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MONDO

El Salvador tra due pandemie: è massima insicurezza

La pandemia e la militarizzazione del territorio nel paese centroamericano, mentre la violenza dilaga, come le violazioni dei diritti umani e costituzionali. Tra il tentativo di controllare la curva dei contagi del Covid-19 e quella della violenza, uno Stato che respinge qualsiasi approccio alternativo per risolvere le contraddizioni durature derivanti dall’abbandono sociale e dalla condanna economica

L’acclamato Piano di Controllo Territoriale (PCT) del presidente Nayib Bukele, il piano di controllo delle gang promosso dal governo salvadoregno avanza con il pretesto del nuovo coronavirus. Sebbene i dettagli rimangono ancora poco chiari, il PCT si concentra sul rafforzamento della presenza di forze di sicurezza nelle zone ingovernabili, sull’eliminazione delle reti di estorsione, sulla  fine della vendita di droghe illecite e sulla rottura del legame tra carceri e gang di strada.

 

L’emergenza è diventata una opportunità che l’amministrazione di Bukele ha usato per accelerare la marcia rispetto ai suoi obiettivi nella lotta contro la criminalità, dando vita ad un apparato di polizia militare. Molti hanno definito queste misure autoritarie, dittatoriali e antidemocratiche.

 

Il COVID-19 ha permesso al governo salvadoregno di portare avanti la sua strategia di sicurezza totale e di testare sul campo tecniche di sorveglianza e controllo sociale. Il recente aumento di omicidi legati alle gang ha permesso di convincere l’opinione pubblica circa l’indispensabile urgenza e necessità di tali misure di sicurezza, assicurando che metodi coercitivi più rigidi siano il vaccino per quella che, di fatto, è una crisi strutturale prolungata. Che si esprimano nella forma della repressione contro i detenuti o in arresti illegali di cittadini che violano la quarantena, i meccanismi di controllo punitivo sono una caratteristica dominante del senso stretto, miope e ingenuo della legalità di Bukele.

Le immagini sul profilo Twitter della Polizia Nazionale Civile forniscono un assaggio del doppio lavoro delle autorità nel Salvador: la fotografia aerea dei droni di sorveglianza, ad esempio, funziona come mezzo per documentare e mostrare l’efficace lavoro della polizia in tutto il paese, rivelando al tempo stesso i ritmi di una realtà sociale alterata: le stazioni sanitarie, le pattuglie di quarantena e i posti di controllo dei veicoli per verificare la diffusione del coronavirus dimostrano la maggiore presenza di forze di sicurezza in tutto il paese. I media riportano quasi esclusivamente gli arresti di criminali o la confisca di armi e droga; il feed di Twitter delle forze armate mostra notizie simili.

 

La presenza della polizia militare è, in primo luogo, considerata necessaria per fermare la trasmissione del virus, e viene ostentata come modo esemplare di utilizzare le forze di sicurezza per sostenere le misure municipali contro il COVID-19.

 

Infatti, la polizia e l’esercito hanno contribuito a disinfettare veicoli e persone, garantire il rispetto della quarantena, contribuendo a distribuire semi e alimenti di base. Tuttavia, con l’inasprimento delle misure ed avendo dato carta bianca alle autorità, le violazioni dei diritti umani e quelle costituzionali sono aumentate, come era prevedibile.

Pertanto un effetto secondario sarebbe la normalizzazione delle condizioni sociali e delle abitudini di sorveglianza per stabilire la presenza militare e quella della polizia come garanti esclusivi e indispensabili dell’ordine. Durante la quarantena e il suo post, la presenza della sicurezza di Stato probabilmente continuerà ad intensità paragonabile, a scapito dei diritti costituzionali dei salvadoregni.

L’arbitrarietà della sicurezza a El Salvador si è dimostrata dolorosa per pochi, e scomoda per molti. La polizia salvadoregna e i militari, che operano come corpo medico-sanitario armato, hanno reso le attività quotidiane piuttosto intense. Io, che facevo il fattorino per la mia famiglia, dovevo costantemente valutare e rivalutare il mio percorso, assicurandomi di non dimenticare mai le carte nel caso in cui mi fermassero, per poter dimostrare che mi stavo muovendo per un motivo espressamente legittimo. Dato che il cordone sanitario diventa una pratica frequente, molti sono giustamente preoccupati che gli possa inavvertitamente essere vietato di ritornare alle loro case.

 

L’esperienza di Metapán, La Libertad e parti di San Salvador sono esempi chiave: l’interruzione delle attività lavorative già insufficienti per la sopravvivenza, la paralisi del lavoro delle comunità di pescatori, e l’isolamento di molte persone in posti che probabilmente non considerano nemmeno casa.

 

Questi eventi, insieme alla persistenza di pratiche che rendono densa di casualità la routine quotidiana, intimidiscono i cittadini, che hanno paura di subire una retata, di essere arrestati e criminalizzati in quanto “violatori della quarantena”. A dispetto della Corte Costituzionale e sfidando l’Assemblea Legislativa, Bukele continua a testare la resistenza dei cittadini alle violazioni costituzionali, tutte presentate come necessarie per combattere il virus, ma che sono in pratica estenuanti strategie per gestire il disordine.

 

Foto di Jorge Cuéllar

 

Stati di emergenza

Il dispiegamento dell’apparato di sicurezza ha, in base alle statistiche ufficiali, appiattito le due curve a El Salvador.

In primo luogo, le peggiori conseguenze del coronavirus sono state apparentemente limitate nel paese, nel momento in cui scrivo ci sono 695 casi confermati (attualmente, nel giorno di questa pubblicazione, sono 2849), tuttavia continuano vigenti le domande sulle affermazioni dello Stato rispetto ai test di massa strategici, alle circostanze delle recenti morti evitabili, sulle condizioni della quarantena e sull’accuratezza dei ‘calcoli’ del 21 marzo di Bukele, che, nonostante il panico, si sono rivelati in realtà uno stratagemma statistico.

 

La seconda curva, naturalmente, è il problema sociale del marero o pandillero, il membro della banda criminale che è sempre presente, come costante minaccia e fonte di ogni male, nella mente salvadoregna.

 

Durante il primo anno del governo di Bukele, gli omicidi sono inaspettatamente calati. La fine di marzo ha visto due giorni consecutivi con zero omicidi registrati in tutto il paese. Questa anomalia, motivo di celebrazione, ha suggerito che El Salvador poteva trovarsi su una traiettoria migliore rispetto alle cifre abissali degli ultimi anni, come prova evidente del successo del PCT.

Mentre tali traguardi sono i benvenuti in un paese che per anni ha raggiunto e persino superato i livelli di violenza in “tempo di guerra”, questo indice di sicurezza ha anche suscitato sospetti negli analisti politici, giornalisti e criminologi, suggerendo che il governo di Bukele forse sta negoziando privatamente con le gang. L’implicazione è che la diminuzione degli omicidi potrebbe non essere l’unica prodezza del potere delle tattiche intransigenti.

Sostituendo sui media le notizie legate alla pandemia,   sono riemerse le maras, lo spettro costante, tornando ad essere la notizia in prima pagina verso la fine di aprile, dopo che i video precedenti avevano mostrato come anche le gang stessero imponendo la quarantena.

Attraverso una serie di omicidi, dal 24 al 28, i media sostengono che la maras abbiano scatenato un’ondata di violenza nei confronti dei cittadini, arrivando a più di 70 morti nell’arco di quattro giorni, apparentemente dal nulla. Molti furono inizialmente perplessi dal picco degli omicidi. Gli analisti hanno cercato di spiegare l’aumento come messaggio da parte delle gang per riaffermare il potere, una dimostrazione di costante controllo territoriale nonostante il presunto monopolio dello Stato sulla violenza, mediante l’uso di salvadoregni uccisi come messaggi in codice, contraddicendo i risultati degli sforzi anti-gang di Bukele.

 

Questi atti, attribuiti in particolare alla MS-13, la quale non ne ha negato la paternità, secondo diversi rapporti, sono in realtà proteste contro le putriscenti condizioni delle prigioni, una richiesta di porre fine al divieto di visite familiari e una richiesta di miglioramento delle condizioni igieniche dato il coronavirus.

 

Dai loro sovraffollati, umidi, luoghi di reclusione, i membri delle gang sono pienamente consapevoli che le loro vite sono considerate come sacrificabili, e che, come un recente audio di Whatsapp ha ipotizzato, se un membro di una gang si trovasse in una situazione in cui dovesse aver bisogno di un respiratore per salvarsi la vita per il Covid 19, probabilmente non gli verrebbe offerta l’assistenza necessaria alla sopravvivenza. Sarebbero, a tutti gli effetti, lasciati morire.

 

La realtà drammatica del sistema carcerario di El Salvador è ben nota. Le spettacolari “celle delle gang” dove vengono ammassati i criminali non sono migliorate da quando Bukele è salito al potere.

 

Infatti, la vita in queste prigioni è diventata insopportabile per coloro che in precedenza avevano privilegi guadagnati attraverso la buona condotta o collaborando nelle inchieste giudiziare. Questi approcci basati sulla tolleranza zero, sebbene richiamino il passato fallimento della mano dura, sono per i sostenitori di Bukele necessari per trattare il flagello delle bande. Le gang, composte da assassini, estorsori e aggressori, sono percepite come una parte irredimibile della società salvadoregna.

I messaggi punitivi dell’amministrazione ribadiscono queste posizioni di continuo, alimentando le fiamme del panico morale reiscrivendo le maras come demoni folkloristici e giocando sui desideri popolari di giustizia retributiva. Così, il mandato di Bukele di riprendersi El Salvador dalle gang criminali è un importante articolazione discorsiva, un consenso garantito, che anima molte delle sue decisioni politiche, come si è visto a inizio febbraio. L’autoproclamata superiorità morale dello Stato nella sua infinita guerra contro le gang è, come nelle precedenti amministrazioni, un modo di comportarsi familiare necessario a governare.

Sin dall’inizio del picco degli omicidi, la prigione è emersa come punto focale per decifrare il fenomeno. Negli ultimi 30 anni la prigione si è trasformata in base delle operazioni delle gang, in scuole maras, dove l’ormai consolidato potere di strada è usato per mandare gli ordini, il più delle volte dai capibanda esperti, i quali dirigono le azioni dalle celle verso l’esterno.

 

Questo fenomeno, come ci ricorda il ricercatore José Miguél Cruz, deve essere inteso come una diretta conseguenza della carcerazione di massa in America Centrale.

 

In un sistema in cui la riabilitazione, il riscatto e altre forme di integrazione sociale sono considerate senza possibilità alcuna, il sistema penitenziario continuerà ad essere utilizzato per assecondare politiche che squalificano attivamente gli sforzi di reinserimento e le tanto necessarie forme di giustizia riparativa.

Il 27 aprile, Nayib Bukele ha dichiarato lo stato di emergenza nelle prigioni, una risposta aggressiva ma non inusuale all’autorità delle gang. Più tardi i rapporti hanno rivelato che la violenza è stata quasi esclusivamente perpetrata non da tutte le maras ma solo dalla MS-13.

La gang rivale Barrio 18-S ha pubblicato un video comunicato negando qualsiasi coinvolgimento, mostrandosi solidali con le comunità controllate dalla 18-S dove gli aiuti di emergenza non erano arrivati. Tuttavia, tutti i prigionieri affiliati a una gang sono stati allineati in fila con la sola biancheria intima e fatti inginocchiare sul cemento freddo dei cantieri di prigionia in tutto El Salvador, rivolti in avanti in segno di sottomissione all’autorità di Bukele. L’umiliazione fotografica del marero è circolata rapidamente. Bukele avrebbe poi trasformato l’ecosistema carcerario imponendo ciò che prima era impensabile, mescolando fazioni rivali in ambienti comuni, mettendole l’una contro l’altra in celle già affollate.

Le bande sono state poste in isolamento per 24 ore, impedendo le comunicazioni attraverso i blocchi. Il Direttore Generale delle carceri, Osiris Luna, ha dichiarato che ai prigionieri sarebbe stato vietato di ricevere un solo raggio di sole. Le finestre delle celle, le sbarre delle prigioni e altre vie aeree sono state sigillate con lastre di acciaio laminato, peggiorando le già soffocanti condizioni e rendendole simili a quelle dei sotterranei. Queste immagini indubbiamente allarmanti hanno ricevuto le dovute critiche, destando ulteriori sospetti sull’approccio di Bukele alla gestione delle crisi.

 

Anticipando le rappresaglie da parte delle gang, Bukele inoltre avrebbe autorizzato l’uso della forza letale per garantire che la polizia e i militari potessero reagire se necessario, come misura per le squadre di sicurezza per proteggere se stessi e gli altri dagli attacchi o imboscate delle gang.

 

Il governo di Bukele, come le precedenti amministrazioni, ha ribadito che non dà valore alcuno alla vita dei criminali. È chiaro ora che gli omicidi sono un messaggio delle gang allo Stato per quanto riguarda il divieto totale di visite familiari per i prigionieri, una richiesta a cambiare le condizioni medievali vissute all’interno del sistema carcerario e una protesta contro altre pressioni a livello di comunità come l’eccesso di controllo poliziesco, le molestie e la violenza illegale.

La polizia e i militari stanno usando queste misure nelle zone marginali, affidandosi al PCT per giustificare le loro azioni. Allo stesso modo, in generale le prolungate condizioni di quarantena hanno influito negativamente sulle entrate delle gang derivate dall’estorsioni.

Le economie delle gang sono ora costrette ad aumentare i canoni sulle consegne e sui servizi alimentari che sono ancora operativi durante la quarantena. A livello esistenziale, il vero problema sono le condizioni di vita anguste all’interno delle prigioni salvadoregne. Come a Rikers Island a New York o nella prigione della contea di Cook a Chicago e in prigioni di altre zone, il sovraffollamento crea ambienti inclini a contagi epidemici. Il coronavirus, ad un certo punto, viene visto dalle gang come un vettore che potrebbe offrire allo Stato una comoda scusa per il loro sterminio.

 

Fino a nuovo ordine, le prigioni sono ora in isolamento serrato, mentre anche il resto del paese sta vivendo la propria condizione di massima sicurezza all’esterno, sostenuta da un apparato poliziesco e militare rafforzato.

 

Come parte del programma #PlanControlTerritorial di Bukele, la polizia e i militari sono liberi di esercitare pressioni discrezionali sul pubblico per garantire l’obbedienza alla quarantena. I due blocchi rivelano che la sicurezza dello Stato è fortemente investita nel capitale politico generato dalla gestione delle crisi.

 

Nel Salvador, dove il sogno di ordine sociale non diventa mai realtà, ma si esegue solamente, le gang, lo Stato, e i suoi mezzi sono le tecnologie dello spettacolo punitivo, il dramma più popolare del paese.

 

 

Foto di Jorge Cuéllar

 

La storia delle due pandemie

I problemi di sicurezza a El Salvador sono complessi. Sono necessariamente intrecciati in una rete di realtà istituzionali, sociali ed economiche in cui il teatro della politica fornisce un costante spettacolo brutale di disciplina, in cui la punizione è la conseguenza morale. Lo rivelano le recenti immagini dei membri tatuati delle gang a torso nudo, un’immagine familiare che affiora almeno una volta in ogni amministrazione.

Il modo in cui queste immagini sono circolate alimenta il voyeurismo del marero come un animale, un selvaggio sanguinario che merita una dura correzione, dimostrazione delle misure punitive dello Stato e del discorso morale in proporzione alla criminalità arrogante. Pertanto, il capro espiatorio delle gang usato da Bukele deve essere inteso come una pandemia non della sanità pubblica, ma della sicurezza pubblica, che a El Salvador sono qualitativamente equivalenti.

Con risposte punitive già pronte, il coronavirus ci mostra come il risoluto impegno dello Stato per la militarizzazione durante la pandemia serve il duplice scopo di contenere davvero il virus, senza però mai perdere di vista l’obiettivo di liberare il paese dalla sua infezione preesistente: le maras.

Le spiegazioni del marero come caotica creatura subumana sono disumane, irresponsabili e inutilmente antagoniste. Eppure, queste spiegazioni rimangono politicamente vantaggiose e si registrano come un “buona amministrazione” nell’immaginario salvadoregno, un esempio di ciò che Sonja Wolf, l’autrice di Mano Dura: The Politics of Gang Control in El Salvador chiama il ciclo di repressione e rappresaglia. Inquadrare le gang come attori politici o come individui meritevoli di “diritti umani” scivola nel riconoscimento involontario dell’umanità del membro della gang. Questa prospettiva è inconcepibile per una popolazione la cui esperienza di violenza delle gang rappresenta un dolore quotidiano, e dove la giustizia abitualmente abbandona la vittima.

 

Pertanto, l’interpretazione improduttiva dello Stato dell’attività delle gang come una barbarie senza senso è di per sé parte di un’ecologia politica, modellata attraverso generazioni di politiche punitive, per placare la popolazione come forma di riparazione.

 

Sebbene le precedenti amministrazioni abbiano cercato di collaborare con le gang per trovare forme di riabilitazione, tali progetti politici hanno fallito in modo spettacolare. I partiti politici che hanno sostenuto queste misure sono statiper sempre segnati per “aver negoziato con i terroristi”.  Questi fallimenti sono anche legati all’impopolarità politica e alle elezioni, che a loro volta generano politiche rovinate dal breve termine, che devono essere sempre reinventate da ogni nuova amministrazione. Ciò che è costante, tuttavia, è che alle maras non può essere concessa dignità, per timore che il governo corra il rischio di essere considerato come inefficace, corrotto e debole.

La parvenza di ordine raggiunta dal 10 marzo, era infatti, pura finzione. Il meccanismo di repressione dello Stato, mentre fa gli straordinari per le misure pandemiche sempre più severe ed estese di Bukele, rimane inadeguato per mitigare le vulnerabilità intrinseche in un sistema che fraintende intenzionalmente la natura della minaccia, pandemia o meno.

Lo Stato respinge approcci alternativi per risolvere le contraddizioni durature derivanti dall’abbandono sociale e dalla condanna economica. Sfortunatamente, non c’è alcuna percettibile fine in vista di questa pandemia incurabile. Finché rimarrà politicamente utile per ottenere consensi, per assicurarsi il potere e per distrarre la popolazione dalla miseria, questa pandemia e le sue misure restrittive persisteranno.

 

Solo il tempo ci dirà se i protocolli di massima sicurezza reggeranno all’interno delle prigioni. Ad ogni modo è altamente possibile che, se queste rigide misure resteranno in vigore, le gang reagiranno il prima possibile portando alla massima insicurezza la situazione nelle strade e nelle aree rurali di tutto il paese.

 

Questo, ancora una volta, spingerà El Salvador in un’altra spirale di violenza, con omicidi che le gang usano per negoziare con lo Stato. Alcuni ipotizzano che la mescolanza arbitraria delle fazioni delle gang potrebbe anche, come un virus, provocare ulteriori mutazioni delle loro strutture, anche se le prime notizie affermano il contrario. Questo panico creato delle gang nel bel mezzo della quarantena d’emergenza potrebbe essere un’anteprima di come sarà la vita sociale nel salvadoregno post-pandemia, che non a caso la si sente stranamente simile a come era prima del coronavirus.

L’orizzonte della decarcerazione non è ancora visibile a El Salvador. Lo Stato e il popolo sono impreparati per ripensare la situazione delle carceri, anche temporaneamente, come in Iran o persino in alcune parti degli Stati Uniti. Per le due pandemie a El Salvador: una diminuirà e sicuramente farà il suo corso a tempo debito attraverso il corpo politico, mentre l’altra, la cui utilità politica sembra smisurata, appare pronta per una nuova epidemia.

 

Publicato originariamente in spagnolo e in inglese su Revista – Harvard Review of Latin America. L’autore è  docente di Studi Latinoamericani, Latini e del Caribe presso il Dartmouth College. Scrive di questi temi su Twitter: @infrapolitics

Traduzione in italiano di Giulia Musumeci per DINAMOpress.

Immagine di copertina e foto dentro l’articolo di: Jorge Cuéllar