approfondimenti

OPINIONI

Diego Sztulwark: «La nuova destra non è ribelle, ma disinibita: esalta le pulsioni più oscure»

Una conversazione con il filosofo e scrittore argentino Diego Sztulwark, pubblicata sulla rivista spagnola Ctxt, sul fenomeno delle nuove destre e la comunicazione politica, mentre a sinistra si susseguono le discussioni su come combattere questo fenomeno

Bolsonaro, Trump, Vox, Le Pen, adesso Javier Milei in Argentina… Si tratta dello stesso fenomeno globale o questa sincronicità è soltanto un’allucinazione? Lo slogan “comunismo o libertà” riecheggia dall’America Latina alla Spagna, com’è possibile che la retorica da guerra fredda attecchisca nella società odierna? Le nuove destre passano per ribelli, trasgressive, persino come controcultura: è davvero così?

A sinistra si susseguono le discussioni su come combattere questo fenomeno: dovremmo scontrarci sul loro stesso terreno comunicativo? Abbiamo parlato di tutto questo con Diego Sztulwark (Buenos Aires, 1971), ricercatore e scrittore argentino, autore di La ofensiva sensible (Caja Negra, 2019).

La destra esibizionista

Vedi degli elementi comuni tra queste nuove destre che spuntano fuori un po’ ovunque? Come potremmo definire questo fenomeno?

Qualche anno fa, Enzo Traverso parlava dei «nuovi volti della destra» e usava il termine «postfascismo» per raggruppare sotto la stessa voce i fenomeni reazionari emergenti soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. L’elemento interessante della sua analisi è la capacità di tenere insiemeallo stesso tempo il nuovo e il vecchio. In altre parole, si è occupato sia delle continuità con i fascismi storici o classici sia delle innovazioni o delle rotture, evitando semplicismi, recuperando genealogie e rispettando i contesti.

Se consideriamo fenomeni come Bolsonaro, Trump, Le Pen o Vox, emerge abbastanza chiaramente un elemento comune per me determinante. Mi riferisco all’aspetto “securitario”, inteso come lo sforzo aggressivo volto alla difesa di un privilegio o di una supremazia(sociale, razziale, nazionale, sessuale, etnica, proprietaria) che vengono percepiti come sotto attacco, sia per la profondità della crisi che per la fragilità delle strutture sulle quali si appoggia. È una reazione paranoica, ossessionata dai fantasmi (“comunismo”) e determinata a proteggere attivamente ciò che crede essere in pericolo.

Questo neofascismo assomiglia molto a una reazione sintomatica:vive in costante preoccupazione, prodotto di un’elevata sensibilità alla crisi, per il minimo vacillamento delle strutture su cui basa il proprio dominio. Da qui, la sua brutale intolleranza nei confronti delle questioni poste dal femminismo popolare, dal movimento LGTBQI, dai migranti, dalle comunità indigene, dall’anticolonialismo, dall’autorganizzazione del lavoro precario: tutte queste figure vengono lette come nemici da sconfiggere, elementi destabilizzanti della proprietà privata, della famiglia, del lavoro e dell’ordine.

Le nuove destre, dice, non sono ribelli o trasgressive, come spesso si vuol far credere oggi, ma piuttosto esibizioniste. Attribuire loro l’etichetta di trasgressione o di controcultura sembra un grave errore di giudizio politico. Come mai? Esibizionisti sì, ma di che cosa?

Sì, mi sorprende molto l’idea che queste destre estreme, che secondo me sono garanti del sistema inteso come l’insieme delle strutture di dominio, vengano presentate come “antisistema”. È vero che il discorso politico di queste destre infrange un certo consenso della politica convenzionale nel momento in cui denuncia la “casta politica” o lo “status quo”; ed è anche vero che così facendo intercettanodiversi malumori. Ma in nessun caso la loro ribellione punta alle relazioni di dominio.

La loro retorica non è ribelle da nessun punto di vista, ma piuttosto esibizionista: lungi dall’attaccare i duri rapporti di subordinazione, emarginazione, esclusione e sfruttamento delle nostre società, li sottolineano con un linguaggio disinvolto, esaltando le pulsioni più oscure.

Questo determina immediatamente un conflitto con le forze conservatrici (socialdemocrazie, nazionalismi, liberalismi) che si sono dedicate a mediare il dominio attraverso un contratto di correttezza politica, una presunta tregua sociale. Queste destre neofasciste rompono il patto, chiamano le cose con il loro nome, fanno appello a una sincerità inquietante e mostrano tutto ciò che la politica democratica convenzionale nasconde. Esplicitano tutto ciò che il patto di dominazione nasconde tramite eufemismi, ma contrariamente a quanto accade con le manifestazioni storiche della sinistra antisistema, non subiscono alcuna sanzione per le loro presunte trasgressioni.

Il fantasma del comunismo e la sinistra realmente esistente

Le nuove destre si proclamano ribelli contro la tirannia del “marxismo culturale” e del “comunismo”. Mentre in tanti denunciamo il momento di maggiore debolezza della sinistra da decenni, la destra ne denuncia l’egemonia totale. Come spiegare questo paradosso?

L’uso anacronistico del linguaggio da guerra fredda non smette mai di sorprendere. La destra denuncia una strategia onnipresente di “marxismo culturale” che filtra tra le pieghe del linguaggio, delle istituzioni, dell’intero mondo della comunicazione. Per capire come questo discorso diventi“virale”, possiamo sostenere la seguente ipotesi: esiste una certa lucidità allucinata di una destra paranoica e ultrasensibile alla crisi (crisi più pandemia). Questa sensibilità e questa paranoia proprietaria portano al gesto aggressivo preventivo. In altre parole, la destra crea preventivamente un nemico e pianifica manovre militari per combatterlo.

Ritengo che valga la pena prendere sul serio questo“delirio”. C’è una verità in ogni delirio e la verità, in questo caso, è che non c’è capitalismo senza presagio di comunismo. Il fatto che si tenti di scongiurare in modo violento ciò che si intuisce non è qualcosa di nuovo. Ci permette di capire come pensa una parte della classe dominante e come questo tipo di soggettivazione paranoica attecchisca in parte della società.

È impossibile sapere se, a lungo termine, le élites saranno in grado di controllare quel che mettono in moto. Si può solo sperare che dopo aver tanto agitato il fantasma del comunismo, quel fantasma prenda finalmente forma e dica la sua! È comunque interessante il fatto che siaproprio una parte delle élitesa mettere a nudoil carattere precario di ogni dominazione storica e il rischio che le crepe crescano, che la resistenza si allarghi. La cosa più sorprendente è che sia soltanto la destra ad annunciare rivolta!

La sinistra elettorale imposta l’alternativa tra “democrazia o fascismo” e chiede la creazione di un “fronte ampio o popolare”. Più che rivolta, è una barriera di contenimento. Così facendo, la sinistra non si riduce forsea gesti puramente difensivi, di risposta?

Sostengo senza esitazione ogni tipo di unità contro le destre fasciste. A più fascismo, più realismo. Però l’unità politica di per sé non è assolutamente sufficiente. Data l’entità della crisi (e la violenza che la accompagna) dobbiamospendere due parole su dove vogliamo andare. Prendiamo l’esempio argentino: dopo il disastro del governo Macri e la pandemia, il fronte anti-macrista al governo costituito con discreto successo nel 2019, è appena stato sconfitto anche nei distretti in cui governa. Il problema, quindi, non si riduce a ripetere che bisogna impedire alla destra neoliberista o alle sue fazioni estreme di tornare a vincere, ma a capire come, in questo contesto, un governo possa garantire un freno al calo dei salari e dei redditi della popolazione. La crisi accelera i tempi,logora le alleanze politiche e, alla fine, pretende qualcosa in più dell’unità contro il nemico storico.

Nuove destre e comunicazione politica

Dove risiede l’efficacia comunicativa delle destre? In che modo il loro messaggio raggiunge così tanti giovani?

La politica si affida sempre di più ad un tipo di mediazione che sono i cosiddetti “consulenti”: agenti responsabili di tutto quello che viene mostrato. È soltanto attraverso di loro che la politica percepisce (attraverso studi quantitativi e qualitativi) la società sotto forma di analisi delle “domande sociali”; soltanto tramite loro la politica si fa sentire e ascoltare. I consulenti sono agenti di mediazione di mercato, la cui missione è portare a termine l’intero processo che culmina nella vendita di un prodotto specifico: il politico.

Prendiamo il caso di Javier Milei, [esponente de La Libertad Avanza, coalizione di estrema destra creata nel 2019–ndt] il candidato di estrema destra che ha appena fatto un’exploit alle ultime elezioni a Buenos Aires. Pablo Fernández ha scritto un testo in cui analizza due cose importanti: ogni generazione si politicizza su una piattaforma che la esprime, quella attuale lo fa tramite TikTok. E TikTok è ritmo. Milei, afferma Pablo Fernández, è il primo politico editabile in quel tipo di formato. Il secondo argomento ha lo stesso peso del primo: Milei è anche interprete di oscuri impulsi inibiti dalla polizia del politicamente corretto, senza per questo trascurare le modalità di rappresentanza politica e le esigenze del discorso della scienza (razionalità economica). In altre parole, il più antipolitico dei candidati è il garante più energico del sistema di proprietà.

I consulenti fanno analisi a partire dagli “studi dei bisogni” e pensano allo stato della società nella pandemia in termini di un presunto ritiro libidico. La destra prende l’iniziativa di esplorare un nuovo tipo di produzioni capaci di articolare la narrazione classica con immaginari e formati nuovi, tenendo conto delle mutazioni che possono essere avvenute durante la pandemia, soprattutto tra i più giovani.

Una sinistra di destra

Una certa sinistra (populista, “rossobruna”o anticapitalista) sembra affascinata dall’efficienza comunicativa della destra e invita a imitarla “dall’altra parte”. Cioè entrare da sinistra in una disputa sull’identità, sugli orizzonti di certezze, sui simboli di appartenenza e quelli nazionali, sugli stili di vita tradizionali, sul linguaggio semplificatorio e aggressivo, ecc. Cosa ne pensi?

La sinistra, come sappiamo bene, ha senso solo quando esprime un modo di pensare, di percepire, di vivere. La sinistra perde la sua storicità specifica quando rimane affascinata dal modo in cui la destra pensa, percepisce e vive. E questo è valido tanto per la guerra quanto per l’economia o la comunicazione. Pertanto, non si tratta di individuare due lati simmetrici. C’è sinistra se c’è asimmetria, differenza, processo di trasformazione. Ogni volta che la sinistra assume le forme razionali e sensibili della destra, non abbiamo altro che una sinistra di destra.
Per quanto riguarda la comunicazione, quindi, è necessario tener conto delle più elementari premesse critiche secondo le quali la comunicazione, così come si pratica nella società dello spettacolo, parte dal catturare la vita solo come merce e gli individui nel mercato comunicano come soggetti privati dispersi, incapaci di resistere collettivamente e di fare esperienza a partire dai propri disagi. Da qui non è possibile fare nessuna politica di sinistra. Lo spettacolo impone la propria grammatica qualunque sia il contenuto.

Una politica di trasformazione parte da altri tipi di connessioni, di resistenze, di disagi, di lotte, di altri modi di sentire, da un altro linguaggio. Capisco che molte persone provino vertigini straordinarie affidandosi ai media e vedendo aumentare il proprio pubblico, ma non penso che si tratti solo di ampliare la platea. Ci sono problemi più seri.

Ad esempio?

Possiamo metterla così: l’estrema destra ha mandato all’aria il linguaggio del politicamente corretto, che consiste nel non chiamare la realtà dei vinti con il suo vero nome. In altre parole, sappiamo tutti che le linee di dominio del sistema producono indios, neri, puttane, rifugiati o immigrati, ma abbiamo eufemismi politicamente corretti per evitare la spiacevole esperienza di esibire quei rapporti di potere. L’estrema destra, percependo minacciati i propri privilegi, ha deciso di parlare apertamente, di affermare quei rapporti di dominio e legittimarli.

Cosa facciamo di fronte a tutto questo? Reagiamo come custodi del politicamente corretto, come poliziotti della lingua? La retorica cosiddetta progressista, della sinistra che aspira solo alla gestione dell’esistente, è una logica discorsiva senza idee, senza forza, senza volontà di trasformazione. Pura ragione cinica. Pertanto, un serio problema della“comunicazione di sinistra”(se mai fosse possibile) è mettere in gioco un altro modo di parlare, per poter affrontare sia il cinismo parlamentare che l’estrema destra. Ovviamente non è solo un problema di pubblico, ma di come intrecciare esperienze, sensazioni, parole. Altrimenti soltanto la destra capitalizzerà l’evidente miseria del progressismo. Senza la comparsa di un contropotere con una propria capacità narrativa, non c’è comunicazione da sinistra.

La sinistra più visibile insiste sulla “sfida per la narrazione”, ma senza attenzione alla dimensione del contropotere effettivo, queste narrazioni sono meri significanti fluttuanti nell’etere comunicativo, senza alcun rapporto diretto o organico con esperienze, legami o territori.

L’aspetto narrativo mi sembra fondamentale, ma sempre nella misura in cui si concepisca la parola legata al significato e alla costruzione di mondi. Infatti, non esistono scioperi senza un tessuto narrativo interno, che agisce trasmettendo esperienze e conoscenze tra le generazioni. Lotta e narrazione sono sempre andati di pari passo. Questo senso materialistico della narrazione, che vede la parola come momento dell’intreccio collettivo delle forze, è in via di aggiornamento, nel senso che forse non abbiamo ancora raccontato fino in fondo cosa hanno rappresentato questi anni di pandemia, crisi e quarantena. Su questo piano della narrazione, siamo ancora agli inizi.

Intervista pubblicata il 2/10/2021 su Revista Ctxt Contexto y acciòn che ringraziamo per la gentile concessione.

Traduzione in italiano di Michele Fazioli per DinamoPress.

Foto di copertina e nell’articolo di Gianluigi Gurgigno, 28 ottobre 2018 durante i festeggiamenti dei sostenitori di Bolsonaro dopo la vittoria delle elezioni a Rio de Janeiro.