la strategia. Abbiamo fatto altre riunioni in tutti i foyer affinché i dossier [per le domande d’asilo, ndt] fossero scelti tutti insieme, e non secondo i criteri della prefettura, ma sulla base di una decisione collettiva. Volevamo che un dossier di qualcuno che era arrivato da due mesi fosse trattato come quelli delle persone che sono qui da 22 anni. Per accompagnare la delegazione del 31 gennaio, che era composta da due Gilets Noirs e un membro della Chapelle Debout, abbiamo organizzato una grande manifestazione che partiva dalla Comédie française fino alla prefettura. Eravamo 1500, abbiamo corso fino alla prefettura, c’era un cordone di CRS [celerini francesi, ndt] che ha avuto paura e ha bloccato la porta dalle 15 alle 19. Il 31 gennaio, 1500 persone sono corse verso la prefettura e l’hanno bloccata per 4 ore. Durante questo appuntamento, abbiamo consegnato dei testi per denunciare il razzismo di stato e più in generale le condizioni di accoglienza. L’abbiamo fatto per uscire dal quadro burocratico classico, e portare un contenuto politico.

K: Per me la prima partecipazione a un evento con la Chapelle Debout è stato il 31 gennaio, quando la prefettura ha dato l’appuntamento al collettivo per tenere fede alla promessa che ci avevano fatto: regolarizzare trenta persone per mese. Non è stato fatto. La Chapelle Debout ci ha detto che bisognava che “ci allacciassimo le cinture”: affinché mantenessero la loro promessa, dovevamo moltiplicare le azioni, le manifestazioni e le occupazioni. È stato allora che ho cominciato a lavorare con il collettivo la Chapelle Debout, che mi sono integrato e che sono diventato referente nel mio foyer. Prima avevo notato che c’erano dei collettivi di solidarietà ai sans-papiers, nel foyer c’erano dei manifesti, degli sportelli aprivano il sabato, ma non mi ci ero mai davvero interessato. A. mi ha contattato per organizzare delle riunioni e mobilitare il foyer, è stato allora che ho sentito che diventavo utile per il movimento. La prima volta in cui ho realmente partecipato, è stato quando siamo andati all’aeroporto per impedire la deportazione di un sudanese; ci siamo riusciti ed è stato allora che mi sono detto è ora di “allacciare la cintura”. Non avevo nessuna esperienza prima, anche al di fuori della Francia. Ho sempre detestato la politica, perché nel mio paese i politici sono tutti dei razzisti, i bravi leader vanno in prigione. O stai zitto e segui i politicanti, oppure finisci in prigione. Il leader della Mauritania è attualmente accusato di corruzione. Ora, è diverso: nel paese dei diritti dell’uomo, anche se non rispettano ciò che dicono, si vergognano di ciò che fanno. Grazie alla libertà di espressione, posso andarmene al palazzo dell’Eliseo a dire quello che penso a Macron, e non verrò arrestato (risate). Da noi quando si apre la bocca, ci si fa torturare, quindi non diventerò un oppositore con il rischio di perdere tutto. Nessuno vi ascolta e si finisce sconfitti. Qui, se conosci i tuoi diritti e li rivendichi, hai una possibilità di ottenere ciò che ti spetta.

V: Dopo questo prima consegna di dossier alla prefettura, uno solo è stato accettato, quello di un compagno che era in Francia da 22 anni e il cui dossier era stato rifiutato tre volte in precedenza. Abbiamo deciso di colpire più in alto ma ci ha richiesto un’organizzazione interna più strutturata. Per qualche mese, abbiamo imparato a farci fiducia accumulando le “piccole” azioni, come delle azioni anti-deportazione, la partecipazione alla manifestazione contro il razzismo di Stato del 16 marzo e quella davanti alla prigione per persone straniere di Mesnil-Amelot vicino a Roissy. È stato necessario per essere poi capaci di fare delle efficaci azioni di massa, illegali, offensive — potremmo persino dire violente, perché l’offensiva politica non si riduce a spaccare le vetrine, essere 500 persone sans-papiers che occupano gli sfruttatori è offensivo. Abbiamo lanciato una campagna, “I Gilets Noirs cercano un Primo Ministro”. La prima azione pubblica di questa campagna, il 19 maggio 2019 all’aeroporto Roissy-Charles-de-Gaulles, è circolata molto. 500 sans-papiers in un aeroporto, non per fare le pulizie ma per battersi, è potente. Ne hanno molto parlato, ha dato coraggio a tutti quelli che considerano l’aeroporto come lo spettro della frontiera e che si sono riappropriati di questo spazio con determinazione. La paura scompare: nessun arresto, blocco effettivo dell’aeroporto … All’interno emergeva anche la questione del lavoro, quindi abbiamo deciso di colpire gli attori del razzismo di Stato: le imprese che lavorano nei CRA, nelle prigioni…

 

PEM: Come vi siete organizzati concretamente all’inizio? E come si sono evolute le forme di organizzazione?

V: I Gilets Noirs, non sono un collettivo, sono un movimento. Possiamo fare parte di un altro collettivo ed essere comunque nel movimento, semplicemente la linea è quella di seguire l’orientamento strategico e le decisioni prese in assemblea. Per esempio, all’assemblea alla Bourse du travail nel gennaio 2019, abbiamo deciso di smettere di parlare direttamente con le prefetture, ci siamo detti che dovevamo colpire più in alto e abbiamo avuto l’idea del Primo Ministro. All’assemblea eravamo 700, non c’era più posto alla Bourse, ci sono un sacco di persone che non sono potute entrare! Le decisioni a breve termine che riguardano la tattica e l’organizzazione si prendono in delle riunioni di referenti più ristrette — 50-60 persone -–con due o tre referenti per foyer che si danno il cambio: il referente organizza delle riunioni nel proprio foyer per discutere della strategia, poi va alla riunione dei referenti dove vengono date le decisioni tattiche, e torna ai foyer per informare tutti quanti. Non possiamo fare delle assemblee con tutti troppo spesso.

D: Tutto è cambiato molto rapidamente. I Gilets Noirs sono una specie di incidente. All’inizio la Chapelle Debout voleva semplicemente aiutare nel rapporto di forze per vincere delle negoziazioni in materia di regolarizzazione collettiva con altri collettivi di sans-papiers. I membri della Chapelle Debout hanno cominciato a spostarsi per fare delle riunioni nei foyer e preparare insieme la marcia di novembre contro la reclusione degli/lle stranierx. In quel momento, avevamo un’unica assemblea, ma la forma della mobilitazione ha fatto sì che molto velocemente un sacco di gente arrivasse, e che questo eccedesse i limiti dei collettivi di sans-papiers esistenti per trasformarsi in movimento. Dunque ora facciamo anche delle riunioni per foyer o per gruppi di foyer.

B: Siamo più di mille ora, quindi è necessario un referente per foyer, e quando questi referenti vanno nei foyer, non è soltanto per rivolgersi ai militanti che si trovano là. Cerchiamo di parlare a tutti i sans-papiers, facciamo dell’informazione porta a porta, inviamo dei messaggi per avvisare delle riunioni. Nel nostro foyer, abbiamo persino trovato delle persone che hanno dei documenti ma che vogliono sostenerci perché sono colpiti dalla nostra lotta.

K: Dal 31 gennaio ho incontrato la gente della Chapelle Debout e sono diventato referente. A partire da quel momento, mi sono detto che dovevo assumere le mie responsabilità. Quindi: ci si organizza con altri foyer, quando si va in assemblea ci si danno delle istruzioni. Cerchiamo di restare discreti: i luoghi degli appuntamenti per le azioni sono sempre tenuti nascosti fino all’ultimo momento. E si parte! A chi si scoraggia, cerchiamo di far capire che nella lotta non si vince sempre e che bisogna saper resistere a situazioni difficili.

 

 

PEM: Il foyer assume quindi un ruolo fondamentale nell’organizzazione della lotta

D: Ci teniamo che la lotta attraversi i foyer che sono dei luoghi di vita, perché secondo gli sfruttatori tipo Coallia, Adoma, ADF e tutti gli altri, il foyer è solo il luogo dove, dopo aver lavorato tutta la giornata, si torna in camera per ammucchiarsi in quattro o anche in sette, per poi semplicemente dormire e ritornare a farsi sfruttare il giorno dopo. L’obiettivo di mantenere questi luoghi come basi organizzative, è di renderli dei luoghi politici, o piuttosto, di esplicitare ciò che hanno di politico. Per forza di cose questi gestori di foyer tentano di rompere questo movimento, in primo luogo autorizzando la polizia a entrare e fare arresti. È un grave problema che capita spesso: c’è un compagno che è stato arrestato nella sua stanza e che si trova attualmente in CRA in vista di essere deportato in Senegal. Ormai sopprimono in maniera sistematica anche gli spazi comuni nei foyer, che siano le cucine, le sale per le conferenze o le stanze per la preghiera; in alcuni foyer, è arrivata una lettera di Coallia che minacciava di chiamare la polizia se il commercio all’ingresso dei foyers non fosse finito. Fare assemblee in questi foyer è quindi una forma di resistenza diretta

K: A volte ci vietano di scegliere la persona con la quale viviamo, con il pretesto che dobbiamo essere uno per camera. Allora io dico a questa gente: immaginate che vi si impedisca di vivere con vostro figlio! Pago un affitto e ho il diritto di vivere con i miei genitori! E non ci sono stanze di preghiera

V: Il foyer è l’unità di base dell’organizzazione ma non ci dimentichiamo di coloro che dormono per strada, coloro che fanno parte di altre comunità, infatti subito è apparso questo slogan “né strada, né prigioni” per dire che è una lotta per avere un alloggio decente, ma anche per denunciare che questi foyer sono gestiti in un’ottica carceraria.

 

PEM: Parlate di un’organizzazione che diventa sempre più articolata man mano che il movimento acquisisce forza. Come fate a mantenere l’esigenza di efficacia e orizzontalità? Come si costruisce concretamente l’autonomia del movimento

B: Nelle nostre riunioni nel foyer, coloro che sono stati scelti come referenti non contano più degli altri. Se una proposta non piace, decidiamo insieme come fare qualcos’altro. Alcuni credono ancora che la gente lotti per il referente, perché solo lui possa ottenere i documenti, ma io gli dico chiaramente che nessuno mi paga, che io lavoro per tutti. L’abbiamo fatto ben capire e la gente comincia a fidarsi; la fiducia per questo tipo di organizzazione è cruciale. Io dico: «Non vi mentiamo, riporto qui esattamente quello che ascolto». È così che funziona, la fiducia. Bisogna avere coraggio per essere referenti, è un lavoro, potrei essere il figlio di alcune persone del mio foyer e però loro mi riconoscono del coraggio.

V: L’autonomia dei Gilets Noirs si costruisce. C’è un principio: quando c’è una delegazione, non sono i francesi che vanno a negoziare. Bisogna che i sans-papiers sappiano che anche loro possono dichiarare una manifestazione (basta un nome e un numero di telefono), che possono negoziare direttamente con i padroni, che possono fare il dossier da deporre in prefettura. Quello che ci interessa, è che tutti imparino a costruire un dossier in vista di una regolarizzazione e possano in seguito spiegarlo agli altri. È la costruzione di un sapere e di pratiche comuni.

K: come funziona? Per esempio, il 12 giugno 2019 abbiamo occupato la Torre Egée alla Défense, cioè la sede della società Elior, per parecchie ore. Era la seconda azione della campagna “Gilets Noirs cercano un Primo Ministro”. Quando preparavamo l’azione, alcuni non erano con noi, erano al corrente ma non li interessava veramente. Ma dopo l’enorme successo, ovvero quando hanno visto che aveva pagato e che potevamo vincere delle cose, sono venuti da noi… e parteciperanno alle prossime iniziative. Parlo spesso con dei giornalisti, quindi la gente si interessa a me, il mio nome circola e si finisce per dire «se hai un problema, vai da lui», come se fossi il capo mentre sono solo un membro del movimento. Posso solo cercare di spiegare alla gente quello che so, far girare le informazioni, io stesso sono diretto dalla Chapelle Debout.

D: Diretto? (Ride)

K: No, ma io, prima di gennaio, non sapevo niente, quindi sono obbligato a ascoltare ciò che viene detto. Lì ho trovato della gente e visto che ho il tempo, partecipo a tutte le assemblee, tutte le manifestazioni. C’è gente con più esperienza, e visto che sono sempre presente la gente mi contatta.

D: Nella Chapelle Debout ci sono sempre stati dei sans-papiers e degli ex sans-papiers, dei francesi e dei non-francesi, dei figli e delle figlie di immigratx.

 

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PEM : Al posto di definirvi a partire dalle vostre situazioni amministrative e status o, per esempio, come abitanti dei foyers, avete scelto il nome Gilets Noirs, un nome che fa eco al movimento dei Gilets Jaunes. perché?

B: infatti, abbiamo effettivamente creato i Gilet Noirs il 16 marzo, intendo la formula “Gilets Noirs”. K., che ha scelto questo nome, ha detto che se ci sono dei Gilets Jaunes, allora bisogna che noi siamo i Gilets Noirs. Il 19 maggio, all’aeroporto, il nome ha veramente preso: tutti urlavano “Gilets Noirs! Gilets Noirs!”. È a quel punto che abbiamo cominciato a ricevere mail, messaggi, che ci chiedevano: «allora Gilets Noirs, qual è la vostra lotta?»

K: I Gilets Jaunes sono veramente un movimento molto potente: tutti i sabati, c’era addirittura l’esercito conto i GJ. Anche noi volevamo dare questa forza al movimento dei sans-papiers, quindi abbiamo ripreso il simbolo del gilet, solo che il nostro si è annerito dalla rabbia, perché viviamo in una prigione! Qui siamo prigionieri: non abbiamo un alloggio, è una prigione, i foyer, sono delle prigioni. perché abbiamo pochi diritti, ce li cancellano tutti: basta stanze di preghiera, basta stanze per le riunioni, ci impongono le nostre camere e la nostra solitudine. Quindi Gilets Noirs per rimanere arrabbiati e potenti. Come dicono i più esperti, quello che è difficile è continuare ad esserlo! Non è difficile essere Gilets Noirs, ma per continuare ad esserlo bisogna mantenere il movimento, far paura allo Stato e alla polizia francese, dare loro delle preoccupazioni. Da quando abbiamo creato questo movimento all’aeroporto, hanno parlato di noi in Inghilterra, in Germania, in Portogallo, in America. Ci siamo detti che bisognava approfittare del momento, e abbiamo inanellato altre azioni, per colpire più forte. Per esempio, il prefetto ci ha mentito, quindi colpiamo il suo fratello maggiore, il primo ministro.

D: Abbiamo fatto il collegamento con i Gilets Jaunes a partire da una constatazione molto semplice: nell’immaginario della sinistra, la lotta dei sans-papiers è concepita come un po’ a parte, un settore particolare composto da persone che lottano solamente per avere uno status amministrativo, con delle motivazioni puramente individuali. Da molto tempo, la sinistra pensa che la solidarietà si riduca a andare a cantare una volta l’anno “So-so-solidarietà con i sans-papiers!”. Vogliamo far uscire questa lotta dal ghetto politico nella quale è stata rinchiusa, e re-inserirla in un movimento sociale, per mostrare che la causa di un immigrato può essere la causa di chiunque, sans-papiers o no, immigrato o no. È una lotta generale tanto quanto una lotta per la dignità dei lavoratori o contro il carovita… L’idea è quella di aggregare tutte le forze presenti, non in una postura di sola solidarietà ma piuttosto di causa comune, con degli obiettivi comuni. È un movimento sociale che non è stato risparmiato dalla repressione. Da quando abbiamo cominciato, abbiamo molti compagni rinchiusi in CRA, altri che sono stati deportati in Italia, Spagna, Senegal, Costa d’Avorio, altri che sono riusciti a tornare grazie alle reti politiche internazionali. Le persone nelle prigioni per stranierx sono prigionieri politici allo stesso modo che i Gilets Jaunes, sono militanti attaccati dallo Stato perché difendono una causa! E non è un caso che sia la categoria di popolazione più colpita dalla repressione, perché delle/degli immigratx che si organizzano disturbano il potere.

V: È sorprendente vedere come dei militanti francesi hanno descritto il movimento dei Gilets Jaunes dicendo che era razzista, mentre i Gilets Noirs hanno subito riconosciuto che si tratta di un movimento popolare e potente da cui bisogna prendere ispirazione.

K: Io non lo vedo il razzismo dei Gilets Jaunes, il razzismo è dello Stato… I Gilets Jaunes si battono contro lo Stato, quindi non possono essere razzisti, noi copiamo i Gilets Jaunes.

D: All’inizio del movimento dei Gilets Jaunes, avevamo appena fatto questa azione alla Comédie Française, e ci siamo detti: «È sconvolgente, queste persone che attaccano degli aeroporti, come a Nantes, o che bruciano delle prefetture, come a Puy, hanno delle pratiche di sostegno ai sans-papiers dieci volte più radicali che tutti i nostri collettivi di sostegno» (ride). Nel testo per la Comédie Française, avevamo scritto: «Grazie a quelli che occupano le rotonde e che attaccano gli aeroporti dove ci deportano, e le prefetture dove ci ammanettano». E continuiamo a ringraziarli. Abbiamo dei rapporti con delle assemblee di Gilets Jaunes e dei coordinamenti regionali, che vanno molto bene, abbiamo un ruolo da svolgervi per ricordare la centralità della nostra battaglia. Saremo in tutti i movimenti che attaccano con direttamente lo Stato razzista. C’è intelligenza nell’azione comune tra Gilets Jaunes e Gilets Noirs: si vede dagli obiettivi che scegliamo, sono due lotte per la dignità nelle quali abbiamo dei nemici comuni.

 

PEM : Come e perché avete scelto il secondo obiettivo della campagna, Elior?

V: C’era anche la questione del lavoro. Abbiamo deciso di colpire gli attori del razzismo di Stato: le imprese che lavorano nei CRA, nelle prigioni…

K:Da quando abbiamo vinto all’aeroporto, le persone hanno cominciato a conoscerci e ci siamo detti che era il momento di cercare un’impresa che sfrutta i sans-papiers per attaccarla, perché nonostante la prima lotta sia per ottenere i documenti, ci sono anche altre cose: persone ammazzate, persone che vivono in condizioni insalubri, licenziamenti. Quando attacchiamo un’impresa e vinciamo, guadagniamo terreno, perché altre imprese avranno paura di maltrattare i sans-papiers e parallelamente i sans-papiers prenderanno fiducia nella loro forza. Ricevo dieci chiamate al giorno di gente che lavora da Eloir, per esempio, che mi dicono: «Non sapevo ci fosse una lotta ma vorrei essere sulla lista delle regolarizzazioni», e che vogliono battersi con noi.

D: Il senso della campagna è, attraverso ogni obiettivo, mettere in luce la condizione dei sans-papiers, affermando allo stesso tempo che la condizione di sans-papiers, è più che un’ingiustizia amministrativa. Gli obiettivi illustrano cos’è questa oppressione e il business che ci sta attorno: Air France, per esempio, guadagna milioni deportando la gente coattivamente, drogandoli, maltrattandoli, come questo algerino morto in Svezia durante una deportazione, vittima della stessa tecnica d’immobilizzazione che ha ucciso Adama Traoré a Beaumont. Ma c’è anche la questione del lavoro, delle condizioni deplorevoli, imprese che assumono sans-papiers per la pulizia dei CRA: Elior, Onet, Gepsa, Engie (vecchio GdF), un’impresa pubblica che fa lavorare dei sans-papiers nelle celle dei CRA! Durante le riunioni, i temi del conflitto sul lavoro e della regolarizzazione tramite il lavoro non emergevano tanto, ma abbiamo scelto Elior perché tutti quanti siamo d’accordo su una cosa: Elior è un’impresa che fa lavorare dei sans-papiers contro dei sans-papiers e questo è inaccettabile! In generale, speriamo di mettere in luce come lo Stato e le imprese organizzano insieme lo sfruttamento dei lavoratori sans-papiers. Lo Stato dice: «State zitti, lavorate come dei cani e il padrone vi farà un Cerfa [documento necessario per poter deporre in Prefettura un dossier di regolarizzazione per questioni lavorative, ndt] dopo 24 mesi, attestando che vi ha assunti». Ma quando chiediamo il Cerfa, il padrone dice: «Stai zitto o ti licenzio». E quando andiamo in prefettura, ti dicono: «Niente Cerfa, niente documenti». I padroni quindi sono al cuore della produzione di sans-papiers. È un gioco a due, non ci sarebbe sfruttamento se non ci fossero la prefettura e i padroni: i padroni illegalizzano e sfruttano la gente, la prefettura organizza questo sfruttamento lasciando queste persone sans-papiers.

B: Se hanno bisogno di te, ti tengono, ma se chiedi il Cerfa, ti licenziano. Dopo tu torni e ti fanno dicono che quella situazione è vantaggiosa per tutti: tu hai bisogno di soldi e loro ti assumono anche se non hai il documento, purché tu lavori e chiudi il becco. È sempre così!

K: I sans-papiers, nella maggior parte dei casi, hanno paura di essere licenziati. Durante la campagna ad esempio, chiedevamo alle persone dove lavoravano, ma non sempre ce lo dicevano, per paura di essere licenziati; ma con il movimento, l’attacco a Elior, alcuni si sono svegliati, anche se altri non hanno ancora fiducia. La prefettura non ha mantenuto la sua promessa e, in più, gli appuntamenti ufficiali per deporre i dossier sono venduti! Alcuni impiegati si fanno pagare in contanti. Si fanno pagare 700 euro per avere un appuntamento più velocemente. C’è tutto un business di rivendita degli appuntamenti in prefettura nel mercato nero! Ci sono anche stati degli articoli della stampa su questo fatto. È necessario che finisca. Anche se la prefettura non lo organizza in maniera diretta, è responsabile delle azioni dei suoi dipendenti corrotti. Questo aumenta la difficoltà.

D: Il movimento è anche un modo per fare dei collegamenti tra la Francia metropolitana e i nostri paesi di origine, nella maggior parte dei casi vecchie colonie francesi. Nel nostro comunicato per l’azione a Elior, è stato scritto che la Défense rappresenta il cuore dell’imperialismo, al quale partecipa Elior, ma anche Thalès, Safran, che vendono le armi per fare la guerra in Africa e altrove. Fare politica in Francia contro questi nemici ci consente di fare collegamenti con le lotte nei nostri paesi di origine, come il Sudan. Con dei sudanesi abbiamo fatto delle azioni anti-deportazioni per impedire che dei compagni venissero deportati in Sudan. Anche l’Iftar è stato organizzato con dei compagni sudanesi, l’associazione Ila al-Amam («in avanti») in particolare, i collettivi di ciadiani che lottano contro l’ingerenza francese nel loro paese. Cerchiamo di mettere in luce perché tutto il movimento dell’immigrazione deve assumere che lottare contro il razzismo qui, è sempre attaccare dei nemici che abbiamo in comune con i rivoluzionari di tutti questi paesi. La solidarietà serve per dire che la gente non è più sola. Conoscere i nostri diritti significa anche che, adesso, quando una persona ha un OQTF [decreto di espulsione dal territorio francese, ndt] in un foyer, non si vergogna di dirlo, non lo nasconde più; lo dice, contattiamo degli avvocati che lavorano come volontari con noi. Siamo riusciti a far saltare decine di OQTF dall’inizio del movimento, e ormai ci sono regolarmente dei presidi davanti alle prigioni, delle visite ai prigionieri. È autodifesa quotidiana contro il sistema burocratico francese. Tutte queste procedure come gli OQTF, hanno per obiettivo di isolare gli individui che si dicono «Ho la mia merda, mi gestisco la mia merda». Ormai ce ne prendiamo collettivamente carico per rompere questo isolamento, per aprire degli spazi in cui abbiamo il tempo e lo spirito di farlo, insieme.

 

PEM : Come si è svolta la negoziazione con Elior? Cosa volevate ottenere?

B: Ci hanno preso in giro in tutti i sensi : la direzione ha voluto farci credere che non c’erano sans-papiers che lavorano per loro, mentre sappiamo che ci sono dei finti documenti, delle sostituzioni, degli scambi. Molta gente lavora con i documenti di qualcun altro o con dei falsi documenti.

D: Non ci andavamo nell’ottica di un conflitto sul lavoro, ma piuttosto di rivendicazione del diritto alla dignità, contro lo sfruttamento dei sans-papiers da parte di altri sans-papiers e contro la partecipazione degli uni nella prigionia degli altri. È ciò che risulta dal testo che abbiamo scritto tutti assieme. Ma quando abbiamo dovuto negoziare, la direzione ci ha subito chiusi in un quadro di conflitto sul lavoro, tipo negoziazione sindacale, dandoci dei Cerfa, che abbiamo preso ovviamente, perché l’obiettivo è anche quello di ottenere qualcosa di concreto. La cosa interessante è che si pensa che i sans-papiers non possano rivendicare niente oltre ai documenti. Ci si rifiuta di pensare che che possono reclamare altre cose, portare delle parole d’ordine universali come la dignità, la chiusura delle prigioni, non hanno il diritto di rivendicare delle cose politiche più generali. È questa logica che abbiamo cercato di rompere!

 

 

PEM: è per questo che non volete definire questa lotta come una lotta di sans-papiers? Questo movimento ha l’ambizione di riconfigurare le relazioni e le condizioni delle alleanze tra le lotte dei sans-papiers, i movimenti dei quartieri popolari e le altre lotte sociali?

V: Le lotte autonome devono spesso occupare di conciliare le lotte della vita quotidiana con quelle che combattono il sistema. Rivendicare documenti per tutti, regolarizzazioni collettive, va insieme alla lotta contro il sistema che produce i sans-papiers. È una lotta per la libertà di circolazione e d’installazione, parole d’ordine nate nelle lotte dei sans-papiers. Un referente di foyer criticava anche il termine sans-papiers dicendo: «Ci chiamano così quando lottiamo, ci chiamano sans-papiers come se fosse una vergogna, anche se di papiers [documenti] ne abbiamo moltissimi, solo che non sono quelli giusti». La Chapelle Debout alla base fa antirazzismo e si ispira anche a quello che è stato fatto nel passato nelle lotte dei sans-papiers autonomi del 1996, a Saint-Ambroise e Saint-Bernard [XX], e ancora prima nelle lotte contro la doppia pena [XX] e le lotte in banlieue, come quelle del Mouvement de l’Immigration et des Banlieues (MIB). L’attività del collettivo è cominciata con le lotte negli accampamenti nel 2015, con la creazione delle Brigate Anti-Retata, poi le Brigate Anti-Deportazione, e poi la lotta per i documenti è arrivata subito, per rispondere al trittico repressivo retata-reclusione-deportazione che sta al fondamento delle politico migratorie dello stato francese.

D: Quello che mi ha sempre colpito, è che nella storia delle lotte dell’immigrazione e delle lotte dei quartieri, la lotta era quella dell’immigrazione in senso largo, quindi ad esempio si lottava contro ad esempio contro le violenze della polizia, si formavano immediatamente dei comitati contro le espulsione e delle azioni anti-deportazione per evitare che gli abitanti dei quartieri fossero deportati [perché sprovvisti della nazionalità francese, ndt]. Nei primi numeri del giornale del Movimento dell’Immigrazione e delle Banlieues (MIB), chiamato L’écho des cités, i tre quarti dei testi e delle rivendicazioni si occupano di soggiorno e espulsioni, tutti erano “immigrati” negli anni 80. Oggi però quando si parla delle lotte contro le violenze poliziesche, ad esempio, ci si riferisce agli “abitanti dei quartieri popolari” e non agli immigrati. E per parlare di immigrati che arrivano oggi, si dice migranti, sans-papiers, richiedenti asilo o esiliati secondo il proprio livello di gauchismo e secondo qual è il termine più alla moda. Noi diciamo “immigrati”: i genitori che sono arrivati 30 anni fa e quelli di oggi, stessa merda. La categoria che legava queste due lotte, l’ “immigrato”, è sparita. Non si parla più di sans-papiers nei quartieri, ma tutti i foyer mobilitati oggi si trovano in delle cités [grandi condomini popolari costruiti per lo più negli anni 60–70, e collocati soprattutto in periferia, ndt], e sono gli stessi sbirri che arrestano, molestano e uccidono Neri e Arabi, con o senza documenti. Si tratta di un’evidenza quando si conosce la storia di queste lotte. Ma è nata una divisione, e una cosa è chiara: è una divisione instaurata dallo Stato, e vogliamo abbatterla, lottiamo per re-inscrivere questa categoria d’immigrato in senso largo, che include violenze poliziesche, illegalizzazione, sistema carcerario e lotte di classe, tutto questo si trova nella lotta degli/delle immigrat* sans-papiers, che è una lotta totale, non soltanto per un pezzo di carta. In certi foyer, si cerca di organizzare comitati di quartiere per creare legami tra abitanti dei quartieri e abitanti dei foyer di quartiere. Questo mi colpisce e vorrei fare: questo legame.

V: c’è anche un’altra cosa che vogliamo combattere nella maniera in cui le lotte si pensano e si organizzano attualmente: bisogna smettere di considerare, quando si è militanti coi documenti in regola, che la sola cosa che si possa fare per i sans-papiers è del sociale, come accompagnarli in prefettura e nelle pratiche individuali, e che non si possa lottare insieme. Nel milieu [militante, ndt] oggi, ci sono due “criteri” per criticare una lotta di immigrat* sans-papiers. Per prima cosa c’è sempre la questione: i migranti sono manipolati? È razzista pensare che i migranti siano per forza manipolabili… È un argomento da fascisti, da sbirri o da padroni! Diremmo a degli operai in sciopero che sono manipolati dai sindacati o dai militanti? Invece con i migranti, succede sempre. Non hanno diritto a un’opinione politica o a delle scelte strategiche. Secondo, c’è quest’idea che se ci riguarda direttamente, non ci si può mobilitare, perché «si mettono in pericolo i sans-papiers». Si recrimina sempre che i sans-papiers vengono messi in pericolo con le azioni, come se i sans-papiers stessi non sapessero cosa fanno quando lottano, e poi come se non fossero già tutti in pericolo sempre, uscendo dal lavoro o prendendo la metro. Al contrario, far parte di una lotta politica significa uscire dall’isolamento, organizzarsi insieme permette di proteggersi, di praticare l’autodifesa. Sono tutte scuse per rifiutare la lotta degli/delle immigratx senza documenti, perché non è abbastanza sexy, perché ci sono delle cose da perdere per le persone che posseggono dei documenti, degli interessi di classe e di razza in particolare. Bisogna uscire da questi due riflessioni che ci fanno ritornare a un umanitarismo paternalista

D: per tutte queste ragioni, invitiamo tutti i settori in lotta a sostenere il movimento, perché tutte le lotte sono incarnate in questo movimento dei Gilet Neri: la lotta contro il razzismo di Stato e l’imperialismo, contro lo sfruttamento salariale, la lotta anti-carceraria, le lotte antifasciste. Bisogna sostenere questo movimento perché riguarda tuttx. A proposito della buona posizione da adottare per i militanti che hanno i documenti, diciamo: «né dietro, né per, né davanti, ma insieme e con i compagni». L’immigrato non è una vittima da aiutare, o un selvaggio da cacciare, è un soggetto politico che lotta per la dignità! I militanti che hanno i buoni documenti e fanno parte del movimento, non né degli umanitari, né dei salvatori, ma dei compagni che lottano spalla a spalla con i compagni coi documenti sbagliati, contro il razzismo. Abbiamo lanciato la campagna “Gilet Neri cercano un primo ministro”; c’è una petizione, e poi, lo diciamo chiaramente, l’obbiettivo è di andare a parlare con il primo ministro e negoziare. Non vogliamo parlare con il ministro dell’Interno, perché vogliamo uscire dalla tutela poliziesca imposta a queste lotte, vogliamo affermare la dimensione politica della nostra lotta e andare a negoziare la regolarizzazione di tutt* i/le sans-papiers presenti in Francia con il primo ministro.

B: in ogni caso adesso abbiamo un sacco di sostegno, tutti vogliono lavorare con noi! C’è questo vecchio che vive nel mio foyer e sta in Francia dal 1963, riconosce la specificità del nostro movimento, riconosce il nostro coraggio. Andremo fino in fondo senza mollare.

In seguito a questa intervista, i Gilets Noirs hanno fatto molto parlare di loro occupando il Panthéon il 12 luglio 2019. L’obiettivo era di occupare un luogo simbolico potente appartenente allo Stato e restarci, molte notti se necessario, per ottenere un appuntamento con il gabinetto del primo ministro, per cominciare delle negoziazioni per ottenere dei documenti per tutti, uscendo dalla selezione caso per caso, cercando di rompere i criteri prefettizi. L’obiettivo era anche di denunciare la violenza delle frontiere e di rendere omaggio ai/alle mortx in Mediterraneo o durante il viaggio, sottolineando che era proprio lo Stato che profanava questi morti organizzando la violenza razzista sugli/sulle immigratx, non i Gilets Noirs che “hanno profanato” il Panthéon. L’azione è stata un successo perché 700 Gilets Noirs hano occupato il Panthéon, la polizia sul luogo ha trasmesso le rivendicazioni e la domanda di appuntamento a Matignon [Palazzo del primo ministro, ndt]. Ma Edouard Philippe ha preferito ignorare questa richiesta e twittare a proposito del “ristabilimento dell’ordine pubblico” dopo l’espulsione. Dopo c’è stata una forte repressione all’uscita dal Panthéon, di cui i media hanno parlato molto. Questa repressione non ha indebolito in niente il movimento: tutti gli arrestati in CRA sono usciti e non sono stati deportati, grazie all’autodifesa giuridica e politica del movimento e grazie alla solidarietà di tuttx. I/le feritx sono statx curatx dai Gilets Noirs e si sono successivamente riuniti in assemblea generale per decidere di continuare la lotta, e per affermare che questa repressione non aveva spaventato nessuno. La rabbia e la determinazione dei Gilets Noirs sono soltanto più forti.

I Gilets Noirs hanno bisogno di sostegno sul campo durante le azioni ma anche di sostegno finanziario per organizzare la loro autodifesa. Per sostenere i Gilets Noirs, una raccolta fondi è stata creata, da diffondere largamente: https://www.lepotsolidaire.fr/pot/v346wpgn

 

Traduzione di un’intervista apparsa sul sito di Plateforme d’Enquêtes Militantes