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Festival Venezia 8/ “The Nightingale” di Jennifer Kent

Jennifer Kent, unica donna in concorso a Venezia, porta sullo schermo un film bello e potente. “The Nightingale” è un rabbioso grido di liberazione, un elegante canto ribelle. La regista australiana, in continuità con il suo precedente “Babadook”, film horror del 2014, mette in scena una riflessione politica sofisticata sulla violenza e sul processo attivo di elaborazione dell’abuso

Se possiamo ormai dire a chiare lettere che lo sguardo non è mai neutro, il gaze degli anglosassoni, quello di Jennifer Kent è apertamente politico e femminista. Finalmente, a due giorni dalla fine della mostra del cinema, tra i film dei celebri registi in competizione per il Leone d’oro, una bella sorpresa. La regista australiana, unica donna in concorso, porta sullo schermo un film bello e potente. “The Nightingale” – che in italiano significa l’usignolo – è un rabbioso grido di liberazione, un elegante canto ribelle.

Se l’usignolo di Romeo e Giulietta annunciava il mattino all’orecchio timoroso dei due amanti e quello di Petrarca piangeva soavemente con note pietose e scorte, l’usignolo che dà il titolo a questo film è l’ode di una donna violentata, il suo grido di vendetta.

Quanto segue contiene spoiler. Ma non è solo nel plot che risiede la grandezza di un film.

 

La grandezza di “The Nightingale” è Claire, il personaggio femminile, vero più che realistico o verosimile. Non c’è un’imitazione dei comportamenti della vita in questo film ma un atto di creazione politica.

 

Siamo nel 1825 nella Tasmania brutalizzata dalla colonizzazione inglese e Claire è una giovane irlandese tenuta sotto ricatto da un ufficiale e costretta a esibirsi cantando davanti agli sguardi penetranti degli uomini dell’esercito. Sopporta gli abusi e gli stupri con la promessa di essere liberata da questa detenzione arbitraria e di poter così finalmente andare via con il marito e il figlio neonato. Ma accade un fatto, si determina l’elemento dirompente che libera l’orrenda routine di soprusi dando inizio a quello che in un altro contesto avremmo chiamato “il viaggio dell’eroe”: il marito viene ammazzato insieme al figlio mentre lei è costretta a guardare, violentata dal branco armato. Origine della sanguinosa strage familiare è proprio la reazione rabbiosa del marito alla stupro. Il marito si fa dunque carico di reagire per lei, al suo posto, restando ucciso da un colpo di fucile.

 

 

Ora, l’unico desiderio della donna sopravvissuta è vendicare i suoi lutti, come in ogni tragedia che si rispetti.

Ma qui Jennifer Kent, in continuità con il suo precedente “Babadook”, film horror del 2014, non si limita a elaborare la strategia narrativa esaudendo il climax, la regista mette piuttosto in scena una riflessione politica sofisticata sulla violenza e sul processo attivo di elaborazione dell’abuso. O meglio, mostra una possibile reazione all’aggressività del potere sessuato, fonte indiscutibile di diseguaglianza, con la sua brutale banalità.

In questa vicenda non è solo la donna il soggetto sotto scacco, viene chiamata in causa anche la storia degli aborigeni della Tasmania usurpati, sfruttati, sterminati dal suprematismo inglese e la terra cosiddetta vergine dell’arcipelago australiano. È proprio nell’alleanza di questi pezzi di mondo che si produce la forza politica del film e del personaggio di Claire che da questa triangolazione imparerà a maneggiare nuovi strumenti di lotta. Non basta infatti impugnare l’arma da parte di chi non è stato educato a usarla per essere in un duello leale, serve piuttosto dotarsi di nuove risorse strategiche per inventare una forma di ribellione efficace.

 

Claire inizia la sua fury road attraverso le insidie della foresta accompagnata da Billy, un aborigeno della tribù Leenethmairrener, con il quale lentamente stabilirà la reciprocità necessaria alla sopravvivenza di entrambi, basata innanzitutto sul riconoscimento di un più ampio orizzonte di lotta contro il comune nemico.

La vendetta di Claire deve rimarginare tre ferite: l’uccisione del marito, la morte del figlio e la violenza che innanzitutto come donna ha dovuto subire per lungo tempo. E a queste tre ferite corrisponderanno diversi tipi di reazione e diverse forme di necessaria violenza.

 

Sotto il grande cappello della violenza, il cinema ha molte volte raccontato lo stupro. Come spiega in un brevissimo passaggio Virginie Despentes nel suo libro King Kong Girl, quando il cinema ha provato a raccontare la reazione attiva della donna stuprata nei termini della vendetta, ha raccontato una donna mascolinizzata, un soggetto che non cambia segno al comportamento ricevuto. E questo, insiste lei, perché dietro alla scrittura delle storie e alla macchina da presa si trova spesso uno sguardo maschile che prova a fare i conti con la sua profonda colpa di uomo usurpatore e violento. La reazione comune a un atto così atroce come lo stupro per una donna è spesso invece il silenzio, l’immobilità, la solitudine nell’elaborazione lenta di una colpa ancora precedente, quella di essersi trovate nella condizione di essere stuprate. Nessuna donna, dice la scrittrice francese postfemminista, alla violenza della penetrazione può rispondere con lo stesso tipo di violenza. E infatti Claire riesce a uccidere solo l’omicida del figlio. Lo massacra in una scena degna del codice horror splatter che incarna tutta la brutalità dell’insopportabile dolore di una madre. Quando si trova di fronte al suo carnefice invece riaffiora l’esperienza, non riesce a sparare, piomba nell’incubo senza saper reagire. Va rotto il legame di dipendenza e questa è la grande lezione che Jennifer Kent consegna ai suoi spettatori.

È in questo continuo atto mancato che però si instaura l’alleanza con Billy, fino ad allora boy, servo dei bianchi per via di una gerarchia sociale pre-configurata. Solo nella condivisione dell’esperienza della violenza i due sistemi culturali inizieranno a intrecciarsi generando qualcosa di potente. Sarà infatti nell’accettazione dei rituali di Billy e delle regole del luogo che Claire troverà la forza per fronteggiare il suo stupratore. Come Antigone, Claire produce un conflitto che prevede disordine. È pronta a morire per negare il diritto stabilito da altri su di lei e che ormai riconosce come ingiusto.

Al termine del suo viaggio avverrà l’incontro decisivo con l’ufficiale inglese. Ora che Claire ha vendicato il figlio morto, può dedicarsi al suo personale regolamento dei conti.

Non sarò più il tuo usignolo e con ciò non sarò più tua, dice fronteggiando fiera l’ufficiale in una locanda vietata all’accesso delle donne. Non ha più paura e questo è il primo passo verso la liberazione da una subordinazione già da sempre stabilita. Il comportamento di Claire spiega il processo di elaborazione del trauma: raccontare e condividere l’evento traumatico. Non è il mondo intorno a lei a cambiare, è il suo gesto che cambierà il mondo, il suo quantomeno. Intona infatti un ultimo canto, l’addio dell’usignolo che ormai volge il suo sguardo ai volatili guida dei rituali aborigeni. Le basta questo come gesto di affermazione, a ucciderlo ci penserà Billy perché quella è la sua vendetta personale.

Una storia compatta raccontata attraverso l’intreccio talvolta ironico di diversi codici stilistici e di genere (l’epica, l’horror, il thriller, per citarne alcuni).

 

Un film che diventa una prova schiacciante di quanto friabile sia ancora il terreno dell’uguaglianza e un fulmine (di quelli attesi in epoche di siccità) nel cielo sereno del concorso del Lido.

 

Jennifer Kent ha trasformato con questo film la sua presenza solitaria in una rivendicazione forte che ha strappato grandi applausi durante la proiezione oltre che alla fine del film.

Poi una voce fuori dal coro, un ragazzo italiano grida«vergogna, puttana, fai schifo» all’apparizione del nome della regista nei titoli di coda al termine della proiezione. Al di là del fatto di cronaca, trattato come tale dalla scarsa consapevolezza della maggior parte delle testate che hanno coperto la notizia, l’uscita riprovevole rivolta alla donna Jennifer Kent, che tra l’altro non era presente in sala, più che alla regista di un film, spiega qualcosa su cui vale la pena spendere due parole.

“The Nightingale” è costruito per produrre una forte dinamica di identificazione con il personaggio di Claire ­– l’applauso durante la proiezione, gesto desueto al cinema, è avvenuto infatti quando Claire sconfigge il suo carnefice. Ma può produrre, in qualcuno, anche un forte disorientamento. Despentes, nel raccontare la sua esperienza da prostituta, spiega che gli uomini, fondamentalmente in disaccordo con se stessi, si eccitano per ciò di cui hanno vergogna. E perciò danno prova della loro aggressività. Solo un profondo senso di vergogna, di colpevolezza in un certo senso, può infatti generare l’impulso incontrollato di una tale violenza verbale. Di tanti appellativi, “puttana” sembra proprio lo sfogo di questo incontrollato conflitto che nell’uomo impedisce un processo di emancipazione. Non si tratta di psicologizzare il gesto indegno e ignorante – come Kent lo ha definito – di questo ragazzo. Ma di non far passare come burlona un’azione grave che mette in gioco molto più che la reputazione del pubblico della Mostra d’Arte.

Si fischia alle anteprime quando un film non piace o indigna il suo pubblico. Dare della “puttana” alla regista rientra piuttosto in un linguaggio machista sostenuto da una mistica virile. Le scuse sono, se vogliamo, ancor più degradanti e problematiche. L’ultimo passaggio infatti recita così: «l’insulto viene fuori da un pensiero irrazionale, goliardico (almeno così sembrava) e iperbolico di un cinismo che potrebbe andar bene (ma in realtà anche no) al bar tra amici ma che è assolutamente fuori luogo all’interno di una Mostra d’Arte». Il tentativo far rientrare la vicenda ristabilendo quell’assetto da bar, che milioni di donne nel mondo combattono sole e collettivamente attraverso i movimenti femministi globali, è certamente la spia di un atteggiamento di contenimento del danno che abbiamo già visto alle Mostre d’Arte. Esito questo di un’industria del cinema che ha trattato come esclusivi i proclami #metoo e #wetogether, disarticolandone il legame con il mondo della lotta.

Di pochi giorni prima è invece un’altra riprovevole provocazione fatta durante il red carpet del remake di “Suspiria”, rivolta dunque probabilmente ad Asia Argento oltre che al movimento #metoo, fatta dal produttore – nonché finanziatore della campagna di Donald Trump – Luciano Silighini Garagnani, che riportava sulla sua maglietta la scritta “Weinstein is innocent”. Episodi degradanti che un anno fa non sarebbero mai potuti accadere. Basta andare con la memoria al Festival di Cannes per ricordare la rilevanza che il Festival e l’industria cinematografica lì riunita avevano dato alla rappresentanza femminile (in chiave quote rosa), a Venezia completamente riassorbita nello schema classico dell’evento festivaliero.

Chissà come la giuria del concorso, presieduta da Guillermo del Toro, guarderà a questo film. Non basterebbe certamente un Leone d’oro per ripagare lo sforzo intellettuale di una regista importante come Jennifer Kent. Sarebbe però almeno l’occasione per discuterne ancora.