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MONDO

Fermare l’escalation in Medio-Oriente. Prima che sia troppo tardi

La notte di sabato 13 aprile l’Iran ha attaccato per la prima volta Israele in maniera diretta dopo che quest’ultimo, due settimane prima, aveva preso di mira l’ambasciata iraniana a Damasco. Secondo Israele, l’operazione ‘Vadeh Sadegh’ (promessa vera) costituisce un’opportunità per rilanciare una strategia internazionale in grado di rompere il progressivo isolamento cui il governo Netanyahu sta condannando il paese. Ma la situazione è molto più incerta di quanto possa sembrare e rischia di costituire un altro passo verso il baratro di una escalation quantomeno regionale.

Dopo due settimane di attesa, costellate di minacce dirette e lavoro di intelligence da ambo le parti, l’Iran ha lanciato un attacco su vasta scala contro Israele, utilizzando più di 170 droni esplosivi, circa 120 missili balistici e circa 30 missili da crociera.

Il 1° aprile, infatti, 6 missili sparati da aerei da combattimento F-35, presumibilmente israeliani, avevano colpito la sezione consolare dell’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo 16 persone, tra cui un alto comandante dei guardiani della rivoluzione, il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, e altri sette ufficiali. Un attacco che per alcuni analisti è stato eseguito non curandosi delle conseguenze, per altri invece in maniera premeditata col fine di acuire le tensioni con l’Iran e compattare il fronte con gli Stati Uniti. In un articolo del 18 aprile, il New York Times, sulla base di informazioni ottenute da funzionari statunitensi, israeliani e di altri stati del Medio Oriente, ha rivelato che gli Stati Uniti sono stati avvisati solo all’ultimo minuto dai colleghi israeliani e che questi ultimi avevano sottostimato la possibile risposta iraniana.

In questi mesi, l’esercito israeliano (IDF) ha ripetutamente colpito ufficiali iraniani in Libano e Siria, mentre l’Iran ha supportato i paesi e le milizie riunite nell’Asse della resistenza nelle loro azioni di guerriglia contro Israele.

Rispetto al passato, però, l’attacco israeliano a Damasco ha preso di mira un edificio istituzionale di Teheran. Un salto di scala rispetto al quale l’Iran ha deciso di rispondere per la prima volta in maniera diretta, mettendo in campo quello che è stato il più grande attacco con droni mai effettuato.

La prima domanda che in molti si stanno ponendo in queste ore è la seguente: si è trattato di un’azione dimostrativa condotta con successo o di un fallimento che messo a nudo i limiti dell’arsenale iraniano di fronte alla capacità di deterrenza di Israele e dei suoi partner internazionali?

Sia il gabinetto di guerra israeliano che il governo statunitense hanno messo in evidenza come la maggior parte dei droni e dei missili lanciati sia stata intercettata prima di poter impattare sugli obiettivi, il 99% secondo il portavoce dell’IDF Daniel Hagari. Cosa che non sarebbe stata possibile senza il sostegno di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giordania – che hanno messo a disposizione aerei e sistemi missilistici – e dei paesi arabi – che hanno fornito informazioni d’intelligence.

Da parte sua, Teheran ha annunciato preventivamente l’attacco e ha puntato a obiettivi militari in zona desertiche, il Negev e il Golan, con armi non di prima fascia. Non ci sono stati danni significativi o morti. Il dato più rilevante, però, è che mentre un missile balistico iraniano può costare fino a 80.000 sterline, i missili utilizzati per intercettarli valgono tra le 800.000 e i 2,8 milioni di sterline. In altre parole, nel contesto di una guerra su vasta scala, Israele non sarebbe in grado di mantenere questo livello di difesa aerea per più di pochi giorni, mentre gli Stati Uniti devono tenere in considerazione anche l’altro fronte globale aperto in questo momento, quello ucraino.

Anche stavolta il doppio-standard occidentale non ha tardato a esprimersi, tacendo su quanto accaduto il 1° aprile e condannando in maniera compatta l’operazione di sabato.

In generale, l’opinione pubblica israeliana vede in questa situazione l’opportunità di invertire la rotta rispetto all’isolamento in cui il paese si è confinato per le sue azioni di sterminio contro i palestinesi, riqualificando l’immagine di Israele nel mondo come vittima di una aggressione da parte dell’Iran. “Il regime iraniano non è diverso dal Terzo Reich e l’ayatollah Khamenei non è diverso da Hitler” ha detto l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, invocando sanzioni contro Teheran, mentre nessuna azione del genere è stata presa nei confronti di Tel Aviv in questi mesi, anche se, ad esempio, la Corte di Giustizia Internazionale ha riconosciuto il rischio che a Gaza sia in corso un genocidio.

Israele paventa la possibilità di costruire un’alleanza regionale anti-iraniana, ma nel frattempo, seconda domanda, come risponderà? Chiuderà qua la questione, come indicato da Teheran? Contro-attaccherà?

Il presidente americano Joe Biden sta provando disperatamente a gettare acqua sul fuoco, invitando l’alleato a non agire ulteriormente, almeno non nel breve termine. I paesi arabi hanno già chiarito che non intendono partecipare a nessun attacco diretto contro Teheran, nessuno di loro vuole che la situazione precipiti.

Nelle giornate di domenica e lunedì si sono palesate nuovamente posizioni diverse in seno al governo di Netanyahu con alcuni più inclini ad accogliere le pressioni statunitensi, mentre altri premevano per una risposta diretta e immediata. Alla fine, sembrava che Israele avesse optato per rispondere nel brevissimo termine all’attacco, ma la sera di mercoledì è arrivata la notizia che Netanyahu ha bloccato i piani già approvati, optando per una risposta meno aggressiva, presumibilmente al termine della pasqua ebraica. Il motivo di questo cambio repentino di strategia ci conduce alla terza domanda.

In questi giorni, infatti, lo spostamento del baricentro del conflitto ha avuto, tra le varie conseguenze, anche quella di allentare la pressione su Gaza, rinviando l’annunciata invasione di Rafah da parte dell’IDF. Nonostante ciò, gli attacchi contro la popolazione civile sono andati avanti, prendo di mira quanti hanno provato a ritornare a nord della Striscia così come le zone di Al-Nusseirat, Al-Maghazi e Beit Hanoun.

Alla luce degli ultimi sviluppi regionali, va anche rilevato come il blocco della vendita delle armi a Israele finirà sicuramente fuori dall’agenda politica dei suoi alleati.

La domanda, in questo caso, è se l’acuirsi delle tensioni tra Iran e Israele farà calare l’attenzione sulle sorti della Palestina o spingerà a un’apertura nei negoziati in modo da restringere il numero dei fronti aperti. Secondo il giornale arabo di base a Londra, Al-Araby Al-Jadeed, ripreso anche da molte testate internazionali, gli Stati Uniti avrebbero ottenuto da Israele la rinuncia ad un attacco su larga scala contro l’Iran in cambio del via libera all’operazione militare a Rafah così come programmata dall’IDF e precedentemente bocciata proprio dagli americani.

Se così fosse, ancora una volta la vita dei palestinesi sarebbe utilizzata come merce di scambio nei giochi di interesse fra potenze regionali e globali, e a pagarne il prezzo stavolta sarebbero i rifugiati gazawi (circa un milione e settecentomila) che hanno trovato riparo al confine con l’Egitto.

“Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve approvare una risoluzione forte e vincolante che imponga un cessate il fuoco completo nella regione e che includa i territori palestinesi occupati, Israele, l’Iran e tutti i Paesi limitrofi coinvolti, nonché gli attori non statali”, ha scritto il giornalista palestinese Daoud Kuttab. Questo perché, aggiunge, “è importante che questa risoluzione riconosca che al centro di gran parte dell’instabilità della regione c’è l’irrisolta questione palestinese”.

Eppure, a livello internazionale non sembra ci sia la volontà di fare pressione fino in fondo per una soluzione diplomatica ai nodi politici di fondo. Per farlo, bisognerebbe adoperarsi per imporre a Israele un cessate il fuoco e per il riconoscimento materiale di uno stato palestinese.

Israele, da parte sua, è piombato in una profonda crisi esistenziale –  dallo sgretolamento del suo paradigma securitario al destino degli ostaggi passando per la coscrizione degli haredim e la crescita dei partiti della destra religiosa –  da cui Netanyahu pensa di uscire accelerando ancora di più le forze centrifughe, come la pulizia etnica dei palestinesi e l’esplosione degli attriti con l’Iran, nell’illusione di ristabilire un rapporto di forza a livello regionale basato sul potere di deterrenza e sulla vendetta. Aumentare la posta in gioco per procrastinare la vita dell’esecutivo, nella speranza che al crescere della minaccia si ricompatti anche la società israeliana. Gli errori di calcolo però continuano a sommarsi e questo ogni volta provoca un salto di scala nelle strategie militari.

Tutto ciò va inserito in un contesto regionale dove gli equilibri sono evidentemente saltati e la ricerca di una nuova equazione politica è in atto. Prospettive basate su analisi identitarie (religiose o culturali) non sono in grado di cogliere la pluralità di interessi e posizionamenti in gioco. Basti pensare all’Iraq, il cui primo ministro, Mohammed Shia al-Sudani, lunedì è stato ricevuto alla Casa Bianca, dove ha ribadito che farà tutto il possibile per evitare un allargamento del conflitto, nella speranza di attrarre investitori ma anche di concordare un ritiro delle truppe americane dal paese. O al Qatar che ospita contemporaneamente la base militare Al Udeid, dalla quale gli Stati Uniti hanno coordinato il respingimento dell’attacco del 13 aprile, e alcune delle figure di spicco di Hamas.  

Il destino dei palestinesi, quindi, può essere tanto la chiave per fermare l’escalation, costruendo un nuovo equilibrio che preveda finalmente la nascita di uno stato palestinese, quanto il pretesto per innescarla, utilizzandoli come merce di scambio su più tavoli.

Immagine di copertina di Mehrnews da wikimedia. “The moment Iran launched ballistic missiles towards Israel”