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Diego Armando Maradona: tre giorni di lutto popolare nelle strade di Buenos Aires

Una settimana fa, l’ultimo saluto a Buenos Aires a Diego Armando Maradona, accompagnato da centinaia di migliaia di persone. Un lutto popolare, plebeo e moltitudinario dove lacrime e dolore, canti e allegria, canzoni e cori si sono alternati senza sosta, fino ed oltre le folli cariche della polizia. L’ultimo omaggio al Pibe de Oro in un reportage in tre atti, tre giornate di lutto e tre quartieri diversi, con le parole di Alioscia Castronovo e le immagini di Gianluigi Gurgigno

Giorno 1 – Ad10s barrilete cosmico

I monitor alle fermate della metro e degli autobus lungo le strade della capitale argentina proiettano una sola scritta, che risuona di strada in strada, di fermata in fermata, illuminando la notte: «Gracias D1ego». Quattro anni esatti dopo Fidel Castro, il comandante della rivoluzione cubana che Diego ha amato e difeso fino alla fine, un altro figlio di un secolo ormai passato ci ha lasciato.

Dai maxischermi pubblicitari, proiezioni di luci colorate si riversano sulla Avenida 9 de Julio illuminando le diciotto corsie che attraversano il centro di Buenos Aires, ma a differenza delle giornate normali, viene trasmesso senza sosta il meraviglioso gol contro l’Inghilterra del 22 giugno 1986, alternato alla scena del riscaldamento pre-partita della trasferta del Napoli contro il Bayern nella Coppa Uefa del 1989.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Nella prima scena, le immagini che conosciamo, accompagnate dalla memorabile telecronaca di Victor Hugo Morales, risuonano questa volta senza audio, quale danza infinitamente ripetuta che ha cambiato per sempre il calcio: pochi minuti dopo il miracoloso scandalo della Mano de D10s, una sequenza di quarantadue passi fino al gol più visto della storia, la vittoria dei quarti di finale contro l’Inghilterra, una partita che trascende il calcio e porterà alla vittoria del Mondiale messicano del 1986. Nella seconda scena, Maradona, al ritmo di Life is Life nello stadio Olimpico di Monaco, balla, palleggia, entusiasma, ci ricorda il gioco del bambino di Villa Fiorito, mostrandoci come in fondo la danza, il teatro, il calcio e l’allegria possano incontrarsi come per gioco trasformando in magia la tensione prima della partita.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Un muralista disegna sull’asfalto della Avenida Corrientes un immenso ritratto del Diez, decine di venditori ambulanti dell’economia popolare offrono per soli cento pesos poster, birre, mascherine con l’effigie di Maradona. Tutto intorno si vendono e si indossano magliette di calcio, tra cui quelle del Boca Juniors, della Selección, del Napoli, Barcellona, Argentinos Juniors e Newell’s Old Boys, le sue squadre.

Un gruppo di cartoneros ferma il carro su cui caricano i rifiuti che raccolgono e selezionano per il riciclo, salgono su una montagna di cartone e plastico, e cantano «Alé alé alé, Diego, Diego». Attorno all’Obelisco, abbracci con le magliette del Diez, fiori, striscioni, candele, cartelli fatti a mano, offerte che condensano le prime parole ed i primi gesti di incredulo dolore e commossa tristezza.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Le effigie del Che accanto a quelle di Maradona, con su scritto “Calcio e rivoluzione”, campeggiano sotto il Monumento che celebra la prima fondazione della città. La moltitudinaria cerimonia popolare per il più amato calciatore della storia del paese comincia quella notte, quando dopo quasi nove mesi di pandemia passati tra quarantena e distanziamento sociale, si alza un canto che risuona per la città: «Diego, Diego de mi vida, vos sos la alegria, de mi corazón».

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Una settimana fa come oggi, nella notte di Buenos Aires, quando sui maxischermi arrivava il momento di quel memorabile gol segnato nel 1986, centinaia di persone, molte delle quali non erano nemmeno nate quell’ormai lontano giorno, esultavano e festeggiavano il gol nella notte di Buenos Aires, come se stesse avvenendo ancora, mentre attorno all’Obelisco migliaia di persone saltavano cantando «Chi non salta è un inglese». Alle dieci in punto, fuochi d’artificio illuminavano l’Obelisco e un applauso esplodeva in tutta la città, dalle case, dai balconi, dalle strade, in omaggio al Diez.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Si rivive ancora una volta quell’urlo di felicità popolare, i ricordi del Mondiale del 1986 si condensano nelle parole, gli sguardi tristi, le lacrime e le magliette d’epoca indossate da tanti e tante. Fu la prima grande festa e allegria popolare, il riscatto dopo la fine della dittatura e la guerra delle Malvinas, dopo il Mondiale della vergogna vinto nel 1978 in piena dittatura militare. Quel Mondiale della vergogna giocato mentre migliaia di desaparecides venivano torturati, assassinati, fatti sparire e lanciati dagli aerei in volo sul Rio de la Plata nelle stesse ore in cui il mondo guardava le partite che si disputavano all’ombra del terrorismo di Stato. In quel momento, le Madres de Plaza de Mayo già denunciavano, nel silenzio e nelle complicità del mondo, il massacro in corso. Le stesse Madres e Abuelas che hanno salutato commosse Maradona, il campione dalla vita contraddittoria ed esagerata, il pibe del barrio che abbracciò e sostenne la causa della lotta e delle giustizia che portano avanti instancabili le Madres e Abuelas de Plaza de Mayo.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Estela Carlotto, presidente delle Abuelas, le Nonne di Plaza de Mayo, ha appena compiuto novant’anni ed è una delle figure di riferimento di quella infaticabile lotta collettiva e popolare per la verità e la giustizia, per recuperare le centinaia di bambini e bambine strappate ai genitori sequestrati dalla dittatura, nati nei campi clandestini di detenzione e nei centri di tortura e poi affidati a famiglie della borghesia militare golpista. «È una notizia tristissima. Sento profondo dolore per la morte di una persona così cara e importante per il nostro paese. […] Il suo sostegno alle nostre lotte è stato importante, è stato un modo di mostrarci affetto, sostenerci e darci forza, a noi che ci portiamo dentro questo dolore da 43 anni, noi che siamo ancora alla ricerca dei nostri nipoti»: così Estela saluta Diego. Il giorno dopo, proprio nella piazza delle Madres, l’ultimo saluto a Maradona.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Giorno 2 – No sabemos a que planeta te fuiste, pero nadie olvida de donde saliste

Sotto un caldissimo sole di questa primavera australe centinaia di migliaia di persone avanzano a ritmo lento tra le transenne, in fila tra le bandiere, le scritte sui muri, i murales, i poster, i palloni, le maglie di calcio. Un moltitudinario rituale di avvicinamento alla Plaza de Mayo dove, come avvenne con l’ex presidente Nestor Kirchner, è stata predisposta dal presidente e dalla famiglia la camera ardente presso la Casa Rosada. Proprio nella casa presidenziale dove il peronismo è tornato lo scorso 10 dicembre dopo quattro anni di governo di Macri, un ritorno celebrato da Maradona che festeggiò l’assunzione di Alberto Fernández, peronista e tifoso dell’Argentinos Juniors, la sua prima squadra. Centinaia di militanti di organizzazioni popolari hanno contribuito a organizzare la logistica della piazza e l’arrivo di chi è arrivato per salutare per pochi secondi colui che fece piangere di gioia e di emozione milioni di persone.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Nelle immagini che accompagnano la carovana popolare, risuonano immagini storiche che rimandano ai descamisados di Eva Perón e alle cabecitas negras che il peronismo incluse nell’orizzonte di trasformazione sociale del paese, quella composizione sociale subalterna e razzializzata dall’oligarchia coloniale e poi da quella neoliberale. Così tra le migliaia di persone, tanti ragazzi e ragazze, uomini e donne dei quartieri popolari accompagnano fino alla Plaza de Mayo il figlio dei quartieri popolari diventato il D10s del calcio.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

All’entrata di Plaza de Mayo, tra il Cabildo e la Cattedrale, sovrastata dai grattacieli delle banche della City porteña, campeggiano tre striscioni, come durante le grandi manifestazioni popolari contro il neoliberismo che hanno scandito il tempo del governo di Mauricio Macri, ex presidente del Boca Juniors ed ex presidente dell’Argentina. Lo stesso Macri contro cui Maradona sbottò poco più di un mese fa, dicendogli chiaramente: «le tue decisioni politiche hanno rovinato la vita alle prossime due generazioni argentine». Il primo striscione dice: «Todas las villas en una sola persona: Diego Armando Maradona», il secondo «Gracias Diego, sos la villa en carne viva», il terzo infine «No sabemos a que planeta te fuiste, pero nadie olvida de donde saliste».

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Sono striscioni della Garganta Poderosa, organizzazione popolare villera, conosciuta per la rivista dalla grafica pop che circola nei chioschi, nelle edicole, nelle manifestazioni e nei quartieri popolari, e per il processo contro la polizia per gli atti di tortura contro due militanti dell’organizzazione, evento al centro della ribalta mediatica nel 2018, quando l’ex ministra della Sicurezza Patricia Bullrich attaccò in diretta televisiva l’organizzazione popolare. Villera vuol dire delle villas miserias, il modo in cui vengono chiamati in Argentina i quartieri popolari nati da occupazioni di terre, quelli che in Brasile si chiamano favelas e in giro per il mondo slum. Per un particolare processo di razzializzazione della povertà, vengono definiti “negros” i poveri, e dunque “negrxs villerxs” gli abitanti delle villas, che nel corso dell’ultimo secolo hanno resa dinamica, caotica e popolare l’espansione di una delle più grandi megalopoli dell’America Latina.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Maradona è uno di loro, è cresciuto in una delle tante immense villas di Buenos Aires, Villa Fiorito, nel municipio di Lomas de Zamora, zona sud dell’immenso conurbano bonaerese che si estende attorno alla capitale federale, e da loro viene pianto e ricordato. Della tumultuosa e disordinata crescita urbana degli ultimi decenni gli insediamenti informali popolari costituiscono l’emblema, con la presenza migrante dalle province o dai paesi limitrofi, le occupazioni di terre, le infrastrutture autogestite, le pratiche di resistenza, il mercato informale, gli sgomberi, la compresenza di speculazioni, interessi politici ed economici, mercati legali e illegali.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Sono i quartieri della cumbia villera, le esecuzioni della polizia nei barrios chiamate “gatillo facil” (grilletto facile), le lotte delle organizzazioni popolari, le speculazioni edilizie, il narcotraffico, il calcio e il tifo, il choripan e l’asado nelle strade, la pandemia e l’assenza di ospedali e centri sanitari, la crisi che aumenta, il dolore per la morte di Maradona, il machismo delle strade e il femminismo popolare, le lotte per ottenere servizi, acqua corrente, fognature, per costruire un futuro tra le macerie del neoliberismo e del progressismo che non arriva fino là.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Quando la polizia interrompe la fila sulla Avenida 9 de Julio sparando proiettili di gomma e lacrimogeni contro un popolo in lacrime da ore in fila sotto il sole per salutare l’idolo, le pietre rispondono agli spari della polizia, emerge la rabbia e l’incredulità per questa assurda e gravissima operazione repressiva con arresti e feriti, fino a quando il Presidente ordinerà al governatore della città di ritirare la polizia perché non può finire con una repressione l’ultimo saluto a Maradona. Così altre migliaia di persone arrivano fino alla Plaza de Mayo, per abbracciarsi e guardare ancora un’ultima volta sui maxischermi davanti alla Cattedrale il gol del D10s all’Inghilterra.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Giorno 3 – ¡CÓMO TE AMAMOS, DIEGO!

A poche centinaia di metri dall’Avenida San Martin si trova lo stadio “Diego Armando Maradona”, chiamata la Cancha del Bicho, dal soprannome della storica squadra Argentinos Juniors, famosa per la miracolosa cantera dove Diego arrivò ragazzino da Villa Fiorito. Nel quartiere popolare dove Maradona ebbe la sua prima casa in affitto, i tavoli davanti ai pochi bar aperti sono semivuoti, il sole tramontando illumina gli spalti del piccolo stadio dalle gradinate in cemento, un angolo del campo di calcio è visibile dalle case attorno. Siamo alla Paternal e intorno allo stadio i murales biancorossi dedicati al Pibe de Oro riflettono la luce del tramonto, mentre dalla finestra del palazzo di fronte risuona il canto maradoniano di Rodrigo: “y todo el pueblo cantó: “Maradó, Maradó”, nació la mano de Dios, “Maradó, Maradó”…

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Un gruppo di ragazze arriva con dei fiori in mano, un uomo porta un tazza con fiori bianchi, una coppia giovanissima con una bambina in braccio deposita una maglietta rosa, i due rimangono assorti un momento, poi la bambina vuole muoversi e la accompagnano al passeggino e poi su e giù lungo il marciapiede di fronte allo stadio. Alcune organizzazioni peroniste hanno lasciato una bandiera e una maglia azzurra con il numero 10.  Un altare laico composto da palloni di calcio, magliette, disegni, fiori, richieste, desideri, ricordi, bottiglie di birra, di vino e di fernet, candele, poster, parole. Si alza un leggero vento che spegne le candele, qualcuno si alza e torna ad accenderle.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

«Grazie per sempre» c’è scritto su un cartello, «Hasta siempre Diego» su un altro, «Gracias por la alegria», scritto con un pennarello sulle magliette appese sulle transenne che delimitano il santuario popolare nato sotto la curva che per prima esultò per i dribbling e i gol del Pibe de Oro. Su un cartello, qualcuno chiede al D10s del calcio di esaudire i suoi desideri amorosi: «Fa che il mio amore possa tornare da me». Passano le auto, suonano i clacson, decine di persone cantano “Diego, Diego”. Poi torna il silenzio, la commozione, le birre seduti davanti al luogo che conserva la memoria di qualcosa che non si può spiegare.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Tra le parole più belle per raccontarlo, quelle del gruppo di tango La Guardia Hereje quando canta nella mersavigliosa Para verte gambetear: «30 millones de negros transpirando en tu remera para jugar un mundial más regalo que un cumpleaños, más premio que la quiniela, más baile que en carnaval y en los barrios faltaban televisores para verte gambetear» («30 milioni di “negri”, sudando nella tua maglietta, per giocare un mondiale, un regalo più grande di un compleanno, un premio più grande di una lotteria, un ballo più grande del Carnevale, ma nei quartieri, mancavano televisori per vederti dribblare»).

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Questa è forse l’immagine più commovente che questo tango maradoniano ci consegna, che spiega più di tutte questo amore incondizionato, questo amore che è un fiume in piena, un amore sconsiderato ed esagerato, che risuona dalla Paternal alla Boca, dai bassi e dal centro storico di Napoli fino allo stadio che adesso porterà per sempre il suo nome, e poi fino agli spalti del Gimnasia La Plata, la squadra che Maradona ha allenato fino ai suoi ultimi giorni. Diego che mentre giocava ballava la cumbia, Diego e la sua vita esagerata e contraddittoria, Diego e la cocaina, Diego che si disintossica, Diego amato e odiato, idolatrato e denigrato, Diego e il riscatto popolare, Diego e tutti i sud del mondo, Diego e l’orgoglio di Napoli, Diego e le magie con il suo mancino indemoniato, Diego giocatore e Diego allenatore. Poi c’è Diego che anche da morto è sempre al centro delle polemiche, mentre non si placano le polemiche e le speculazioni sull’ultima operazione, le dipendenze, la sua ultima casa, i rapporti con le figlie, i figli non riconosciuti, le liti, le ex mogli e la famiglia, il medico e la psichiatra, l’eredità.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Diego che ha ballato e segnato, Diego infortunato e Diego che torna in campo, Diego sublime e rissoso, che ha sbagliato e lo ha ammesso, Diego a cui abbiamo perdonato tutto e anche di più, che ha pagato e non ha ceduto, che si è rialzato, che ha denunciato il potere e ha guadagnato milioni, Diego che ha raccontato le proprie debolezze e i propri tormenti – e chissà quanti altri ne avrà avuti, chissà quanti ne avrà. Diego che ha difeso Fidel Castro e la Rivoluzione Cubana, che ha sostenuto Hugo Chávez, che ha marciato con i movimenti sociali contro l’Alca quando nel 2005 fu sconfitto il piano statunitense di un’area di libero commercio delle Americhe.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

«Te amamos Diego», cantano migliaia di persone e, se potessero, gli darebbero ancora un bacio in bocca, quello che tanti giocatori gli hanno tributato in campo e fuori, un altro dei gesti irriverenti che Maradona ha consegnato a un mondo machista e omofobico come quello del calcio, un mondo di cui Maradona è stato parte, espressione, simbolo, un mondo che il suo genio irriverente ha illuminato con le giocate più belle e che il suo talento ha deliziato facendo innamorare gli sguardi stupiti dagli spalti del San Paolo, della Bombonera e degli stadi di tutto il mondo.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno

 

Rivendicato da tante femministe popolari, ricordato dalle Madres de la Plaza de Mayo, amato dai tifosi e dagli appassionati di calcio di tutto il mondo, quel bambino che sognava solo di giocare e vincere un mondiale ha riempito di gioia e di orgoglio generazioni di argentini e napoletani, razzializzati e denigrati, che oggi piangono il più umano tra gli dei, come scrisse Galeano. E così anche il “barrilete cosmico”, che ha amato e fatto amare il pallone entusiasmando milioni di persone, ci ha lasciati. E parafrasando ancora La Guardia Hereje, se «ogni lacrima è stato il prezzo per aver visto i tuoi dribbling», adesso «basta solo socchiudere gli occhi, per vederti ancora segnare», e sognare ancora quei dribbling e quei gol che non dimenticheremo mai.

 

Foto di Gianluigi Gurgigno