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Filosofia coatta. Un Manuale per l’uso

Un “Manuale di filosofia coatta” di Giulio Armeni per le nuove edizioni Momo. Scherzoso ma generalmente preciso. Un libro che spiega come mettere in tensione produttiva teoria astratta e linguaggio comune e dialettale, divertendo i lettori

Momo è una casa editrice romana dell’orgoglio precario e, dopo il Lago che combatte e Capitan Calamaio, irrompe nel campo della teoria con Giulio Armeni, Manuale di filosofia coatta (pp. 110, 13 €), proponendosi di far scoccare la scintilla della risata «fra i due poli della celeste altezza della filosofia e della spietata bassezza del romano». Ci riesce e recupera l’etimo di “coatto” (che viene dalle limitazioni di libertà domiciliare) con i due appassionati elogi finali al prigioniero Gramsci, che ci ha insegnato che «ogni vero filosofo dev’esse coatto», e a Foucault, studioso dei marginali e attivista dei diritti dei carcerati, che ci ha insegnato che «ogni vero coatto è un filosofo».

Ci sono molti modi legittimi per fare filosofia, cioè per usare la testa riservando alla pancia le pur essenziali funzioni dell’elaborazione ed evacuazione del cibo. Legittimo, però, non equivale sempre a utile, tanto meno a divertente. E anche a me tirano solo i due modi estremi: apprendere con il pensiero il proprio tempo e mettere in tensione teoria e linguaggio comune. Insomma, la buona tradizione, da Aristotele ad Althusser, e la filosofia coatta. Molto di quanto sta in mezzo e suscita reverenza – dalle parole divise con un trattino alle editorialesse di Scalfari, dalle pen(s)ose riflessioni di Galli della Loggia alle distopie casaleggiane – nuoce gravemente alla salute mentale.

Armeni ha una buona educazione filosofica e un’eccellente padronanza del romano coatto e giovanile e il suo Manuale, perfino nei modi lessicali sessisti, ricalca con oggettiva parodia il maschilismo serioso dei manuali filosofici. Per il contenuto funziona quasi tutto: forse Eraclito ed Epicuro sono un po’ tirati via, il Medioevo è sottorappresentato, Aristotele e Machiavelli laziali non mi stanno bene, ma il resto è abbastanza preciso.

L’invenzione stilistica è di leggere la filosofia all’interno di interessi e pratiche quotidiane da coatto – il rimorchio delle pischelle, l’uso delle “sostanze”, il calcio giocato e commentato, l’ossessiva frequentazione di “Feisbu” e “Istagra” (“Twitte” è riservato ai laconici Spartani). L’effetto straniante, oltre che esilarante, induce alla riflessione.

Sotto il profilo dell’immersione nei Social, il “monno ideale” di Platone è Second Life. L’etica nicciana è correttamente riportata alla contrapposizione di Morale degli influenzer a Morale der follower, adeguati corrispondenti di Signori e Schiavo, mentre l’ontologia è illustrata attraverso l’Eterno Riposto dell’Uguale, che infesta i peggiori blogger e la Bestia salviniana. Le tautologie fondative di Parmenide (L’Essere è, il Non Essere non è) sono equiparate agli hashtag ricorsivi #Atac merda #MaiNaGioia – veri ma poco informativi. Cartesio sconfigge il dubbio iperbolico introducendo la consapevolezza del pensiero e dell’Io come termine intermedio garantito da Dio (che non può essere un Genio Maligno) fra presenza in Fb ed esistenza: «digito ergo sum, Zuckerberg è bono e nun te po’ ingannà». Il filosofo politico Hobbes entra nella logica e nell’antropologia del sistema, riferendosi anche a Wozzap: «se metti più di dieci persone in un gruppo, prima o poi se mbruttiscono e allora l’amministratore deve esse uno solo e deve esse assoluto». Sappiamo tutti quanti guai ne seguono, dai regimi oppressivi alla censura su Fb e allo strutturarsi di movimenti in gruppi chiusi.

Non mancano estensioni alla sfera del sesso e ad altre app di chat e incontri.

La definizione pitagorica «principio di tutto è il numero» viene delimitata nella sua area di applicazione: «ma giusto se è de na pischella». «Kant distingue rimorchio razzionalista sui Social e rimorchio empirico dar vivo», entrambi problematici, il primo per le falsificazioni Photoshop, il secondo per probabilità di risse, ma «le fiche noumeniche, la Meta-fica, quella de Istagra e dei cartelloni de Intimissimi nun se trova», fin quando arriva Hume e lo sveglia dal sonno dogmatico facendogli aprire Tinder e trascinandolo sulla Salarien, «dato che i 100 talleri non provano l’esistenza di Dio, ma quella della fregna sì». La cronaca è un po’ contorta e controfattuale, ma il succo del discorso è stato colto. Così come lo sviluppo dialettico hegeliano verso il threesome, per cui (nel mondo vitale del rimorchio concreto) la tesi è la pischella A, ti perdona perché ti sei alienato nell’antitesi alias pischella B, per poi tornare a lei nella sintesi in maniera rafforzata (magari con rapporto a tre) – con evidente guadagno rispetto alla gelosia monogamica e alla logica aristotelica del terzo escluso.

Altre fulminanti definizioni si attagliano a situazioni, per così dire, di “contesto”. I sofisti che controbattono Tòde Pèos, ovvero Stocazzo, ai molesti interrogatori di Socrate e Platone (Armeni ha fatto i suoi studi classici e si vede). La spiegazione alfine chiara del sillogismo aristotelico standard: «A) j’infami fanno la spia B) Te me fai la spia C) Ops, la macchina te pija foco». San Paolo che, prima di cascare da cavallo, difende il presepio tradizionale ebraico, «pieno de pastorelli che nun se sa chi cazzo stanno a aspettà», con la fondamentale distinzione fra tempo aperto per l’attesa di un Messia a venire e tempo lineare definito, scandito dall’avvenuta nascita di Gesù e relativi effetti redentivi e provvidenziali, che la “piccola porta” di Benjamin gli spiccia casa.

Ma anche Agostino er pendolare, «che fa avanti e dietro tra du città e aa città ndo lavora aa chiama la città dei dannati perché je dà er cazzo lavoracce», oppure Barucchetto Spinoza, filosofo della Sostanza, che rimedia copiosa ad Amsterdam, la ritiene increata e fonte di letizia se la trovi bbona, di tristezza se ti viene a mancare, mentre l’armonia prestabilita fra” gonadi” di Leibniz viene fattualmente falsificata dal proposito di «lasciare er motorino a Tor Lupara e pensare de ritrovallo er giorno dopo». Provare per credere, come nel Candide di Voltaire.

E infine, venendo meno ai miei doveri di avalutatività, registro che per ragioni di equilibrio sul mercato coatto l’autore si barcamena fra opposte propensioni di tifoseria e tuttavia riesce, proprio verso la conclusione del Manuale, a cogliere in una frase l’essenza di Hannah Arendt e del secolo: «il male non è mai radicale» (tranne se sei daa Lazio).

La questione di fondo posta trasversalmente dal libro è: come tradurre filosofia in vita? Anzi, come articolare il linguaggio tecnico della filosofia con la lingua corrente e la sua sottospecie coatta, in pratica con le tipologie di classe, generazionali e regionali dell’esperienza comune (la dico strana, ma ci siamo capiti). Cosa non regge in questa traduzione e quanto è legittimo, tollerabile, uno scarto eccessivo di senso? Una volta immerso nell’acido corrosivo della coattaggine, quello che sopravvive è buono e gestibile, una parte invece andrà scartata. E di sicuro una filosofia con più miti pretese rimane un gioco linguistico valido all’interno della lingua di tutt*, cercando per metafore e metonimie di individuare gli appigli “grammaticali” comuni, le fondamenta infondate della speculazione teorica, cioè le forme di vita.

Wittgenstein («un misto di grazia e potenza» lo definisce il Manuale) non si scostava molto da questo approccio di messa a prova del rapporto tra filosofia e linguaggio comune, quando scriveva, verso il termine della sua vita: «Siedo in giardino con un filosofo. Quello dice ripetute volte: “Io so che quello è un albero”, e così dicendo indica un albero nelle nostre vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: “Quest’uomo non è pazzo: stiamo solo facendo filosofia”» (Della Certezza, § 467). Quel “sapere” immediato (e coatto) è un’ingenuità filosofica se pretende di essere una dimostrazione, laddove dimostra soltanto la nostra internità a un sistema di convivenza, a un gioco linguistico in cui alcune regole sono infondate ma necessarie per giocare.