cult

CULT

Dylan, la gloria e il gesto musicale

Quale è il rapporto tra gloria, musica e gesto musicale? A due settimane di distanza dall’uscita dell’articolo di Francesco Raparelli, “Lei che dimorava nel canto”, riproponiamo una riflessione filosofica sulla musica a partire da Bob Dylan

I. Nella sua originale rilettura della tripartizione aristotelica delle attività umane, Hannah Arendt enfatizza la connessione tra prassi politica e parola, non tralasciando di sottolineare la potenza rivelativa di entrambe:

Data questa sua inerente caratteristica di rivelare l’agente mentre agisce, l’azione ha bisogno per il suo completo manifestarsi della luce splendente che un tempo era chiamata gloria e che è possibile solo nella sfera pubblica (Arendt 1958, p. 220).

La filosofa concepisce la gloria come la dimensione luminosa entro cui l’agente/parlante rivela se stesso dandosi a vedere. Rispetto a un così celebre punto di riferimento teorico, questo breve scritto – che nasce in risonanza all’articolo di Francesco Raparelli Lei che dimorava nel canto  – propone due spostamenti: 1) mettere in discussione il legame, apparentemente privilegiato, tra gloria e visione attraverso una riflessione sull’apparire musicale; 2) pensare la gloria non tanto come la dimensione in cui un agente si mostra, ovvero mostra chi e che cosa è, ma piuttosto come la tonalità emotiva entro cui si celebra il non essere relativo (non essere più, non essere identico a sé) dell’agente stesso.

II. Come pensare la gloria in una prospettiva musicale? E come farne il proprium di una famiglia tanto larga di forme espressive, legate le une alle altre da somiglianze a volte inappariscenti e sotterranee? Per pensare la gloria non come un carattere espressivo tra gli altri, un moodparticolare, ma come un aspetto imprescindibile della musica tout court, si può riprendere la riflessione dedicata da Peter Kivy al rapporto tra suono e sentimento. Pur negando la rilevanza estetica di quei processi associativi che tendono a innescare un ‘contagio’ emotivo tra musica e ascoltatore, il filosofo americano non esclude che la musica possa suscitare almeno unsentimento.

Lo schema triadico per cui un’emozione ha un oggetto, implica una credenza e suscita una reazione sentimentale può così essere applicato al caso dell’arte dei suoni:

L’oggetto dell’emozione è, in una parola, la bellezza della musica; la credenza è che la musica sia bella; il sentimento è il tipo di eccitazione o di euforia o di stupore o di meraviglia… che una tale bellezza comunemente suscita (Kivy 2002, p. 159).

Tralasciando tutti i casi di eccitazione spuria in cui una determinata musica muove gli affetti verso una certa direzione, gioiosa o malinconica, trionfante o meditativa, l’esperienza della bellezza musicale suscita sempre lo stesso tipo di sentimento, quello che Kivy non esita a definire «emozione musicale»: «Ebbene, è il sentimento di eccitazione o euforia o entusiasmo… che si ha quando si sta ascoltando musica grande, meravigliosa, magnifica» (ibid.).

La circolarità del ragionamento non deve portare per forza a una riprovazione: il tentativo di Kivy mostra semplicemente una strada per pensare la compatibilità tra autonomia musicale (o, se si vuole, formalismo) e risposta emotiva dell’ascoltatore, condotto dal gioco dei suoni al tripudio. Senza addentrarci nelle sottigliezze del dibattito analitico, tratteniamo il punto che ci interessa: quella di Kivy pare una buona descrizione della gloria musicale. Da intendersi non come ‘contenuto’ della musica, vale a dire come argomento o soggetto di una misteriosa raffigurazione musicale, né come uno dei sentimenti che la musica di volta in volta può suscitare nell’ascoltatore. L’andamento dolente di un Requiemcosì come la gioia superficiale e travolgente di un valzer possono essere a pari titolo ottimi esempi  di quel che Kivy chiama «emozione musicale» e che, in queste righe, chiameremo gloria.

III. La gloria costituisce la risonanza passionale di chi si trova investito dalla grazia. Come anticipato, una simile esperienza viene abitualmente interpretata in termini visivi, come splendore e luminosità; bisogna ora però chiedersi se di un simile apparire si dia una declinazione auditiva. Il pregiudizio secondo cui la musica sarebbe qualcosa da ascoltare esclusivamente con le orecchie, possibilmente con attenzione e in un clima di raccoglimento, tende a escludere dall’esperienza del suono ogni riferimento al corpo; contro un simile pregiudizio, propongo di affrontare il tema dell’apparire musicale – condizione perché si dia gloria – attraverso la nozione di gesto.

Abituati a pensare, secondo un paradigma semiotico, che il gesto sia portatore di significati, dimentichiamo facilmente l’etimologia latina che fa del gestus (part. pass. di gero) un portato, vale a dire una sedimentazione di scambi già avvenuti. Come scrive Giorgio Agamben, commentando un passo di Varrone, «ciò che caratterizza il gesto è che, in esso, non si produce né si agisce, ma si assume e si sopporta» (Agamben 1996, pp. 51-52). Uscendo dall’alternativa tra azione e produzione, il gesto non è fine a se stesso ma, in modo del tutto diverso, è un’assunzione integrale del mezzo in quanto tale: il gesto non aggiunge legna da ardere nel falò della comunicazione ma, come il roveto che non si consuma, sospende ed espone una facoltà espressiva, sollevandola dalla sua funzione.

La circolarità della definizione di Kivy (l’emozione musicale è quella che si prova al cospetto del bello musicale) assume ora un aspetto meno irragionevole: la musica non è una forma espressiva fine a se stessa ma un gesto, una manifestazione del medium nella sua purezza. All’asfittico autofinalismo dell’art pour l’art si sostituisce il movimento riflessivo in cui il mezzo mostra sé.

IV. Sulla stessa lunghezza d’onda, Luciano Berio scrive: «mentre il segno è ciò che può eventualmente divenire, il gesto è ciò che è già divenuto» (Berio 1967, p. 61). Il gesto musicale (in particolar modo vocale) diventa il luogo in cui l’espressività del corpo si fa carico del proprio contesto e della propria storia, disattivando l’alternativa tra natura e cultura in una «liturgia» (ibid.) che non richiede di essere decrittata ma messa in scena. Sospeso tra le due tendenze opposte che lo vorrebbero ridurre a gesticolazione gratuita (movimento puro) o a segno (puro senso), il gesto si propone come incarnazione del linguaggio in cui, con un’espressione di Alain Badiou, il dire viene deposto in un detto.

Facendo ciò, il gesto musicale non si affida all’universale comprensibilità dei codici corporei, a segnali somatici univocamente interpretabili, ma instaura un gioco di confronti e scontri con il contesto in cui si inserisce.

Per essere creativo il gesto deve poter distruggere qualcosa, deve essere dialettico e non privarsi del suo “teatro”, anche a costo di sporcarsi – come direbbe E. Sanguineti – nel fango, nella plus putredinis dell’esperienza. Deve cioè poter contenere sempre un po’ di quello che si propone di superare (Berio 1963, p. 35).

Esposizione di una medialità, il gesto musicale trattiene il mezzo sospendendone la funzione; non comunicativo, esso presuppone la familiarità con codici e linguaggi lungamente praticati; nutrito di storia e di sforzi collettivi («un gesto lo si può fare, non inventare», ivi, p. 30), la sua espressività risuona in modo singolare e fulmineo.

V. Ci si può giustamente domandare dove inizi e dove finisca un gesto musicale. Una frase, una cadenza? O un intero brano? Il gesto musicale è puntiforme – una singola battuta – o si snoda nel continuumdell’andamento musicale? Estremizzando i termini della questione, si può arrivare a concepire un gesto musicale che duri quanto un’intera carriera; il musicista che meglio di chiunque altro incarna questa dimensione incessante del gesto è certamente Bob Dylan.

Qual è il gesto che Dylan non si stanca di compiere? Si potrebbe dire che Dylan non fa altro che differire, nel duplice senso di «rinviare» e di «essere differente». Sono ormai più di cinquant’anni che Dylan “non è più lui”: questo gli rimproverarono i puristi del folk quando al festival di Newport nel 1965 osò imbracciare una chitarra elettrica; allo stesso modo, questa fu l’ammissione sconsolata dei fan dopo un periodo di lontananza dalle scene a causa di un misterioso incidente motociclistico, dal quale riemerse con album come John Wesley Harding (1967), Nashville Skyline (1969) e soprattutto l’enigmatico Self Portrait(1970), autoritratto in cui Dylan appare però irriconoscibile (cfr. Dylan 2004). Non sarà più lui quando, come ricorda la voce registrata che attualmente introduce i suoi concerti, trovò Gesù alla fine degli anni Settanta come cristiano rinato; non era più lui quando nel 1997 cantò davanti a papa Giovanni Paolo II Blowin’ in the Windné quando, più recentemente, ha inciso una triplice album di canzoni tradizionali americane. Dylan delude costantemente e chi periodicamente si rallegra del fatto che sia tornato ai fasti del passato (lo si dice, più come una speranza che come una constatazione, praticamente all’uscita di ogni nuovo album) incorre in un semplice errore di prospettiva. Come recitava il titolo di un film dedicato alla sua vita (I’m not there di T. Haynes, 2007), Dylan semplicemente non è qui.

VI. Il gesto musicale di Dylan realizza una differenza e attua un differimento. La sua voce, sempre più roca e svuotata, ripassa sui versi delle sue canzoni reinventandone la metrica, in un continuo spostamento d’accento rispetto alle aspettative dell’ascoltatore. In rari casi si è assistito in ambito musicale a un simile uso dissipativo di sé, privo quasi del tutto della preoccupazione della riconoscibilità e della durata, programmaticamente infedele a se stesso. La performance dal vivo diventa allora tutt’altra cosa da una mera esecuzione o interpretazione di un testo: Dylan non riattualizza le proprie canzoni (poiché in realtà le versioni incise ne sono solamente l’istantanea al momento t), ma più radicalmente, lungo i decenni, egli continua a comporle.

Il suo gesto è la dilatazione di un apparire, l’indefinita prosecuzione del suo non essere più se stesso, l’incessante rinvio a un tempo che non si compie. Anche laddove ci sarebbe motivo di pensare che la storia abbia dato ragione alle sue profezie. Due esempi di ciò: la performance del 2010 alla Casa Bianca e il Premio Nobel nel 2016.

Davanti al primo presidente afroamericano degli USA, durante una celebrazione in onore del Civil Rights Movement, Dylan non canta trionfalmente la vittoria di un principio ma manifesta in maniera dolente la gloria di non essere più, di non essere ancora. Come recita il titolo della canzone che in quell’occasione decide di stravolgere, i tempi stanno (ancora) cambiando.

La sua stessa arte “non è”: le polemiche sul Nobel per la letteratura evidenziano l’irriducibilità della sua produzione a una specifica forma artistica. Ma chi rifiuta alle sue parole, orfane della musica, il riconoscimento letterario sbaglia meno di chi difende la sua appartenenza al mondo musicale per via di una prolifica attività discografica.

Se così può essere definita, la musica di Dylan è un gesto sempre in via di compimento ma che ancora non cessa di manifestare la gloria del suo dileguarsi.

 

BIBLIOGRAFIA

AGAMBEN, Giorgio

1996, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino.

ARENDT, Hannah

1958, The Human Condition, trad. it. Vita activa, introduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1989.

BERIO, Luciano

1963, Del gesto e di Piazza Carità, in Id. Scritti sulla musica, Einaudi, Torino 2013, pp. 30-36.

1967, Del gesto vocale, in Id. Scritti sulla musica, Einaudi, Torino 2013, pp. 58-70.

DYLAN, Bob

2004, Chronicles. Volume One; trad. it. Chronicles. Volume 1, a cura di A. Carrera, Feltrinelli, Milano 2005.

KIVY, Peter

2002, Introduction to a Philosophy of Music, trad. it. Filosofia della musica. Un’introduzione, a cura di A. Bertinetto, Einaudi, Torino 2007.