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Da “Don Lisander” alla “Calusca”. Autobiografia di Primo Moroni

Nel gennaio del 1983, Cesare Bermani registra alla Calusca questa lunga conversazione con Primo Moroni. La trascrizione, che qui pubblichiamo per intero, costituisce un vero e proprio documento autobiografico, ripercorrendo la vita di Moroni fino al 1972

Io sono nato nel 1936 in una famiglia di emigrati interni, contadini toscani della Vai Di Nievole, che come tutti sanno fanno prima i camerieri e poi finiscono per aprire una trattoria o un ristorante a Milano. Mio padre era monarchico, una brava persona che pensava che il re avrebbe aggiustato tutto questo casino italiano del dopoguerra. Era venuto a Milano negli anni Trenta e aveva un negozio di friggitoria castagnaccia, i “Gigi della ‘gnaccia” si chiamavano. Negozi del genere erano allora molto in uso a Milano. Poi nel dopoguerra avevamo una trattoria in via Ripamonti al centodiciannove, frequentata quindi dagli operai dell’OM e della Centrale del Latte, che è una nota storica sede comunista. Così nel 1953 mi sono iscritto alla Sezione del PCI di via Bellezza, al Parco Ravizza, perché quelli che venivano in trattoria erano tutti quanti comunisti. Vicino alla Sezione c era una sala da ballo, il Principe di viale Bligny, ed è li che ho cominciato a ballare.

 

Ho smesso presto di andare a scuola, come si usa in queste famiglie toscane. Ho fatto la seconda media, ma poi non funzionavo e mi hanno mandato all’avviamento professionale, dove allora si andava a scuola in tuta e si faceva lima e tornio. Poi li ho dato una martellata a un professore e mi hanno espulso dalla scuola, mio padre s’è incazzato e m’ha messo a lavorare in trattoria. E siccome non riuscivo bene, per svezzarmi m’ha mandato da un certo Eligio Isaia Merini, un profugo di Mauthausen gigantesco, alto circa due metri, che aveva imparato il mestiere di addestratore di cani dai tedeschi e aveva aperto in via Bellezza una scuola di addestramento cani. E ho lavorato con lui per un anno ad addestrare pastori tedeschi, molossi napoletani e altre belve allucinanti. Con questo Merini, che si rotolava per terra e faceva a botte con questi cani giganteschi, ho fatto il mio primo mestiere. Poi mio padre comprò un grande ristorante in via Larga, che era allora una grande via popolare, vicino al Bottonuto, un quartiere malavitoso al cui posto adesso c’è un grande palazzo in via Albricci. Allora però era un quartiere con quattro vie e una piazza, tre case di tolleranza e molta malavita. Il nostro ristorante era davanti al Teatro Lirico e si chiamava Firenze Mare, in un secondo tempo Alla Bella Toscana. E qui venivano a mangiare alle undici del mattino le prostitute della casa di tolleranza di via Chiaravalle, perchè cominciavano il lavoro nel pomeriggio. Mia madre le trattava male, gli metteva sempre più sale del necessario perchè non le voleva, mentre queste donne erano invece persone gentilissime e poi a me giovane interessavano moltissimo perchè speravo sempre che mi facessero entrare prima dei diciotto anni in queste case di tolleranza. Poi alle sei venivano quelli delle riviste, di Dapporto o di Macario, perchè in teatro si mangia prima dello spettacolo. Ed è li in via Larga che ho imparato a fondo l’unico mestiere da giovanissimo, quello dei ristoranti, in un ristorante abbastanza di lusso dove venivano a mangiare molti industriali.

Verso i sedici anni, siccome a casa mi rompevano i coglioni perchè andavo in giro di notte, tornavo alle due o alle tre e prendevo un sacco di botte, me ne sono andato a lavorare come commis da Don Lisander in via Manzoni, poi mi hanno passato demi-chef e sono andato da Alfio, dove allora si serviva in smoking e con i guanti bianchi.

In seguito sono stato tre mesi a perfezionarmi alla scuola alberghiera di Stresa e ho cominciato a fare delle tourné, accettando cioè degli ingaggi. Al Negresco di Cannes sono passato chef de rang, che era un mestiere altamente redditizio, terribile per il tipo di orario che si faceva, perché si entrava alle Otto e si usciva alle tre del pomeriggio, si rientrava alle sei e si usciva a mezzanotte, quindi circa quattordici ore di lavoro al giorno. Però in quegli anni, parlo del Cinquantacinque-Cinquantasei, riuscivo a guadagnare dalle cinquecento alle settecentomila lire al mese, che erano moltissime. E siccome non le potevi spendere di giorno perché eri sempre al lavoro, le spendevi di notte andando nei night club a fare il cliente. Ed è nei club di lusso che ho conosciuto le prime donne, delle entreneuses di cui mi innamoravo regolarmente pensando di avere il dovere di toglierle da quel mestiere e di portarle sulla retta via, cioè a fare le oneste donne di famiglia.

 

 

Ma, in questo senso almeno, mi mandavano sempre a dar via il culo. Avevo delle delle relazioni che non pagavo, nel senso che ci innamoravamo. Io ero giovane – non ero uno di quei vecchi che vanno nei nights – ero gentile, avevo soldi in tasca e da parte loro c’era quindi un po’ d’interesse e un po’ d’affetto, ma non gli passava neanche per il cervello di smettere di fare quel mestiere. Invece io sognavo che smettessero, gli avrei preso un appartamento, e loro sarebbero state a casa a fare la donna di famiglia. Il ristorante allora era una cosa molto rigorosa. I ristoranti dove lavoravo io avevano già cifre intorno alle dieci-dodicimila lire a cranio e la loro struttura interna era fortemente gerarchizzata: c’è un maitre, ci sono degli chef ci sono dei demi-chef poi dei commis, i quali non contano un cazzo e pigliano insulti da tutti. Inoltre c’è questa figura magica che è lo chef di cucina, che ha intorno una serie di altri che e che ha poteri assoluti persino sul maitre di sala. E un intoccabile. Quindi finisce spesso a coltellate con questi cuochi perché sono pazzi furiosi, nevrotici, e per di più allora tu avevi davanti un pubblico che ti trattava con estrema durezza.

A Milano da noi veniva a mangiare tutta la famiglia Treccani: il padre Ernesto, senatore e il figlio che invece era un pittore comunista ma non disdegnava di frequentare questi locali con il padre. Veniva anche un raffinatissimo signore che aveva ereditato il titolo di Treccani degli Alfieri, completamente pelato ma che tuttavia mangiava solo in linea di tartufi e funghi. E ricordo che subimmo un assalto dalle operaie del Cotonificio Ticino, che era di proprietà dei Treccani.

Avevano individuato che mangiavano in questo ristorante e un giorno lo assaltarono. E, vergogna per un comunista, feci scappare il senatore Treccani dalle cantine, invece di consegnarlo alla classe operaia in lotta. Ma a quei tempi un cameriere non poteva far capire troppo di essere comunista… Comunque questo lavoro mi permetteva già da giovanissimo di girare, di andare sulla Costa Azzurra, in Germania o in Svizzera usando quelle lingue necessarie in ristorante, cioè quelle trecento-mille parole che riguardano il lavoro, perché i camerieri in realtà non conoscono quasi mai le lingue. Soprattutto questo lavoro mi ha permesso di introiettare fortemente i modelli dei miei clienti. Questo è il secondo rischio maggiore del nostro mestiere: guadagni molto, sei di estrazione di strada, magari un po’ proletaria, e non hai granché buon gusto nel vestire, mentre ti trovi davanti questi tuoi clienti che hanno un buon gusto sviluppatissimo. Una delle cose che più mi colpiva era che questi qui avevano sempre la camicia bianca che usciva dalla giacca e faceva un bell’effetto. Invece le camicie che compravo io, per quanti sforzi facessi, non venivano mai fuori dalla giacca, e non riuscivo ad avere questo effetto estetico del polsino bianco che fuoriesce dalla giacca.

E un giorno ho domandato come mai a un commerciante di seta. Mi disse: “Ma figlio mio, le camicie si fanno fare su misura, non si comprano già fatte!”. Scoperta questa cosa misteriosa, domandai: “Ma lei dove le fa fare?”. “Io le faccio fare da Carucci in corso di Porta Romana”. Mi precipitai là e scoprii che una camicia su misura costava venticinquemila lire, cioè una cifra enorme. Ma feci fare queste camicie. Dopo tre anni che facevi il mestiere, fuori dal lavoro cominciavi lentamente a vestirti come il padrone che servivi, introiettavi cioè questa figura di borghese colto e raffinato che avevi davanti, e andavi a comprare le scarpe da Fragiacomo e i vestiti da Tosi o da Tadini. Mi sono comprato persino un Piaget extrapiatto. “Ma come cazzo trovano ‘sti orologi?”, continuavo a domandarmi. Sicché quando uscivo ed entravo nei locali avevo tale e quale l’aspetto dei miei clienti.

Invece quando andavo in Sezione mi cambiavo, perché mi vergognavo ad andarci vestito così. Magari mettevo un maglione, perché avevo la sensazione che gli altri compagni mi avrebbero guardato male. Gli operai in Sezione ci andavano con la camicia e la cravatta, però erano materiali da grande magazzino. Qualcuno si serviva da sarti di quartiere, figura ora scomparsa, ma il taglio dei loro abiti era approssimativo. Essendo interessato alla politica, benché non avessi cultura, ascoltavo enormemente i discorsi di certi miei clienti e ho così appreso una massa incredibile di informazioni. Perché insomma mi ricordo di avere servito la Cederna giovanissima, Arbasino, Calvino, Vittorini e moltissimi giornalisti di piazza Cavour. Questi qui a tavola parlavano di autori, di percorsi, di letteratura, e poi io andavo nelle librerie e compravo disperatamente i libri e le riviste di cui parlavano, fino alla svolta di comperare “Les temps modernes”, che leggevo con grande sforzo e ostentavo molto. Questo capitava verso il Cinquantacinque. Compravo anche regolarmente “Cinema nuovo” perché al pomeriggio non avendo niente da fare e avendo poche ore a disposizione, andavo al cinema praticamente tutti i giorni. Se ero molto stanco mi addormentavo e siccome alle sei dovevo tornare al lavoro avevo dato una mancia alla maschera del Manzoni perché mi svegliasse se mi capitava. Giravo sempre in taxi, vedevo molti films e la notte andavo al night, tornavo regolarmente a casa alle quattro. Alle sette e mezza mi alzavo e tornavo al lavoro. Qualche volta poi recuperavo dormendo due giorni, quando ero di festa.

Ad un certo punto ho però scoperto che era più semplice fare le stagioni: fai tre mesi estivi e tre invernali, e se trovi l’ingaggio buono guadagni come se lavorassi tutto l’anno. Nei grossi ristoranti venivo a volte ingaggiato per una sera da famiglie molto ricche. Chiedevano al titolare il permesso e ci davano cinquantamila lire. Ho lavorato nel consolato rumeno, in quello del Perù e presso famiglie del giro dell’Italcementi che stavano attorno a via Turati e a Sant’Andrea. Così avevo modi di scoprire un mondo assolutamente incredibile, perché io avevo vissuto in case di ringhiera e onestamente in queste case c’erano una serie di aggeggi che un ragazzo allora non aveva mai visto, dai bagni enormi con tanti impianti igienici allo spreco di spazio, ai mobili antichi. Nei ristoranti scoprivi le attrezzature di posate, ed era già una grossa scoperta. Però in quelle abitazioni così complesse c’era anche una spregiudicatezza di comportamenti, perché in queste feste si scopavano, facevano dei casini allucinanti. E4 erano cose sorprendenti, tanto che quando andai a vedere La dolce vita mi dissi: “È vero, è proprio così. Fellini è grande”.

Quando andavo in Sezione o tornavo nella strada, l’assorbimento molto forte di indicazioni culturali recepite dai clienti e la tendenza all’identificazione con loro mi faceva sembrare a volte che i miei compagni fossero inferiori. Avevo questo dubbio e ogni tanto ne parlavo con qualche vecchio comunista. Quando poi in Sezione mi davano dei libri del realismo socialista, mi costrinsero a leggere tra l’altro il Klim Samglin di Gorkij questi del Partito, mi sembravano veramente scadenti. là Klim Samglin mi sembrò poi orrendo, ma non potevo dirlo perché mi dicevano che questa era l’opera socialista. Mi piacevano invece enormemente gli americani, Steinbeck, Hemingway, Faulkner, Dos Passos, e i francesi, a cominciare da Sartre. Però li avevo conosciuti più attraverso i colloqui con la clientela dei ristoranti che non tramite l’educazione impartita dal Partito in questo campo.

In quegli anni, quando avevo un giorno di festa, andavo spesso in sala da ballo. Dopo, la domenica uscivo alla sera. C’erano delle grandi compagnie di bar, tutte molto maschili e solidali, anche un po’ teppistelle e aggressive, tanto che poi nelle sale da ballo avvenivano episodi di violenza, risse gigantesche, botte da orbi. Noi andavamo quasi tutti in quei primi locali che erano definiti esistenzialisti, l’Aretusa, il Santa Tecla e la Taverna Messicana; oppure in sale da ballo da gara come La Fiorentina, Il Principe, La Meridiana. Ma le sale che andavano di moda erano ormai quelle di tipo esistenzialista, almeno definite tali. Ti vestivi un po’ all’americana, con giubbotti e blue jeans, dei foulards al collo, e dicevi che va beh, eri stanco, che insomma tu eri un esistenzialista, che avevi i casini tuoi, delle grandi tristezze e che il mondo non cambiava.

Bevevi un po’ di più, stavi magari un’ora seduto in un angolo, non parlavi con nessuno. “Sai lui è un esistenzialista, lascialo perdere”. In realtà tu avevi una gran voglia di andare a ballare ma dovevi recitare questa parte con le donne perché vedevi che ci cadevano, perché, come per tutti i giovani, il problema fondamentale era di scoprire la tecnica per entrare in contatto con questo cazzo di donne e dovevi inventare ogni volta una tua figura. Quando dicevo che facevo lo Chef de rang e lavoravo in ristorante, mi colpiva che le donne immediatamente dicevano “Ah, fai il cameriere”, perché invece io non ero cameriere, ero uno Chef de rang. E poi ti guardavano peggio che se tu avessi fatto l’operaio o l’artigiano, nel senso che per le ragazze quello del cameriere era un brutto mestiere, un mestiere da servo.

Un po’ questo e un po’ il fatto che lavorare come Chef de rang teneva veramente occupato troppo tempo, siccome facevo delle gare di ballo e riuscivo molto bene, ho deciso di fare il ballerino.

Bisogna ricordare che allora queste gare erano molto importanti, nel senso che il ballo era praticato in tutte queste nuove sale. Erano gare autorganizzate, si cominciava con i campionati per sala, poi si è arrivati a fare quelli cittadini e regionali. E imparavamo a ballare, cosi, automaticamente, in sala. Però nascevano anche delle scuole di ballo, per esempio Auric in via Cerva o Colombo in piazza del Duomo. Questi maestri di scuola da ballo organizzavano dei campionati per recuperare clienti. Dai campionati italiani arrivavi a fare quelli europei, e li entravi in contatto con altri ambienti perché il fenomeno era diffuso, riguardava certamente Francia e Svizzera. lo vinsi il campionato europeo di Charleston in Olanda. Si facevano trentadue passi diversi e la gara finale si faceva con Tiger rag, un pezzo che occorre fare viaggiare le gambe molto rapidamente per reggerlo. Bisognava fare la serie completa dei passi e tenere il ritmo, perché se andavi fuori ritmo venivi eliminato. E a Lione sono andato in finale ai campionati mondiali di rock and roll. Li vincevi una coppa e quando tornavi venivano a cercarti i proprietari dei locali per attirare gente. Facevi i numeri mischiato assieme agli altri, che si spostavano perché non reggevano quel ritmo li. E la gente veniva a bere per vedere questi numeri di ballo assolutamente nuovi.

Come campione, invece di pigliare duemilacinquecento lire e l’ingresso gratis, prendevi cinquemila lire. E se volevi, potevi fare carriera. Alcuni di noi ballerini di sala sono finiti in America quando è venuto Norman Granz con il Jazz at the Philarmonic. Se ne portò in America cinque o sei. Avrei potuto andare anch’io, ma non m’interessava. Tre sono ancora là in California, dalle parti di Beverly Hills: hanno una scuola di danza italiana e insegnano il tango e il valzer agli americani. Mi mandano ancora qualche cartolina. Un’altro invece tornò indietro dopo tre anni con una Thunderbird spettacolare. Si chiamava Athos, era un uomo alto ed elegante ed era uno specialista dei blues. Arrivò in via Larga all’angolo di Chiaravalle con questa Thunderbird bianca importata dall’America e immatricolata a Genova, proprio una scena da film americano degli anni Cinquanta. Eravamo convinti che fosse diventato miliardario, invece aveva preso una macchina di seconda mano con tutto quello che aveva guadagnato per arrivare poi nella via della banda con questa macchinona che faceva tre chilometri con un litro e non era quindi possibile mantenere. Allora noi avevamo solo vespe e lambrette… le automobili per noi sono arrivate dopo il Cinquantacinque. Tra noi la passione era di comperare l’Alfone mille e nove che era la macchina della polizia e dei randa. Intanto io ero andato a studiare danza classica dalla maestra Anita Bronzi, che aveva la sede sopra all’Anpi in via Mascagni. Lo feci spinto dalla mia morale comunista, cioè dai meccanismi tipici dei comunisti di quegli anni. Io avevo due mestieri, uno che mi piaceva – il ballerino – e uno che ero costretto a fare nei ristoranti. E allora, proprio per quel modello politico e culturale che avevo assimilato nel PCI, non potevo essere un cameriere. Se ero comunista dovevo diventare uno chef de rang, cioè un professionista. E se facevo il ballerino di sala non potevo limitarmi a fare le gare ma dovevo specializzarmi. Esattamente come se avessi fatto l’operaio avrei dovuto diventare operaio specializzato e, se fossi stato specializzato, caporeparto.

Cosi ho fatto due anni di danza classica perché, se ballerino dovevo essere, dovevo possedere i fondamenti scientifici della danza, secondo anche i colloqui che facevo con gli altri compagni comunisti. All’inizio andavo a lezione di pomeriggio, mentre continuavo a fare il cameriere. La ginnastica alla sbarra per educare le gambe è molto pesante e la Bronzi era una maestra molto severa. Fare dunque queste due ore di pomeriggio, dopo averne fatte prima sette in piedi in ristorante, voleva dire avere le gambe rotte. Però dopo due anni camminavo in modo diverso, perché quella ginnastica ti modifica la struttura del ginocchio e ti sposta la rotula verso l’esterno. E questa modificazione a permettere i salti, i giri, le piroette e tutto il resto. Siccome ero venuto fuori nel saggio abbastanza bene, questa maestra mi ha trovato degli ingaggi in avanspettacoli e nelle operette, dove si guadagnava molto poco, ma era una grossa avventura perché giravi tutta l’Italia. Con una compagnia di operette ho fatto Il Paese dei campanelli e Cin-ci-là.

La maggioranza di questi ballerini erano omosessuali, per cui il diverso ero io. In un’operetta a Trieste, di sei boys l’unico a non essere invertito ero io e provavo dell’imbarazzo di fronte agli altri. Quanto alle donne, nell’ambiente del teatro c’è anche molto senso della comunità. E quindi, anche se c’è molto affetto, non si scopa neanche tanto. Magari queste ballerine vanno con qualche spettatore, con clienti che li aspettano fuori in macchina, ma spesso è proprio per fame, perché guadagnavi troppo poco. Cinquemila-quattrocento lire al giorno di paga sindacale, cioè centocinquantamila lire al mese, per quegli anni li sembrano molte. Ma a mangiare al ristorante e a dormire in albergo non ti rimaneva nulla. Quindi, quando sentivo la mancanza di danaro, perché m’ero abituato con l’altro mestiere a vestirmi bene, ad andare nei locali di lusso, a vedere i films in prima visione, ritornavo magari per tre mesi in ristorante a lavorare. Poi tornavo di nuovo a fare il ballerino. E poi dopo andavo in Sezione e i vecchi compagni dicevano che non andava bene che facessi il ballerino perché era meglio fare carriera in ristorante, mettere via i soldi e aprire poi un proprio locale.

Si, in Sezione erano abbastanza contro al fatto che io facessi il ballerino, perché un comunista non deve fare il ballerino.

Invece il ristorante andava bene, nel senso che ero uno Chef de rang, ero un professionista. Inoltre lavoravo in ristoranti dove venivano a mangiare tutti quelli della Confindustria, da Pesenti agli altri, quindi io riferivo quello che dicevano a tavola. Allora il Partito era tutto informazione. Quanto al risparmiare, non risparmiavo assolutamente nulla, anche perché girando di notte fuori del lavoro si spendeva molto. Si girava sempre in bande di molti ragazzi perché tutti quanti avevamo questo pallino di tornare tardi la notte. E andavamo a piedi nei locali di Brera e in quelli sui Navigli. Facevamo la circonvallazione fermandoci in molti locali. Poi, ripeto, quello dei ristoranti è un mestiere in cui tu hai la continua sollecitazione a emergere, perché sei a contatto con i ricchi, con case grandissime e donne bellissime, decisamente più belle delle proletarie o meglio che decisamente appaiono più belle, perché vestono e si truccano meglio. Quindi diventi senza accorgertene un aspirante borghese, e speri che qualcuno di questi ricchi ti assuma in qualche azienda, togliendoti fuori dal lavoro dei ristoranti. Tanto è vero che a un certo punto smisi di farlo, non lo sopportavo più. E smisi anche di fare il ballerino perché durante uno spettacolo avevo fatto un salto troppo alto, m’ero infilato in una quinta e m’ero spaccato un ginocchio; il che mi procurò un grande applauso perché la gente pensava che fosse un pezzo di bravura.

Intanto avevo fatto il militare, ventun mesi perché ero irrequieto, poi ero segnalato politicamente. Mi hanno messo in un reggimento di assaltatori a Messina, io alto un metro e ottantasei mentre in media gli assaltatori sono altri un metro e sessanta. Ero l’unico. Poi mi hanno fatto fare tre mesi di CPR perché scappavo per guadagnare soldi, allora ai militari davano centodiciassette lire al giorno e nessuno mi mandava i soldi da casa perché avevo rotto con i miei. Cosi m’ero fatto ingaggiare in un locale notturno come ballerino. Mi hanno beccato varie volte questi colonnelli del cazzo e mi hanno cacciato in galera. Quando poi sono tornato a casa mi hanno assunto all’Olivetti per fare lo zero uno, la vendita della lettera 22. Sino allora non ero mai entrato nell’ordine di idee di fare dei lavori borghesi, perché pensavo che fosse un vendersi ai padroni, e invece restarne fuori fosse mantenere più identità. Poi ho girato sette o otto mesi facendo il magliaro: si girava in macchina per le cascine del Piemonte e si vendevano pacchi di biancheria o pentolame. Ma sotto c’era sicuramente una truffa e la mia morale comunista mi impediva di fare a lungo cose del genere. Cosi ritornavo ogni volta dentro al solito circuito: di giorno nei grandi locali di lusso e di notte in giro con bande di malavitosi, perché la mia compagnia del Bottonuto era fatta da più di cento, di cui una metà sono finiti in galera. Pochi si sono politicizzati, sette o otto a sinistra e quattro o cinque a destra. Anzi, uno di questi fascisti è diventato segretario del Fronte della Gioventù qui a Milano. Un altro fa il pittore ed è di Ordine Nuovo. Nel Settantuno sono stato picchiato dai fascisti e lui è arrivato a casa mia e mi ha detto: “Dimmi che caratteristiche avevano perché tutti sanno che sei intoccabile perché sei mio amico. Li andrò a beccare io”. Molti altri sono diventati ladri, truffatori, macrò e ogni tanto li trovo sui giornali. L’ambiente era quello li insomma, con delle leggi interne rigorose. L’ultimo gradino di queste categorie di strada della malavita era appunto il macrò, cioè lo sfruttatore di donne, che veniva lentamente espulso dalla compagnia, perché non rischiava di persona. Poi le prostitute non sono viste male dal malavitoso normale che fa il ladro, il rapinatore o il truffatore. Anzi, spesso queste si sposano con loro e una volta che scelgono di fare una famiglia sono delle brave donne, anzi straordinarie, perché hanno provato di tutto nella vita e non hanno problemi di immaginazione. Invece il macrò esercita uno sfruttamento su un’altra persona, è quello che trova la ragazza sbandata che arriva dalla provincia alla stazione centrale e l’avvia alla prostituzione. Quindi è un autentico corruttore di un altro proletario. Ma non è che questo fosse un giudizio politico, perché in queste compagnie non si faceva politica. Il ladro e il rapinatore erano molto rispettati perché rischiavano di persona insomma.

Questi giovani del Bottonuto provavano un grande rifiuto all’idea di andare in fabbrica, tutto al contrario che in via Ripamonti, nella zona dove ero vissuto prima dove c’era una grande morale operaia. Era con questi miei amici malavitosi che andavamo a rompere i coglioni nelle sale da ballo per portare via le donne alle altre compagnie. Quasi tutti i sabato sera o domeniche pomeriggio si faceva a botte, specialmente se andavamo in provincia, alla Chiarella, a Paullo, perché rompevi i coglioni a quelli del paese. In una compagnia ognuno doveva avere una caratteristica distintiva. Io ero ballerino, per cui nelle sale da ballo ero utile. Facevo il numero e tutte le donne volevano poi ballare con quello che sapeva fare questi balli, il boogie woogie, il rock and roll, il charleston e il be bop.

La funzione mia era quella di tirarmi dietro le donne anche per i miei amici, cioè rompere il ghiaccio. Però quelli della compagnia della sala da ballo del posto si incazzano, si finisce a botte, cominciano spedizioni e controspedizioni, e spesso si termina in questura denunciati per Fissa. Il Santa Tecla e la Taverna Messicana sono stati sfasciati interamente più volte.

La compagnia era una grossa scuola di comportamenti e in quegli anni io ero letteralmente sospeso tra la strada e il partito. Ed ero anche sospeso tra il ristorante di lusso e la sala da ballo. Avevo quindi una formazione di grande complessità ma mi mancava una particolare identità nel mondo del lavoro.

Non che non cercassi di uscire da questo circuito, soprattutto quando mi innamoravo e cominciavo a pensare: “Come faccio a continuare a lavorare in ristorante e a fare questa vita che sono fuori casa quattordici ore al giorno. Che cazzo di famiglia faccio?”. E decidevo di cambiare mestiere perché pensavo di sposarmi con questa o con quella. E cosi facendo sono rimasto scapolo sino a trentatré anni. Ero entrato nella FGCI che ne avevo sedici. All’inizio ti tenevano a bagno maria due o tre anni prima di darti la tessera del partito e a me l’hanno data nel Cinquantasei. Intanto ero andato ad abitare in via Larga e quindi avevo cambiato Sezione, ero finito alla Perotti Devani. Cos’era in quegli anni il Partito? Una grande solidale comunità con un progetto ambiguo: la rivoluzione. Quindi democrazia però rivoluzione, cioè la convinzione di tutti noi era che la via al socialismo e i partiti erano una cosa ma una volta preso il potere con il cazzo che lo davamo indietro. Avremmo imposto criteri operai e instaurato la dittatura del proletariato. Questa era la convinzione assoluta di tutti, che non andava mai detta, ma che era totale. Questa ambiguità si imparava rapidamente. Per esempio, all’OM nel Cinquantuno venne scoperto un deposito di armi sotto il reparto torni. Crollò il pavimento e casualmente trovarono qualche tonnellata d’armi. Una cosa molto imbarazzante per i comunisti. Allora in un’osteria vicino alla Centrale del latte, quella in viale Toscana sull’angolo di via Leoni, sedici operai fecero la bruschetta per stabilire chi si Pigliava la colpa. Se la presero in quattro, che non vennero difesi dal Partito, andarono in galera e uscirono sei o sette anni dopo. Nel Partito si sapeva che questi erano comunisti, ma lo tenevamo per noi; sapevamo che questa azione di tenere le armi nascoste era assolutamente corretta, sapevamo che c’era stata la “Volante rossa” e si favoleggiava di un’altra organizzazione del genere nel triangolo di Reggio Emilia, più rilevante, però i vecchi compagni dicevano: “Quando sarai più grande te la raccontiamo, non adesso, perché sono cose complicate”. Questi vecchi parevano depositari di segreti molto grandi che noi giovani non potevamo ancora apprendere.

 

Si, la “doppiezza” era un comportamento costante. Ricordo che una volta abbiamo picchiato un fascista che stava a Niguarda e il giorno dopo la nostra Sezione ha fatto un comunicato criticando duramente questo episodio di teppismo estraneo alla tradizione della classe operaia, ma invece questa cosa qui l’avevamo fatta proprio noi della stessa Sezione. Questa cosa la ritenevamo un’operazione estremamente rivoluzionaria, furba, al di là del moralismo borghese. Nella Sezione di via Bellezza c’era quindi il segretario di Sezione ma anche un responsabile della vigilanza, a cui rispondevi direttamente se entravi in questo settore paramilitare del Partito. Ancora nel luglio Sessanta, quando mi telefonarono di notte per andare a Genova, non mi telefonò il segretario di Sezione ma l’addetto al servizio d’ordine. Ma quell’andata a Genova non venne approvata dai vertici e quando tornai a Milano mi chiesero in Federazione: “Chi t’ha detto di andare a Genova?” “Me l’ha detto il responsabile del servizio d’ordine”. Allora quello poi mi disse: “Ma tu mi hai ritelefonato per verificare se ero proprio io?” “No” “Bravo! Sei caduto in una provocazione, caro compagno”. Sicuramente era lui che mi aveva telefonato, però io avevo commesso due errori fondamentali per un comunista: rivelare che era lui che mi aveva dato l’indicazione e non tenermi il deferimento ai probiviri, stando zitto come usa un comunista. Questi comportamenti li imparavi attraverso anni di militanza, perché spiegarteli non avrebbe avuto senso. Ma l’immaginario dello scontro cui dovevi essere pronto era sempre presente, e si favoleggiava di una certa Brigata Garibaldi che “quella si! Quella li esiste ancora di fatto”. Comunque tu avevi la sensazione di essere protetto e che il Partito sarebbe stato sicuramente pronto nel momento dello scontro ad affrontarlo perché aveva tutte le strutture per farlo.

Questo qui fino alla destalinizzazione, al Cinquantasei. Di li in avanti c’è stato un progressivo processo di annullamento di queste cose. Ma allora c’era un opuscolo che circolava intitolato Ipotesi di comportamento. Quelli che entravano nel servizio d’ordine – e io ci sono stato – dovevano tenerlo. Dava delle indicazioni su cosa dovevi fare in caso di colpo di stato: prendere cura delle armerie della tua zona, essere pronto ad assaltare alcuni edifici pubblici, eccetera. Questi opuscoli vennero ritirati tutti, era obbligo riconsegnarli, e adesso ovviamente leggo nelle varie interviste che non sono mai esistiti. Né opuscoli né queste strutture paramilitari. Il 14 febbraio del Cinquantasei ci fu il XX Congresso del PCUS che apri la campagna di destalinizzazione. Nella mia Sezione c’era Rodolfo Banfi, che fece una serie di serate sulla faccenda e quelli che erano un po’ più svegli vennero mandati in altre Sezioni a spiegare questa storia, cioè a sostenere la tesi delle vie nazionali al socialismo. Mi ricordo che gli operai, sia a Niguarda che ad Affori, dicevano “signor Krusciov” e “compagno Stalin”. Uno dei nostri compiti era di convincere a levare i quadri di Stalin delle Sezioni: erano dei quadri enormi di Stalin vestito da maresciallo e andavano tolti. Però in nessuna delle Sezioni dove sono stato io, sono riuscito a farli togliere. L’unico compromesso a cui si arrivava era che se ne facevano quattro piccoli: uno di Stalin, uno di Lenin, uno di Marx e uno di Togliatti. Per cui non c’era più solo il quadro di Stalin grande e quello di Togliatti piccolo.

In ottobre scoppiò la rivolta in Ungheria e gran parte dei comunisti di base, giovani compresi, si schierarono dalla parte dei carri armati sovietici, a difesa dello stato socialista guida. Solo gli intellettuali si distaccavano dal Partito, ma in quella fase, per una serie di circostanze che avevano a che fare con la figura di alcuni di questi intellettuali, tipo Ignazio Silone, i militanti organici del Partito comunista avevano un certo disprezzo nei loro confronti.

Vedevano nell’intellettuale un individuo da usare. E mentre gli intellettuali criticavano, i giovani comunisti e gli operai erano invece in piazza Cavour a difendere la sede dell’”Unità” dall’attacco della marmaglia liberal-fascista, che metteva insieme in un unico calderone la libertà di Trieste e quella degli ungheresi. Quel giorno anzi dovemmo difendere anche la sede della Camera del Lavoro, allora anch’essa in piazza Cavour, dall’assalto di gruppi di studenti con bandiere tricolori. La nostra diffidenza nei confronti degli studenti è anche dipesa da questo: che l’Università statale era in mano al FUAN e gli studenti erano fascisti, borghesi, tanto è vero che ci avevano assaltato varie volte. Ricordo che qui a Milano i giovani liberali ci assaltarono anche nel Sessantatré, dopo le elezioni in cui avvenne il raddoppio dei voti del loro partito.

Allora questa compattezza intorno al Partito era ancora una cultura unificante, perché l’obiettivo era la rivoluzione, e di fronte a essa si pensava che alcuni sacrifici che riguardavano la propria individualità fossero inevitabili. La classe operaia e i comunisti dovevano essere la parte assolutamente migliore e più sana della società, contrapposta a una parte corrotta che era la borghesia, e quindi quelli che si rivoltavano in Ungheria vennero interpretati male. Ma paradossalmente quello che scriveva allora Indro Montanelli di questa rivolta ungherese piacque abbastanza ai giovani comunisti. In un’opera teatrale intitolata I sogni muoiono all’alba, e anche nelle sue corrispondenze, Montanelli sosteneva che quella era una rivolta comunista contro lo stato socialista. Quest’opera, rappresentata al Teatro del Convegno, vicino al cinema Capitol, fu vista da quasi tutti i giovani comunisti, che in fondo speravano che quella ungherese fosse una rivolta comunista. Ma la CIA e gli americani – cosi almeno si pensava – si erano inseriti sulla rivolta per mistificarne i significati e quindi di fronte a questa loro manovra lo stato socialista non aveva alternative alla repressione. In ogni caso il Partito Comunista Italiano non doveva prendere le distanze perché senza il retroterra dei paesi socialisti, senza l’Unione Sovietica non era possibile la rivoluzione.

In quegli anni si raccontava del disgelo, si leggeva Ilya Erhenburg, si andava a vedere film come Quando volano le cicogne si parlava della necessità e possibilità di un ulteriore sviluppo dell’economia sovietica e si pompava molto sulle diffamazioni che c’erano state nei confronti della patria del socialismo, che era in grado di riprodurre tecnologie avanzate perché nel Cinquantasette aveva lanciato lo Sputnik. Nelle cellule di strada, quelle che si tenevano in piazza Duomo e in via Orefici, avemmo la possibilità di dire che non era vero che l’Unione Sovietica non aveva l’elettronica e aveva solamente l’acciaio pesante, perché aveva lanciato lo Sputnik. Una cosa che negli anni precedenti non eravamo mai riusciti a dire e che trovava ora una sua lampante dimostrazione. Di qui un’adesione ancora più forte verso la patria del socialismo. Malgrado questo le elezioni del Cinquantotto non furono brillanti. Comunque la destalinizzazione non passò interamente, malgrado i cambiamenti di alcuni dirigenti e non so quanto questi scazzi nel Partito siano stati determinanti nella scelta di trasformare una buona parte delle Sezioni in circoli culturali. Fu il caso tra le altre della Mantovani Padova con il circolo Bertolt Brecht. Fino a quel momento le sezioni erano state aperte tutte le sere e la maggior parte di esse aveva un piccolo bar interno gestito da donne comuniste.

Si andava li a giocare a carte o a scacchi, a chiacchierare, anche se non c’era riunione. Le Sezioni erano insomma il luogo di ritrovo, di riferimento
e di incontro di ogni giorno, mentre c’era poi riunione una volta o due la settimana ma con un ordine di cui non si è mai capito bene il senso le Sezioni vennero chiuse. Aprivano cioè solo per l’attività politica, quando c’erano le riunioni. Cosi cominciarono una dietro all’altra a chiudere, salvo quelle che erano collocate all’interno di osterie con bell sot e bocciofila, come a Niguarda o sui Navigli. Cioè quelle Sezioni che avevano un’attività commerciale pubblica, vale a dire anche rivolta all’esterno del Partito, rimasero aperte e continuarono questa loro attività, mentre quelle che avevano il bar all’interno della Sezione, come la Cantore o la Perotti Devani, cominciarono ad aprire una volta alla settimana per la riunione, eliminarono il bar e rimasero solo dei grandi stanzoni per riunioni politiche. Era una scelta che determinava una disaggregazione fortissima. Sino allora il meccanismo di proselitismo era stato che tu prendevi degli amici, li portavi li, conoscevano delle ragazze, ci tornavano. Inoltre la decisione di chiusura delle Sezioni coincideva con una grande svolta nell’occupazione del tempo libero all’esterno.

Le grandi sale da ballo a richiesta, dove tu emergevi per qualità di ballerino o perché eri più bello o perché ti vestivi meglio, lasciavano il posto ai Whisky a gogo.

E qui bisognava entrare già accompagnati dalla donna. Questo sfavoriva fortemente i proletari, perché le donne dovevano conquistarsele per la strada. La morale tribale delle bande di quartiere richiedeva tra l’altro un’estrema correttezza verso le ragazze del tuo quartiere, perché erano sorelle o ragazze dei tuoi amici, mentre gli altri quartieri erano territorio libero di caccia. Nelle sale con balli a richiesta ti sgamavi, imparavi delle tecniche per conoscere le donne. Ma nei Whisky a gogo erano favoriti i borghesi, perché nessuno di noi era stato un gran che a scuola, mentre loro avevano il giro delle amiche studentesse nelle famiglie. Quindi la Sezione diventava l’unico mezzo per socializzare rapporti con le figlie dei compagni. Chiudendo le Sezioni si tolse un importante canale alla socializzazione dei giovani comunisti, che aveva magari poco a che fare con la politica ma era rilevante per un giovane. A quel punto si intristì tutto, anche perché bisognava dedicarsi tutti alle attività culturali. Ricordo che andammo a fondare il Circolo Bertolt Brecht. Chiamammo Dario Fo a raccontarci la storia della commedia dell’arte e, di fronte a un gruppo di operai sbigottiti, tenemmo un corso su “Tao e il Taoismo”, rimanendo noi stessi allibiti. Comunque nel luglio Sessanta quei gruppi di centinaia di giovani milanesi che erano in piazza Cavour a fare a botte con i fascisti nel Cinquantasei si trovaron quasi tutti a Genova a scontrarsi con la polizia. Noi, i “giovani dalle magliette a righe”, muovevamo all’attacco della polizia senza uno schema preciso, in modo molto spontaneo, mischiati ai vecchi comunisti, che si conoscevano a memoria e si muovevano militarmente organizzati, secondo la vecchia formazione partigiana. I dirigenti del Partito ci volevano ricondurre a una specie di trattativa con le forze istituzionali, e io non capivo il perché di questo loro diverso comportamento, pur essendo tutti del medesimo partito. C’era tra l’altro del nuovo anche in fabbrica. Nell’aprile giovani operai avevano guidato uno sciopero di sedici giorni alle linee di montaggio dell’Alfa Romeo, contro l’accelerazione dei ritmi e la monetizzazione del maggior sforzo di lavoro. Molti di loro erano immigrati e non iscritti al sindacato. Era l’inizio di una vera e propria ripresa sindacale che avrebbe raggiunto i momenti alti durante le lotte contrattuali del Sessantadue- Sessantatre, stagnando poi sino al Sessantotto.

Che cos’era la nostra cultura politica di allora?

Negli anni precedenti nel PCI si facevano letture molto precise e attente dei testi sacri, da Marx a Lenin. Si leggeva il Manifesto del Partito Comunista, Salario prezzo e profitto, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Stato e rivoluzione, L ‘imperialismo come fase suprema del capitalismo, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. Solo più tardi ho letto L ‘Ideologia tedesca e La sacra famiglia. La cultura politica era molto elementare e consisteva essenzialmente in un cofanetto di “classici del marxismo” dato dagli Editori Riuniti alle Sezioni. Poi si leggevano molti opuscoli direttamente prodotti dal Partito. E naturalmente “l’Unità” e il “Contemporaneo”, che erano d’obbligo per chi faceva un po’ di politica. Tuttavia la formazione culturale dei giovani comunisti di allora – voglio dire non solo la mia – andava ben oltre. Certo, il vecchio comunista che aveva fatto la Resistenza, che era segretario di sezione, decisamente stalinista, disprezzava la cultura borghese; ma il giovane consumava molta letteratura, molto cinema, molto teatro. Quello fu un periodo culturalmente assai vivace. Nel Sessanta, durante la proiezione di un film come Rocco e i suoi fratelli c’erano risse in sala tra chi sfotteva il film e chi lo difendeva. E per La dolce vita – film contro il quale “L’osservatore romano” condusse una vera e propria “crociata” – la borghesia milanese ha sputato adesso a Fellini e ha cercato di aggredirlo e noi comunisti l’abbiamo difeso. Cosi durante le proiezioni ci si alzava in piedi per applaudire certe scene. Questa identificazione tra battaglia delle idee e vita quotidiana fu certo più forte in quegli anni che durante quelli successivi. I giovani comunisti leggevano, per esempio, la collana Medusa Mondadori, dove sono stati pubblicati Joseph Roth ed Herman Hesse, che sembrano una scoperta di oggi e che noi consumavamo in quella fine degli anni Cinquanta, come del resto I’ Ulisse di Joyce. Il nostro mito era Sartre e l’esistenzialismo, che costituiva un momento di equilibrio della rigidità della cultura comunista, e lo costituiva del resto anche la lettura di una rivista come “Il Mondo”, espressione di una borghesia intelligente. Il modo come Ernesto Rossi riusciva a spiegare come funzionasse la Borsa o gli inviti di Guido Calogero a capire le cose sino in fondo sospendendo temporaneamente il giudizio su di esse erano una implicita critica allo schematismo culturale che si respirava nella vita di partito.

Sicché, quando a cavallo degli anni Sessanta Rossana Rossanda impresse un nuovo orientamento alla Casa della Cultura, ci sembrò finalmente di trovarci davanti a una risposta comunista, con un taglio di classe e in un’ottica marxista, al problemi agitati anche da “Il Mondo”. Con i suoi golfini di kashmir, il suo modo di parlare e di prenderti sotto braccio, il suo circondarti di attenzioni e di affettività, il suo citare con estrema agilità Bertrand Russel o Max Weber, Rossana Rossanda esercitava su noi giovani comunisti un fascino singolare e a me ricordava straordinariamente quegli intellettuali colti e raffinati che avevo conosciuto nei ristoranti e a cui tanto doveva la mia formazione culturale di autodidatta. La Casa della Cultura fu per noi una grande esperienza di sprovincializzazione culturale. Ne seguivamo i corsi prendendo appunti, cercando i libri citati da Enzo Paci e Antonio Banfi, da Remo Cantoni e Mario Spinella. Fu quest’ultimo, piu’ che altri, a rappresentare in quegli anni per noi giovani comunisti un autentico maestro di rinnovamento. Aveva tra l’altro organizzato alla Sezione Togliatti di via Palermo un corso durato quasi un anno sulla sociologia della conoscenza. Ci familiarizzavamo con Ideologia e utopia di Karl Mannheim. Negli anni precedenti ci eravamo anche nutriti di romanzieri americani e quando alcuni di questi scrittori che pensavamo comunisti fecero i traditori, come Dos Passos e Steinbeck, grande fu il nostro trauma, perché nessuno ci aveva spiegato che questi erano semplicemente grandi scrittori del New Deal americano.

C’era senza dubbio un divario tra i bisogni di crescita della mia generazione di comunisti e lo schema ideologico del partito.

Cosi sopportavamo a malincuore la disciplina interna, anche perché già i fatti di Ungheria e il luglio Sessanta avevano parzialmente messo in crisi le nostre utopie. C’era un’esigenza di messe a punto. Per esempio, i giovani della FGCI che ruotavano attorno a “Nuova Generazione” – Michelangelo Notarianni, Elio Mercuri, Pio Marconi, Augusto Illuminati, Luca Cafiero, Gian Paolo Samonà, lo stesso Achille Occhetto – in un dibattito durato dal novembre Sessantuno al gennaio Sessantadue – rivalutarono Trotskij. Scrivevano che era stato un grande comunista rivoluzionario anche se aveva fatto degli sbagli, chiedevano “una nuova scientifica definizione della natura del trotskismo e del ruolo giocato da Trotskij”, coglievano l’esigenza positiva del trotskismo nell’affermazione del valore insostituibile della rivoluzione in Occidente, contrapposta alla “tendenza all’autosufficienza e al produttivismo della società sovietica” e alla “deformazione afroasiatica del marxismo come dottrina della rivoluzione dei paesi arretrati”. Criticavano anche “la degenerazione burocratica dello Stato socialista”, e anzi era questo il titolo dell’intervento di Notarianni che apri quel dibattito.

Si era agli inizi di una grande crisi nei rapporti tra nuove generazioni e PCI, una crisi che sarebbe durata poi a lungo e che si acuì nel Sessantadue- Sessantatre.

Mentre arrivavano nuovi modelli culturali, si cominciava a leggere Kerouac e Ginsberg, ad ascoltare i Beatles, il Partito comunista decideva la scalata dei ceti medi. Infatti nel Sessantatré aumenta un milione di voti, e “l’Unità” si sforza di dimostrare che l’aumento è avvenuto più nelle zone impiegatizie che non in quelle operaie. A noi che venivamo dalla strada o dai quartieri operai c’erano poco simpatici sia gli studenti che gli impiegati. E cominciammo a vedere le sezioni che si popolavano di burocrati che ovviamente erano più colti di noi perché venivano dalle cellule bancarie
o da quelle delle assicurazioni. E questi diventarono rapidamente segretari di Sezione, perché erano più sgamati e più favoriti anche per il loro modo di esprimersi. In quel momento moltissimi quadri di estrazione operaia vennero proprio emarginati, anche perché il loro linguaggio era quello di un partito operaio comunista stalinista e si trovavano invece di fronte questi impiegati delle cellule di assicurazione e delle banche che usavano un linguaggio corrispondente alle trasformazioni del boom economico alle porte e che mistificavano tutte le categorie. Prima le cose erano chiare. Di qua c’erano
i padroni e di là gli operai. I padroni erano corrotti, sfruttatori e assassini; gli operai erano sobri, onesti e rivoluzionari. Questi nuovi segretari di Sezione parlavano di nuova economia e sostenevano l’esistenza di più strati intermedi, quindi mettevano in crisi le precedenti categorie operaie. Molti operai automaticamente si emarginarono e non vennero più alle riunioni. La chiusura delle Sezioni, la mancata frequenza alle riunioni di gran parte dei vecchi comunisti e anche l’efficienza un po’ burocratica di questi impiegati neofiti del partito determinava che nelle votazioni congressuali la maggioranza era loro. Piano piano venne fatta fuori una generazione di quadri operai di tipo classico, che continuarono a rinnovare la tessera ma passivamente. Tra l’altro dopo il XX Congresso si cominciò a dare la tessera a tutti con facilità, cosa che era molto criticata dai militanti operai di tipo classico.

In effetti, era in atto una svolta formidabile nel Partito, nei confronti della quale molti di noi si sentivano spiazzati. Non bisogna dimenticare che tutti quanti e io stesso giovanissimo avevamo pianto per la morte di Stalin. Inoltre in una società rozza e aggressiva come era quella degli anni Cinquanta e anche Sessanta, del boom economico e delle cambiali, l’insicurezza del posto di lavoro e della casa, l’angoscia del domani, erano una cosa fondamentale. E riconoscevi che, al di là della crisi della libertà, nei paesi socialisti avevano eliminato questa angoscia del domani. Facevi una vita più grigia ma avevi la casa, andavi a scuola, non morivi di fame, non eri un emarginato. Questa convinzione è in parte ancora oggi una costante unitaria di cultura politica nell’immaginario sui paesi socialisti.

Questa sensazione e l’idea della rivoluzione e del cambiamento globale negli operai venne poi trasferita come memoria all’operai-massa emergente nelle grandi fabbriche dai vecchi operai. Se dopo la seconda grande immigrazione dal Sud al Nord la classe operaia fu meno razzista della borghesia è perché i meridionali dimostrarono di sapere lavorare in fabbrica. All’inizio c’erano degli sfottò al proposito, ma quando dimostrarono di essere in grado di impadronirsi della fabbrica, del suo funzionamento, vennero stimati come operai e gli venne trasferito gran parte dell’immaginario collettivo leninista rivoluzionario dei vecchi militanti.

Malgrado l’operai-rnassa avesse caratteristiche diverse dai vecchi operai, c’è stato lo stesso un interscambio fortissimo. Ricordo un bollettino speciale dell’Alfa Romeo di via Serra nel Sessantatré che annunciava come per la prima volta fosse stato eletto un meridionale nella Commissione Interna, perché aveva dimostrato di essere un quadro operaio e politico di valore. Episodio analogo si verificò all’Azienda Tramviaria Municipale Milanese. Gli operai emigrati alla fine degli anni Cinquanta hanno ricevuto l’immaginario e la cultura politica precedente, altrimenti tra l’altro non si spiegherebbero gli slogans dell’Autunno Caldo Sessantanove, che sono slogans leninisti, nei quali c’è l’autonomia della classe ma anche internazionalismo, antimperialismo, abbattimento dello Stato. La complessa cultura politica degli anni Cinquanta non era annullabile con una semplice operazione di vertice. Quegli operai comunisti, sebbene emarginati nel Partito, trasmettevano memoria. Per esempio, quelli di Lambrate nel Sessantotto erano con gli studenti, erano con i collettivi di quartiere anche diversi tra loro, con quest’aria un po’ furba da vecchio operaio che vuoi dire “lasciamoli andare avanti che va bene”. Lo stesso a Baggio e al Giambellino, dove poi le cose si sono intricate terribilmente. Lavoravano dentro la classe, magari annullando la propria tendenza leninista-stalinista rigorosa, perché era necessario per l’unità complessiva della lotta, e facendo questo trasferivano cultura politica degli anni Cinquanta, anche perché dal Sessantaquattro in poi nel PCI non c’è più stato dibattito alla base dato che le Sezioni, quasi sempre chiuse, si sono burocratizzate. Cosi la vecchia cultura unificante ha continuato a trasmettersi, ha generato dissenso a sinistra ed ha permesso allo stesso PCI di avere ancora dieci milioni di voti.

Comunque, tornando al Sessantadue-Sesatitatré, non c’è dubbio che furono per me e altri giovani comunisti degli anni cruciali. Si sentiva aria di centro sinistra, le riviste culturali parallele al PCI, come “Società” e “Il Contemporaneo” erano scomparse o stavano per scomparire, con la chiusura delle Sezioni dovevi diventare uno che andava alle riunioni con una scadenza settimanale, le cellule di strada erano pressoché annullate, sebbene già allora non fossero più motivo di orgoglio perché ci entravi ormai solo per scazzarti, il sindacato cominciava a parlare di progetti unitari, e mi sentivo tagliato fuori data la mia cultura precedente da cui non volevo staccarmi. Nell’aprile c’era stato ancora un grande corteo, durato una giornata intera, per Juliàn Grimau, che stava per essere garrotato. Ma già nell’ottobre dell’anno precedente, per i giovani milanesi di varie sezioni che parteciparono agli scontri in cui mori Ardizzone, quella era stata l’ultima grande fiammata, perlomeno in forma-partito. Abbiamo fatto un comizio per la questione dei missili a Cuba, poi abbiamo girato in Piazza Fontana e siamo piombati in piazza Duomo; in testa c’erano quelli della Mantovani Padova e li, siccome il corteo non era autorizzato, è iniziato uno scontro che è durato tutto il pomeriggio. Abbiamo respinto la polizia varie volte in via Mengoni, fin quando verso le sei di sera non è arrivato il Battaglione Padova che ci ha spazzato via, perché aveva i gipponi alti e non c’era niente da fare. Dopo questo grande scontro non abbiamo più rinnovato la tessera, in centinaia.

 

 

Al processo per la morte di Ardizzone io ero testimonio, perché avevo visto la camionetta investirlo. Mi hanno detto che era falsa testimonianza. Il Partito non voleva esacerbare la situazione e allora l’avvocato Alcide Malagugini ha detto: “Va beh, Moroni non era in grado di intendere, aveva preso delle randellate, non dico dalla polizia ma nel trambusto generale. Può darsi che abbia visto delle camionette e gli è sembrato che sia avvenuto cosi, ma in realtà le cose sono andate diversamente”. E la magistratura stabiliti che Ardizzone era stato schiacciato dalla folla in fuga. Noi l’avevamo visto ammazzare da una camionetta di cui ricordo tuttora gli ultimi due numeri di targa: sei e otto. Questo fu per me l’ultimo episodio che fece traboccare il vaso. E sono uscito soprattutto per stanchezza, per crisi di identità, per il rifiuto del lavoro di routine in Sezione, per la mancanza di un dibattito che non fosse di vertice.

 

Dal punto di vista politico non ho fatto più niente dal Sessantotto. E poiché la prima reazione al distacco dal Partito era di recuperare le vecchie amicizie di quartiere, cominciai a lavorare con Mario, detto il Barone di Santa Caterina per il fatto che appunto stava in vicolo di Santa Caterina in fondo a via Pantano. Lui era figlio del titolare di un’agenzia di investigazioni private in via Gonzaga, la cui licenza risaliva addirittura al Regno delle Due Sicilie. Un giorno ci recammo dall’allora moglie del conte Vittorio Olcese, ora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che abitava in un palazzo del Seicento con giardino nei pressi di via Lanzone. Aveva in corso una causa di separazione e ci incaricò di seguire il marito. Avremmo dovuto andare a fare le ferie ad Abano Terme, un posto pieno di alberghi in neoliberty dove i ricchi andavano per i fanghi e di cui si parlava spesso nei rotocalchi. Già di per sé la cosa era allettante. Ma poi fare l’investigatore privato non era per me solo avere un rapporto divertente con questo mio amico d’infanzia ma anche esercitare una professione che, a furia di vedere films americani, si era caricata ai miei occhi di qualcosa di mitico. Il conte Olcese aveva un castello medievale a Luvigliano di Torreglia e si vedeva spesso con una splendida inglese che alloggiava in un lussuoso albergo di Abano Terme. Armati di macchina fotografica e di cinepresa Otto millimetri li seguivamo con la nostra cinquecento. Vittorio Olcese aveva però una Rover Duemila e fino a quando i due se ne andavano per i Colli Euganei a visitare ville e chiese riuscivamo a stargli dietro, però quando si recavano a Venezia, in autostrada ci seminavano regolarmente. Tornammo a Milano a prendere una Giulia mille e sette, ma proprio allora quelli cominciarono ad andarsene in giro in bicicletta e ci presero in contropiede. Il castello di Luvigliano aveva attorno un grande muraglione e una notte che l’inglese era rimasta li a dormire scavalcammo questo muraglione, ma due mastini e tre pastori tedeschi ci costrinsero a una rapida fuga durante la quale perdemmo anche la macchina fotografica. Qualche giorno dopo il giornale locale accennava a ignoti ladri che avevano tentato di penetrare nella villa del conte. Ci eravamo allora procurati un telescopio con il quale studiavamo i comportamenti del conte salendo sugli alberi circostanti: ci spacciavamo per contadini naturalisti che dovevano studiare i movimenti degli uccelli. Alla fine riuscimmo a fotografare e a cinematografare il conte e l’inglese in atteggiamenti affettuosi, durante una delle loro gite sui Colli Euganei. Queste prove permisero alla moglie di vincere la causa e di accordarsi sugli alimenti. Spesati per un mese e mezzo in albergo di lusso, fummo quindi anche pagati profumatamente, alcuni milioni.

Quando tornammo a Milano fummo incaricati di seguire un industriale della seta, sospettato dalla moglie di avere una relazione perché usciva troppo presto di casa al mattino e rincasava troppo tardi. Ma costui, prima di andare in fabbrica e dopo esserne uscito, si fermava invece lungamente a pregare in una chiesa di via Manzoni: era un maniaco religioso e, quando glielo dicemmo, la moglie cascò letteralmente dalle nuvole.

Fu poi la volta di seguire un malavitoso che aveva un locale notturno in piazza Corvetto, anch’esso s~ spettato dalla moglie di avere un’amante. La prima sera riuscimmo a stargli dietro e a capire il percorso che faceva e dove si recava. Ma la sera seguente quello bloccò di colpo l’automobile in viale Ortles, scese dall’auto e tirò due revolverate alla nostra cinquecento.
Ci demmo alla fuga e decidemmo che era meglio lasciarlo perdere. L’investigatore in ascesa a Milano era allora Tom Ponzi che, interessato all’acquisto della licenza di Gadisco, ci invitò nel 1965 nella sua villa di Meina, sul Lago Maggiore. Arrivammo in questa villa militarizzata, dove c’era un motoscafo di alto mare e molte guardie del corpo vestite con una specie di divisa da marina. Ai muri erano attaccati pugnali tedeschi con su scritto Gott mit uns e ritratti di Hitler. Pensando alle nostre idee politiche, in quel momento ci cagammo un po’ sotto. Allora si favoleggiava che Tom Ponzi avesse una attrezzatura ultramoderna, ma in realtà tutto si riduceva a un camioncino dal quale si poteva agevolmente spiare alcune mogli di industriali in vacanza sul lago.

Il Barone cedette la licenza a Tom Ponzi e a me, visto quell’ambiente, non mi dispiacque di aver cambiato mestiere. Infatti, dalla fine del ’63 ero finito dai Fratelli Fabbri. Li avevo conosciuti nei locali notturni e sono andato a chiedere lavoro. Prima mi hanno fatto fare il venditore, poi siccome ero molto sveglio, sono diventato rapidamente capogruppo, poi agente. Insomma giravo tutta Italia e sono poi diventato un tecnico dell’istruzione dei venditori. Si facevano dei corsi con gli americani, si elencava una serie di motivazioni di acquisto e si spiegavano. Esse sono contenute nella parola “il caso”: inedito, lucro, capacità, affettività, sicurezza, orgoglio; queste sarebbero le sei fondamentali motivazioni di acquisto, che spingono chiunque a comprare qualsiasi cosa. Si trattava di truffare i proletari vendendogli un’enciclopedia del cazzo che si chiamava “Conoscere”, e ne hanno vendute due milioni di copie. Poi sono stato ingaggiato dalla casa editrice Antonio Vallardi, che mi ha fatto direttore alle vendite per l’Italia. Avevo l’ufficio, la segretaria: avevo fato carriera. In soli quattro anni di lavoro nell’editoria ero diventato un direttore delle vendite. Questo per dire come la professionalità propria della cultura comunista, questa matrice insomma, funzionasse benissimo anche se trasposta in tutt’altro campo.

In quegli anni avvenivano fenomeni di massa e di costume straordinari, che avrebbero preparato il Sessantotto.

A Milano c’era il movimento beat, quello dell’accampamento di via Ripamonti, la “Barbonia City”, che fu assaltato e incendiato dalla polizia, nonostante fosse un meeting di pacifisti. C’era un giornale che cambiava titolo ogni volta: “Mondo Beat”, “Urlo Beat”, ecc. E questo per sfuggire alle leggi sulla stampa. Si cominciava a sentire cantare Bob Dylan dappertutto. Ancora mi sembra di ricordare l’occupazione dell’Albergo Commercio e la nascita dei primi gruppi organizzati. Io compravo prima “Classe operaia”, poi “Quaderni piacentini” e con grande difficoltà mi rendevo conto che stava cambiando un ciclo storico-politico. Ci ho messo almeno sei anni a capire che cazzo era questa nuova cultura politica, tanto ero radicato in quell’altra. Anche se ormai era diventato un mio fatto privato e a quel punto la tenevo per me interamente.

Dal finire del Sessantasette cominciava a muoversi sul serio qualcosa. Allora ho abbandonato quel lavoro da dirigente e ho aperto con la liquidazione un grande club, il Siosi club. E questo club dal nome onomatopeico stava in mille metri quadri in un palazzo del Settecento in via San Maurilio che aveva dentro salotti, sala di lettura, bar e un piccolo ristorante. Partimmo con ottanta milioni di debiti. Per fare soci andavamo in metropolitana, fermavamo la gente e dicevamo: “Lei come occupa il suo tempo libero?”. Dopo che aveva risposto gli facevamo un lungo discorso e lo iscrivevamo al Club. Costava trentacinquemila lire all’anno l’iscrizione, che veniva rimborsata in libri, dei remainder’s che a noi costavano solo tremilacinquecento lire. Abbiamo fatto in sei mesi tremilaottcento soci, cento milioni di fatturato e quindi abbiamo potuto attrezzare questo club molto elegantemente. Facevamo del jazz – venne anche Joe Venuti – del teatro e potevi chiedere di tutto: i soci non andavano al botteghino del teatro a prendere i biglietti ma telefonavano al club che pensava a farglieli trovare al botteghino con il venti per cento di sconto. Facevamo anche delle feste e delle gite molto bizzarre. Ne ricordo una a Milano romana a piedi. A San Colombano compravamo unalbero di ciliege e portavamo i soci a coglierle. Facevamo inoltre due spettacoli e due dibattiti al mese. Ricordo che il primo dibattito sull’aborto avvenne con Adele Faccio proprio nel nostro club: nostro club: Donna, il negro della società.

Il club infatti aveva iscritti duemilaquattrocento donne e solo millequattrocento uomini. Perché li le donne si sentivano sicure. Cosi gli ultimi miei diciotto amici ancora scapoli, che avevano superato come me i trent’anni, si sono sposati in questo club e anche mia moglie era una socia del club. Era un problema di percentuale, la possibilità di scelta era troppo alta per non trovare statisticamente l’anima gemella in questo accidenti di club durato tre anni, dal novembre Sessantotto alla estate Settantuno. Ricordo che dopo Piazza Fontana abbiamo fatto un dibattito dicendo che la strage era di Stato. Allora li seicento soci hanno restituito la tessera e se ne sono andati dicendo “questi qui sono matti!”. Perché non era un club politicizzato ma soltanto un club largamente democratico per l’occupazione del tempo libero. Era molto elegante e colpiva molto la gente. Stava aperto dalle nove del mattino alle quattro del mattino successivo. Io mi ero fatto una stanza a fianco del club, perché ero il presidente, presentavo gli spettacoli e curavo l’andamento complessivo del circolo. L’abbiamo chiuso nel Settantuno perché il cassiere si innamorò di una socia che era un pezzo di figa fantastica. Con la Mercedes che aveva, con lei e con i fondi della cassa comune andò al casinò di Venezia per giocare, vincere e tornare con ancora più soldi in tasca. Falli, naturalmente, comunque spari per una settimana. Poi giunse un telegramma in cui annunciava che si suicidava perché ci aveva tradito. E lo abbiamo trovato tentato suicida in un ospedale di Peschiera del Garda: i milioni, la Mercedes e la figa non c’erano più. Aveva in tasca solo la tessere del Casinò. Anche se poi a dire il vero si assunse tutti i debiti del club, a dimostrazione che era uno dei nostri, era lo stesso una botta un po’ pesante da sopportare, ma soprattutto eravamo stanchissimi e io avevo deciso di sposarmi.

Mi si presentava insomma il solito problema storico, che se stavo al club dalle nove del mattino alle quattro del mattino successivo che cazzo di famiglia facevo? E tra le proteste di migliaia di soci abbiamo liquidato tutto da un giorno all’altro. Chiudevamo poco prima dell’occupazione della Fiat settantadue-settantatre e nel periodo tra l’autunno caldo e quell’occupazione io avevo avuto la sensazione di un grande fatto storico.

In quel momento si verificarono occupazioni non solo alla FIAT, ma anche all’Ansaldo di Genova, all’Alfa Romeo, all’Italsider. Dai volantini che allora circolavano, dai comportamenti pratici, dall’uso della violenza, si poteva intuire che i protagonisti di quelle lotte erano disponibili per scelte ancora più radicali. Cosi m’era venuta di colpo la voglia di ributtarmi dentro, di trovare un luogo d’osservazione per quello che succedeva, E all’inizio del Settantadue ho aperto la libreria Calusca, che era allora in fondo a Corso di Porta Ticinese. Una delle prime persone che è entrata li dentro è stato Giancarlo Buonfino che era un grafico geniale, di livello europeo, e proveniva da Lotta Continua: “Senti, conosco uno che si chiama Sergio Bologna…”. “So chi è, è stato un personaggio grosso di ‘Classe operaia’”. “Lui ha intenzione di fare una rivista. E siccome tu sei un libraio di tipo nuovo, hai lavorato a lungo in editoria, hai delle idee strane, potresti essere l’editore adatto”. Cosi decisi di andare a una prima riunione con Franco Mogni, Giancarlo Buonfino, Bruno Cartosio e Sergio Bologna.

 

Da “Don Lisander” alla “Calusca “Autobiografia di Primo Moroni,

[raccolta e redatta da Cesare Bermani], in Primo Maggio, Saggi

e documenti per una storia di classe, Milano, n. 18, autunno inverno 1982 83

poi Da “Don Lisander” alla “Calusca”.

Autobiografia di Primo Moroni, postfazione di Cesare Bermani e

profilo biografico a cura dell’Archivio Primo Moroni, Archivio

Primo Moroni – CSOA Cox 18 – Calusca City Lights – Cox 18

Books, Milano, 2006; ripubbl. in Gli autonomi, a cura di Sergio

Bianchi e Lanfranco Caminiti, vol. III: Le storie, le lotte, le teorie,

DeriveApprodi, Roma, 2008.

 

 

Le immagini di quest’articolo vengono dall’archivio personale della famiglia Moroni