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CULT

Lei, che dimorava nel canto

La musica non è un’esperienza estetica tra le altre. Ne va di un certo rapporto col territorio che siamo, con la paura, con la gioia di vivere. Tanto che varrebbe la pena dividere la musica secondo due direzioni: quella che ci trascina via e ci fa perdere i nostri perimetri individuali; quella che ci inchioda dove siamo

1. In un capitolo mozzafiato del loro I ribelli dell’Atlantico (Linebaugh e Rediker 2000), quello dedicato a Francis, la «serva mora», Linebaugh e Rediker chiariscono l’uso che diggers e ranters (le componenti politiche e religiose più radicali nella Rivoluzione inglese) facevano delle parole di Paolo di Tarso, negli anni quaranta del Seicento. La gloria scende sulla terra, e attraversa tutti, ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne. Di più: a splendere della luce di Dio, a conquistare Sion, la Nuova Gerusalemme, saranno schiavi e mendicanti; finalmente liberi. D’altronde, leggiamo nella Lettera ai romani:

 

Ritengo in effetti che le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria che si disvelerà in noi. Il mondo creato è in attesa spasmodica del disvelamento dei figli di Dio. Perché è stato posto sotto il dominio della nullità – non di sua volontà ma a causa di chi ve l’ha sottomesso – nella speranza che anch’esso, il mondo creato, sarà liberato dalla schiavitù della corruzione per giungere alla libertà gloriosa dei figli di Dio (Romani, 8, 18-21).

 

«Tagliatori di legna» e «attingitori d’acqua», «i più poveri e meschini»: saranno loro a rompere le catene. Per tutti loro, la gloria è già vibrazione, scossa, «fulgore interiore»; nel rapporto con le scritture e nell’esperienza di lotta. Segni inequivocabili della gloria: «gemiti, ululati, digrignare di denti, urla di dolore». E, chi viene toccato, si trasforma, smette di stare al suo posto e di rispondere “signor sì”, sfida i potenti. Dio è dappertutto, e ama le sue creature senza distinzione. Le creature, battendosi contro la schiavitù, rendono gloria a Dio; amandolo, esplodono di gloria, «dolce e indicibile gioia […] che vive dentro ed erompe verso l’esterno», come chiariscono i ranters.

2. Oltre la lotta dei poveri, che rovescia il mondo upside down, c’è anche un’altra esperienza capace di esibire con forza la gloria: la performance artistica; quella musicale in particolare. Kafka lo capì come nessun altro, raccontando la sua Josefine, la cantante. La topolina, con fischio esile ma ineguagliabile, cantando fa sognare il suo popolo; sognando, il popolo dei topi diventa bambino e conquista, anche se solo per un attimo, la libertà. È come se fosse esposta alle raffiche di vento, quando canta, Josefine: sottratta a se stessa, non può che sentire tutto, ma proprio tutto; caccia via la tristezza del popolo che, ascoltandola, si stringe e finalmente si scalda. Con Josefine, Kafka afferra il rapporto decisivo tra il canto e la gloria, la musica e la libertà. Di più: passa per il divenire-animale, il popolo dei topi appunto, ma sa che è anche, e sempre, un divenire-donna dell’arte, della voce, dell’infanzia. La forza bambina di Josefine rompe le «catene della vita quotidiana»; così, manifesta la gloria, la gioia dolce che promana ovunque, con le note del suo canto. Ammirata, come chiede di essere ammirata, il suo è un gesto d’amore infinito. L’amore col quale l’universo si ama; tramite Josefine.

3. Il nostro tempo, e quanto lo abbiamo atteso, è quello delle cantanti. Forse non c’è stata mai epoca musicale che non fosse la loro. Ma ora è diverso, il divenire-donna dell’arte non conosce più limiti, avanza ovunque e, per nostra fortuna, ci illumina in un mondo ormai buio, dove al dolore si aggiunge dolore. La danza è da sempre donna, ma la musica non è mai stata donna come adesso, che sia pop, rock, jazz, classica, elettronica, ecc. Nel vento nuovo, che forse sarà la nostra salvezza, volano le stelle. Non saremo sofisticati: per fare i conti con problemi ontologici ed etici decisivi, la singolarità della cantante e la potenza della gloria, soffermeremo per un attimo lo sguardo sulle voci della scena rock-pop, black and white. Erykah Badu e Tori Amos, Lauryn Hill e Alanis Morissette, Norah Jones e Fiona Apple, Cat Power e Martina Topley Bird, Bjork e PJ Harvey, CocoRosie e Ibeyi: no, non è una classifica; né stiamo passando in rassegna sovversive estranee allo showbiz, anzi. Nella loro voce, spesso impetuosa e imbattibile, spesso imprecisa e fragile, ci sono segni della gloria che cerchiamo. Spesso, nella loro giovinezza, sono state vittime di violenza sessuale; spesso, sono donne nere che hanno abbandonato i loro nomi di schiave; spesso, sono sorelle. La voce che esplode con il piano o con la danza, allora, sta lì che gira il mondo upside down. Le loro vite, spesso maledettamente pubbliche, si fanno insopportabili; nel senso che non le sopportano loro, quanto noi. Ma nella vita in cui ogni gesto è già in scena, il canto è una via di fuga. La cantante è ispirata, posseduta, strattonata dal suo canto, come una raffica di vento che spazza via le nuvole.

4. Torniamo a Josefine: cosa fa, propriamente? Fischia, niente di più. Per il suo popolo, che è quello dei topi, fischiare è un’abilità comune e peculiare, una «caratteristica espressione di vita». Tutti, ma davvero tutti, non fanno altro che fischiare (il linguaggio dei topi). Solo Josefine, però, è la cantante. Pur essendo un fischio, che semmai si distingue per debolezza, il suo non è solo un fischio. L’enigma di Josefine, l’enigma dell’artista. Per capire, per cogliere il canto nel suo fischio, non basta ascoltarla, bisogna anche vederla. Vedendola, soprattutto vedendola vibrare in modo angosciante al di sotto del petto, i topi vengono trascinati via dalla sua bellezza, scaldati dalla sua potenza. Riaffiorano i sogni, per un attimo il popolo fugge dalla durezza della vita di tutti i giorni; un attimo di libertà. Chiarisce Kafka: schiacciare noci non è un’arte. Ma se qualcuno riesce a radunare un pubblico, facendolo? Beh, tutto cambia. Ciò che sembra una comune abilità, d’improvviso, diviene un’arte. È solo il pubblico a fare l’arte? In parte. Il pubblico, infatti, si raduna per un motivo preciso, per l’artista. Allora si tratta di capire cosa fa, precisamente, l’artista. Scrive Kafka di Josefine:

quella creatura delicata […] è come se avesse concentrato ogni sua forza nel canto, come se tutto ciò che non serve al suo canto fosse privato di ogni energia, quasi di ogni possibilità di vita, come se lei fosse spogliata, esposta, affidata solo alla protezione di spiriti buoni, come se un alito di vento freddo potesse ucciderla passandole accanto mentre lei, sottratta a se stessa, dimora nel canto (Kafka 1924, p. 52).

Se i topi fischiano come camminano o respirano, senza pensarci, Josefine vive cantando: non può vivere altrimenti. Lì, nel canto, ogni forza si concentra. Ma attenzione, lo abbiamo appreso prima, il suo fischio è più esile di quello degli altri topi. Allora cosa fa, propriamente, l’artista del canto? Interrompe la distrazione della padronanza, dell’automatismo: dimorando senza resti in una comune abilità, ne esibisce l’increspatura.

4. Un francescano assai sottile nel pensiero, Duns Scoto, ha “lavorato” con tenacia una nozione ontologica decisiva: la singolarità. Che significa chiedersi: cosa fa di questo topo proprio questo e non un altro? La risposta, senza girarci attorno, è la seguente: la singolarità è «l’ultima realtà della forma» (Ordinatio, II, 3, Q 6, § 180). Al posto di forma, potremmo dire essenza o, meglio ancora, «natura comune». L’attualizzazione situata e cangiante di una «caratteristica espressione di vita», per combinare il lessico di Scoto con quello di Kafka, è ciò che rende possibile distinguere un topo dall’altro. Ma permane il problema: come si distingue un semplice topo da Josefine? Inciampando con eleganza dove gli altri camminano veloci; balbettando giocosamente mentre tutti, monotoni, non perdono una battuta; fischiando con fischio tenue, mentre gli altri non hanno problemi a farlo col “giusto” tono, ovvero quello di sempre: attualizzando in modo maldestro la natura comune, l’artista la mostra anche (sul tema dell’animale maldestro, cfr. Virno 2015). Il movimento dell’artista, allora, è doppio: sprofondando nella natura comune (Josefine dimora nel canto), ne esibisce l’increspatura; esibendo l’increspatura, manifesta l’essenza. Torniamo ai topi: tutti fischiano, ma non lo sanno. Sono così padroni della loro abilità, che procedono in modo automatico; come si respira. Così padroni che, della loro comune abilità, non colgono ciò che conta. Josefine, invece, coincide col suo fischio. Nel farlo, fischia come gli altri, ma anche diversamente: più tenue, più debole. Il suo fischio debole – che la trascina via ispirata, togliendo energie a tutto ciò che non serve al canto – svela l’essenza del fischio, il comune linguaggio dei topi. Esponendo la natura comune, perdendosi, espone come nessun altra se stessa, la sua singolarità. Una doppia esibizione, che ha la capacità di liberare il fischio dalle «catene della vita quotidiana» e, quindi, di liberare per qualche tempo il popolo dei topi.

5. Ma c’è una natura ancora più comune della comune abilità “linguistica” dei topi: la loro infanzia. Josefine, è un po’ bambina. Infantile, in un popolo che non conosce giovinezza, che corre veloce verso la vita adulta, marginalizzando senza sosta la propria infanzia. Rimanendo bambina, Josefine canta; non si limita a fischiare. Altrettanto però, cantando, Josefine fa riemergere in primo piano la sua infanzia. Facendo questo, afferra l’infanzia – «spenta» ma «inestirpabile» – del popolo dei topi. Quali sono i tratti della natura infantile? Ostile alla parte migliore dei topi, «l’infallibile intelligenza pratica», l’infanzia coincide con la smagliatura, il comportamento «stolto» o «scialacquatore», «generoso» e «sventato», «solo per divertirsi un po’». Usando nuovamente Duns Scoto: l’infanzia è tanto l’essenza quanto, dell’essenza, l’ecceità o increspatura. Solo con Spinoza, qualche tempo dopo il francescano, l’essenza diventa finalmente singolare (una «forma accidentale»), in via di costante attualizzazione, «zona di indeterminazione» tra potenza e atto. L’infanzia degli individui. L’artista, la cantante, è la sola che questa infanzia sa cogliere, solleticare, far riemergere dagli abissi.

6. È stato Augusto Illuminati, nel suo Spinoza atlantico (Illuminati 2008), a mettere in relazione le parole dei diggers e dei ranters con l’Etica. La gloria compare in primo luogo nella terza parte: la gioia che proviamo quando, agendo, veniamo lodati dagli altri. Siamo ancora, però, nel mondo dell’immaginazione e delle passioni. E il desiderio di gloria può trasformarsi in ambizione smodata: pur di ottenere il plauso del volgo, siamo disposti a tutto, alla menzogna come all’efferatezza. Nella quinta parte dell’Etica, quando si raggiunge il terzo genere di conoscenza, ovvero l’amore intellettuale di Dio (sive Natura), la gloria coincide con la beatitudine. L’amore con il quale la nostra mente ama la natura e le sue regole di composizione, ama se stessa e la sua produttività, è lo stesso amore col quale Dio si ama. In questa condizione di grazia, infatti, l’idea della mente non è più il corpo con le sue affezioni, ma lo stesso come potenza, parte o grado dell’infinita potenza produttiva della natura. Quando è possibile, propriamente, fare questa esperienza di eternità? Spinoza, che era un materialista, risponde: facendo uso comune di ciò che è comune, l’intelletto, nella prassi democratica come nell’esperienza estetica. Scrive, infatti, nello Scolio della Proposizione 45 (parte IV):

Dico che è dell’uomo saggio rifocillarsi e ricrearsi con moderato e piacevole cibo e bevanda, come pure con gli odori, con l’amenità delle piante verdeggianti, il bel vestire, la musica, gli esercizi del corpo, gli spettacoli e le altre cose simili, di cui ognuno può usare senza alcun danno per gli altri (Spinoza 1675, p. 194).

Saggezza, che coincide con l’essere attivi o liberi, è una regola di vita comune, non una condizione privilegiata degli spiriti raffinati. E solo nella conquista per nulla irenica delle istituzioni democratiche, quelle nelle quali non si rinuncia mai al diritto di resistenza, è possibile afferrare un po’ di saggezza. La potenza della moltitudine che genera senza sosta, come una fonte, il potere politico e fa uso comune di ciò che è comune: questo è un segno della gloria scesa finalmente in terra.

7. Non sappiamo se c’è qualche combinazione, anche sotterranea, tra le cantanti “gloriose” e la marea femminista. Forse, si tratta di fenomeni paralleli, pure se spesso privi di sincronismo – le prime, infatti, sono per la maggior parte esplose negli anni Novanta, per dilagare negli anni zero. Fenomeni a volte privi di ponti e congiunzioni; a volte, addirittura, indifferenti. Semmai esistono rapporti pubblici, anche importanti, tra le cantanti nere e Black Lives Matter. Eppure dovremmo provare a servirci di uno sguardo capace di insistere sui nessi invisibili, di cogliere, cioè, forze telluriche che non necessariamente si esprimono in fenomeni omogenei, politicamente dialoganti. Il divenire-donna dell’arte e della musica, forse, si combina in forme difficili da decifrare con il divenire-donna dei movimenti, della politica (cfr. Posse 2003), della guerriglia (Kobane, Afrin, ecc.), del diritto di resistenza (Ahed Tamimi). Mentre il mondo bianco e maschio alza muri ovunque, dispone la guerra contro la società, i poveri, le donne, i migranti, c’è un intreccio di lotte e di corpi, di affetti e di parole che sta cominciando a prendere il volo. La sfida – decisiva per la nostra epoca – dell’intersezionalità che, come chiarisce Angela Davis (Davis 2016), non è un nuovo giochino accademico, ma la combinazione priva di gerarchia delle battaglie, delle pratiche. Noi aggiungiamo: l’intreccio della gloria e dei suoi segni, siano essi etici, estetici, politici.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

DAVIS, Angela

2016   |   Freedom Is a Costant Struggle, trad. it., La libertà è una lotta costante, a cura di Valentina Salvati, Ponte alle Grazie, Milano 2018.

 

DUNS SCOTO

2011   |   Il principio di individuazione, a cura di Antonello D’Angelo, Società Editrice Il Mulino    MMXI, Napoli.

 

KAFKA, Franz

1924   |   Ein Hungerkünstler. Vier Geschichten, trad. it, Un artista del digiuno, a cura di Gabriella de’ Grandi, Quodlibet, Roma 2009;

 

ILLUMINATI, Augusto

2008   |   Spinoza atlantico, Ghibli, Milano.

 

LINEBAUGH e REDIKER

2000   |   The Many-headed Hydra. Sailor, Slave, Commoners, and the Hidded History of the Revolutionary Atlantic, trad. it., I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, a cura di Bruno Amato, Feltrinelli, Milano 2004.

 

PAOLO di Tarso

2009   |   Lettere, a cura di Giuseppe Barbaglio, BUR Rizzoli, Milano.

 

“POSSE”

2003   |   Il divenire-donna della politica, marzo, manifestolibri, Roma.

 

SPINOZA, Baruch

1675   |   Ethica more geometrico demonstrata, trad. it., Etica, a cura Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

 

VIRNO, Paolo

2015   |   L’uso della vita, in L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Roma.