MONDO

Siamo furiose ed euforiche. Ed hanno paura di noi.

L’assoluta assenza di considerazione implicita nella decisione di respingere il progetto di legalizzazione dell’aborto da parte del Senato argentino ripete – e ci ricorda – una scena che conosciamo bene: quella scena domestica in cui tutto lo sforzo che facciamo sembra divenire invisibile, quasi come se non esistesse, se non contasse.

Così hanno voluto ripetere dal parlamento ciò a cui il patriarcato da secoli vuole che ci abituiamo: un atto di disprezzo per sminuirci, in cui il nostro potere non entra nel gioco, non conta.

Ma il dispiegamento del movimento femminista attuale fa sì che a questo scenario di sottomissione ed invisibilizzazione noi non torneremo  più. Proprio dalla certezza dell’impossibilità di un ritorno indietro e dall’irreversabilità del potere che abbiamo conquistato deriva la nostra furia. Ed è sempre a partire da questa certezza che affermiamo: “non torneremo mai più alla clandestinità!”.

Il disprezzo è stato contundente. E si è rivolto alla moltitudine femminista che inondava la città: alla mobilitazione di massa, effervescente, popolare, eterogenea, intergenerazionale, sostenuta per ore contro la pioggia e contro il vento (solamente da Rosario sono arrivati 110 pullman!). Non possiamo negare che sentiamo questa come una burla, una offesa, un brutale tentativo di disciplinamento. Anche da questo deriva la nostra furia.

Il rifiuto del Senato ricalca lo stesso schema della storica invisibilizzazione che si fa delle nostre attività, dei modi in cui produciamo valore, di tutto il lavoro che facciamo affinché il mondo si produca e si riproduca, dei nostri modi di tessere socialità e cura collettiva che è stato sistematicamente ignorato nei conti di tutte le democrazie.

Proprio perché conosciamo questo metodo con cui ci sminuiscono e ignorano e perché contro questo abbiamo costruito un grido comune che dice “ora sì che ci vedono” (uno degli slogan principali del movimento femminista in Argentina, ndt) non permetteremo che ci invisibilizzino nuovamente. Dalla gola, dalla ripetizione con convinzione di questo grido, anche da qui deriva la nostra furia.

 

Perché questa invisibilizzazione –che è un regime di visibilità specifico- si fa a costo di espropriare la potenza stessa dai nostri corpi mentre si “sfrutta”, si trae beneficio, dalla nostra rappresentazione.

 

I senatori non smettono di parlare a nome nostro, di legiferare sui nostri desideri, sulle nostre maternità mentre fingono che non esistono i quasi due milioni di corpi che fuori dal Congresso non hanno mai smesso di farsi sentire e di manifestarsi. Da questo intento di continuare a controllare le nostre decisioni vitali con la forza di un potere delle élite, anche da qui deriva la nostra furia.

 

 

In questo senso, lo scenario dell’8 agosto ci presenta la nitidezza storica di un potere già invertito: non c’è obbedienza a questa assenza di considerazione. Non c’è sottomissione all’invisibilità. Non c’è rassegnazione al fatto che non contiamo nulla. Non c’è, di nuovo, la disponibilità ad essere escluse o infantilizzate e dunque tutelate della democrazia. Quella forza di piazza che l’8 agosto ha occupato le città è un potere politico fatto di corpi non tutelati e non addomesticati. E tutto questo si traduce in termini spaziali: noi siamo già uscite dalla clausura domestica.

 

Noi costruiamo altri territori domestici che non ci obbligano al lavoro gratuito non riconosciuto e che non pretendono da noi promesse di fedeltà al marito-proprietario.

 

Noi occupiamo le strade e le convertiamo in case femministe. L’8A quelli che erano reclusi erano loro, mentre noi occupavamo la città. Perché anche questa è una inversione che fa la storia? Il confinamento- il pretesto principale della clausura domestica – gli si è ritorta contro.

I senatori erano rinchiusi, protetti da ringhiere, ad annunciare che il voto si sarebbe dovuto accelerare per non ritardare la repressione della polizia. Sarebbe a dire, facendo presente che avevano già messo in conto che il loro voto sarebbe stato sostenuto con la repressione di stato e con un tentativo di disciplinamento della rabbia popolare. Fuori, lo spazio politico riorganizzato e reinventato a cielo aperto per una marea che sarà indimenticabile per tutt* quell* che eravamo lì presenti.

La pochezza del recinto – vecchio e decadente- in contrapposizione con l’accampata che costituivano queste case e accampamenti aperti, sperimentazioni di un’altra dimensione domestica e di cura. Questa inversione spaziale traccia una cartografia politica di nuovo tipo. Smonta la tradizionale opposizione tra la casa come spazio chiuso ed il pubblico come il suo opposto: stiamo costruendo case aperte alla strada, al quartiere, alle reti comunitarie ed un tetto e delle pareti che danno rifugio e riparo senza chiudere.

 

Questo è un bilancio pratico che emerge dalla realtà concreta: moltissime case, intese in senso patriarcale, si sono trasformate in un inferno; sono i luoghi piú insicuri e dove si commette la maggior parte dei femminicidi, oltre che un infinito numero di violenze “domestiche” e quotidiane.

 

Con questa nuova forma di costruire politica quasi non serve cantare che non ci rappresentano o fare una versione femminista del ¡que se vayan todos! Abbiamo già superato questa meta. È evidente che il regime di rappresentazione che si sostiene con le spalle rivolte alle piazze non ha nulla a che vedere con il modo femminista di fare politica e di fare storia. Ma ancor di più, si è dimostrato che la politica si sta già facendo in altri territori, che hanno la forza per produrre uno spazio domestico non patriarcale.

 

 

Torno alla furia. Sentiamo nausea, schifo, ripugnanza nell’ascoltare l’ignoranza e la violenza di alcune frasi dei senatori. Che possa esistere uno stupro senza violenza, perché accade nell’ambito della famiglia, come ha detto Rodoldo Urtubey (Partito Justicialista – Salta) è di nuovo il sintomo di ciò che voglio argomentare: che, anche nel Parlamento, stiamo parlando della scena domestica. Che ciò che succedeva nel recinto – il presunto spazio della sfera pubblica- non è né piú né meno che il tentativo disperato di mantenere la casa come il regno patriarcale di fronte all’emergere di una politica che costruisce altre forme e smonta la divisione tra pubblico e privato che gerarchizza uno spazio contro l’altro.

Cosa vuol dire questo? Ció che il senatore Urtubey (di cui occorre esigere l’immediata espulsione) ha reso esplicito senza giri di parole: che la casa, nel senso patriarcale, è il luogo dove lo stupro è permesso. Perché la casa si costituisce come un “privato” quando legittima l’accesso violento e privilegiato da parte degli uomini al corpo delle donne e ai corpi femminizzati (che include i bambin*). Il privato qui è ciò che garantisce il segreto e la legittimità (ciò che il senatore chiama “non violenza”) della violenza. È anche ciò che permette la famosa “doppia morale”.

 

Stiamo qui nel cuore del luogo in cui si organizza, come ha segnalato in maniera pionieristica Carole Pateman, il patto patriarcale: una scommessa sulla complicità tra maschi che poggia su questa gerarchia che nelle nostre democrazie si trasforma in una forma di diritto politico.

 

Nel patto patriarcale c’è una divisione sessuale dei corpi: il corpo maschile si presenta come corpo razionale ed astratto, ma si rivendica con capacità di gestare. Cosa è che gesta? Ordine e discorso per legittimare la sua superiorità ed espropriare la sovranità sulla gestazione dal corpo delle donne. Ciò che c’è quindi, è una lotta per il potere di gestazione perché l’ordine politico patriarcale si fonda su di questa espropriazione.

Questa espropriazione implica una subordinazione specifica e si traduce in potere dentro le case: è il potere di stupro sul corpo femminile o femminilizzato come struttura dell’ordine patriarcale. Questo è il patto che i senatori hanno ratificato la mattina del 9 di agosto e che funge da pietra angolare di tutti i privilegi. Si è ratificato il potere maschile sul corpo delle donne che vede, insisto, nello stupro il suo atto fondativo.

 

La scena teologica

Questo scenario parlamentare ci rimanda direttamente ad un altro. Il voto negativo ratifica la sottomissione del Parlamento al potere teologico, diventando il teatro della Chiesa Cattolica per riaffermare il suo potere in decadenza. Lo ha detto chiaramente il senatore Pedro Guastavino (del Blocco Giustizialista della provincia di Entre Ríos) in modo colloquiale: i senatori che si erano pronunciati a favore dell’aborto hanno dovuto “schivare i crocifissi”, minacce al telefono e messaggi vari da parte di quella mafia che si autodenomina celestiale. Con il referendum in Irlanda, con la mobilitazione in Polonia e la marea femminista in Argentina, la Chiesa Cattolica, apostolica e romana – si, quella a cui abbiamo dedicato divensi canti in piazza – soffre l’offensiva in paesi che sono stati emblemi della sua fede.

 

Oggi l’Argentina ha una sua particolarità: è la terra del Papa. Le operazioni politiche della Chiesa contro il femminismo, guidate da Bergoglio, tentano di provocare divisioni nelle organizzazioni sociali e boicottare la forza di un movimento che si sta costeruendo dal basso, che è popolare e anti neoliberale.

 

Ho già preso parola sulla contesa per la spiritualità politica che la Chiesa – sia cattolica che altri fondametalismi religiosi – sta soffrendo, come mai avvenuto prima, rispetto ai femminismi attuali, quando ho scritto a proposito del voto alla Camera dei deputati.

Dopo il trionfo nella camera bassa, la controffensiva della Chiesa si è rafforzata. Le omelie durante i festeggiamenti della patria del 9 luglio sono stati, in vari luoghi, discorsi di guerra: in questo modo hanno legittimato dall’alto gli attacchi che nelle strade hanno colpito molte ragazze, aggredite solamente perché indossavano il pañuelo verde, rafforzato gruppi fondamentalisti che hanno attaccato militanti femministe (come avvenuto a Mendoza), sostenendo l’addottrinamento degli adolescenti nelle scuole (occorre ricordare gli adolescenti obbligati a marciare con il pañuelo celeste – simbolo dei conservatori antiabortisti – in una scuola di Santiago del Estero).

 

Si tratta di un capitolo intensivo della campagna contro quella che definiscono come “ideología di genere” che si articola in forme specifiche in ogni paese dell’America Latina.

 

 

Si tratta di un concetto che serve alla Chiesa per identificare il femminismo come nuovo nemico. Al suo interno si iscrivono le manifestazion in Perù ed Ecuador con lo slogan “Non con i nostri figli”. Mentre in Brasile, l’ideologia di genere è invocata come minaccia contro la famiglia e promessa di omosessualità, da parte di vari fondamentalismi  (la settimana scorsa è stata così nominata durante il primo congresso “anti-femminista”). In Colombia, ha avuto un ruolo importante nella campagna che ha utilizzato la minaccia dell’ideologia di genere per favorire il trionfo del No al referendum sugli accordi di Pace dell’Avana. In Cile, viene utilizzata contro le rivolte femministe dai gruppi neonazisti. In Argentina, si occupa di contrastare la legge sull’Educazione Sessuale Integrale e l’aborto.

 

Un’altra volta ancora, l’intensità di questa dibattito presenta in Argentina alcune specificità: in queste ultime settimane la campagna si è incentrata sull’argomentazione secondo la quale “le donne povere non abortiscono”, l’aborto sia “imperialista” o piuttosto una “moda” imposta dal Fondo Monetario Internazionale.

 

La battaglia si è intensificata in maniera particolare sulla tutela che la Chiesa esercita sulle donne povere, di cui si occupano i cosiddetti “preti villeros” (delle villas, le favelas argentine ndt). L’aspetto forse più interessante di queste ultime settimane è stata proprio la presa di parola di una enorme quantità di donne delle villas e dei quartieri popolari che hanno raccontato le proprie esperienze di aborto in clandestinità.

Questo fatto ha segnato uno scarto politico nella discussione rispetto agli anni passati, dato che il dibattito è diventato di massa al tempo stesso in cui diventava di classe, mostrando come la clandestinità dell’aborto comportasse prezzi differenti. Sarebbe a dire, la trasversalità della politicizzazione femminista ha permesso un ampliamento di questa discussione in spazi e luoghi dove prima non arrivava, nonostante gli aborti fossero già comunque una realtà di massa. In questo contesto diversi leader di movimenti sociali hanno provato a disciplinare le donne delle differenti organizzazioni, con l’obiettivo di frenare questa marea verde in base alle richieste del Vaticano.

La quantità di donne dei quartieri popolari che popolavano le tende tra la Avenida 9 de Julio e Callao dibattendo queste questioni ci parla invece del fallimento di questi tentativi di disciplinamento interno, e della forza che assume l’affermazione “alla clandestinità non torniamo mai più”, nonostante il Papa addirittura si sia permesso di associare l’aborto al nazismo.

Ma soprattutto, ci parla di una spinta delle ragazze più giovani ad interpellare le proprie madri e porre all’interno delle famiglie una discussione, una domanda ed un modo di vivere la sessualità tali da far tremare il patto patriarcale che è anche il patto ecclesiale. E si apre così un effetto cascata che porta con sé altre discussioni: la separazione definitiva della Chiesa dallo Stato, che ha avuto una sua contundente dimostrazione con le casse piene di moduli di apostasía in mezzo all’accampamento sotto il Senato.

Non è casuale che la reazione della Chiesa sia stata così virulenta proprio nel momento in cui non smettono di apparire alla luce casi di preti pedofili, abusi sessuali contro suore e monache, testimonianze pubbliche di figli non riconosciuti da padri-preti. Di nuovo, torniamo alla scena della violenza sessuale: è quella che ancora una volta viene difeso come spazio privato e sacro dei poteri che sostengono il patto patriarcale-ecclesiastico.

La scena globale

Lo scenario della contesa sull’aborto era l’Argentina ma al tempo stesso aveva già assunto una dimensione globale. La ripercussione, i legami e le risonanze a livello internazionale che ha avuto la campagna per il diritto all’aborto in America Latina e nel mondo è stata contundente. Molte città si sono tinte di verde. Manifestazioni di fronte alle ambasciate, organizzazioni in piazza, i pañuelos verdi confezionati ed esposti in altre latitudini, occupazioni di università e scuole, hanno messo in scena un nuovo tipo di internazionalismo.

A partire dagli scioperi femministi (19 ottobre 2016 e 8 marzo 2017 e 2018) è cresciuta una dinamica internazionalista del femminismo che si è tradotta in forme di coordinamento, sciame di iniziative, traffico di lessico politico, articolazione di una agenda comune e una forza che si sperimenta in modo concreto nei differenti conflitti.

Il femminismo come nuovo internazionalismo sta producendo un nuovo tipo di prossimità e vicinanza tra le lotte.

Ciò che era in gioco durante la votazione al Senato argentino dimostra la forza di uno scenario in cui emerge chiaramente che, come recitava la quarta di copertina del New York Times, il “mondo ci sta guardando”. Oggi il trionfo cattolico conservatore appare come notizia ma non riesce ad evitare che una serie di foto abbiano già fatto il giro del mondo: quelle di una marea verde nelle strade, di una infinita distesa di luci nel pieno della notte d’inverno, di un fiume di desideri di disobbedienza.

Questa volta le pressioni del potere politico si sono imposte facendo si che il patto ecclesiastico patriarcale mantenesse il suo potere sull’autonomia e la decisione delle donne rispetto alla maternità e ai desideri.

Senza dubbio, però, la potenza della rivoluzione femminista non può lasciare indifferenti. L’aborto nelle strade è già legge.

La nostra vittoria è qui, adesso e di lunga durata. Stiamo facendo la storia. Hanno paura di noi. Il disprezzo dimostrato nei nostri confronti dal Senato non rimarrà senza conseguenze. Siamo furiose ed euforiche. Non abbiamo dalla nostra la speranza, ma la forza.

 

Articolo pubblicato su Revista Anfibia. Foto del collettivo M.A.F.I.A

Traduzione in italiano a cura di Alioscia Castronovo ed Elisa Gigliarelli per DINAMOPress.