approfondimenti

ITALIA

Costruire pratiche collettive contro la guerra

Lo statement finale della residenza “Rearm? No, reset!”, tenutasi a Roma il 28-30 marzo 2025, per immaginare pratiche trasformative alla luce del regime di guerra che si sta imponendo dentro e fuori i confini delle nazioni. Con la prospettiva di creare ulteriori connessioni e reti in vista di mobilitazioni future

Dal 28 al 30 marzo oltre cento persone hanno partecipato all’incontro nazionale contro la guerra Rearm? No, reset! promosso dalla Rete per lo Sciopero Sociale Eco-Transfemminista contro la guerra (RESET Against the War). Nell’arco dei tre giorni, singole soggettività, appartenenti a spazi sociali, collettive studentesche, coordinamenti e sindacati di base hanno accettato la sfida di affrontare il disorientamento che da tre anni attraversa i movimenti, mettendo la guerra al centro della discussione. I quattro tavoli tematici hanno permesso un confronto aperto e franco, che ha consentito di fare passi avanti condivisi nell’analisi della fase attuale e verso il superamento di blocchi e automatismi che hanno costituito un limite evidente in questi anni. Per questo, i report dei tavoli che mettiamo a disposizione [Regime di guerra e diritto alla città; Riconversione economica? Guerra, produzione e riproduzione; Quale “nuovo” internazionalismo di fronte alla guerra?; Cassetta degli attrezzi per movimenti insorgenti] contengono ipotesi, pongono problemi, smontano linguaggi e categorie.

L’incontro non solo ha raccolto il lavoro di mesi di preparazione da parte di singol*, gruppi e collettivi, ma ha affermato praticamente l’urgenza di costituire un luogo aperto per ripensare il nostro modo di fare movimento, oltre le formule e le pratiche consolidate, guardando con lenti diverse la realtà di una guerra che non parla da sola e non è confinata allo scontro militare sui campi di battaglia, ma scandisce incessantemente il nostro presente. Organizzarsi per lottare dentro e contro la guerra è l’urgenza che l’incontro consegna e da cui ripartire. Per quanto registriamo positivamente la ripresa di iniziative di contestazione delle politiche di riarmo avviate nel contesto europeo e di rifiuto del genocidio in atto in Palestina, affermiamo al tempo stesso l’importanza di costruire e ampliare un percorso di crescita collettiva e trasformazione sociale che sappia produrre un linguaggio comune, superando i blocchi che sin qui hanno impedito lo sviluppo di un movimento esteso e radicale contro la guerra e la sua logica trasversale.

Manifestazione a Coltano, giugno 2022

In opposizione alla guerra, che produce morte e distruzione su molteplici fronti, frammentandoli, l’incontro ha riconosciuto l’orizzonte comune che li lega e che connette ciò che accade lungo questi fronti con le trasformazioni transnazionali – economiche, politiche e sociali – che attraversano ogni territorio e realtà nazionale. La guerra produce oggi una violenta riaffermazione di gerarchie e ruoli sociali, coazione al lavoro e sfruttamento, limitazione degli spazi di liberazione di cui possono beneficiare solo gli Stati e il capitale. Ma sbaglia chi pensa che questi ultimi abbiano, con il ricorso alla guerra, ripreso il controllo del disordine sistemico. Stato e capitale devono imporre con l’uso della forza e con una continua e incessante propaganda e militarizzazione i loro propositi: inseguire un lavoro vivo riottoso a farsi sfruttare e arruolare per il bene dello Stato e delle imprese; individuare sempre nuovi nemici nei migranti, nelle donne, nelle persone LGBTQI+, nei lavoratori e nelle lavoratrici e in chiunque contesti lo stato di cose presenti.

Alcun* di noi hanno usato in questi anni modi diversi per riferirsi e registrare questo cambiamento di scenario, parlando di “regime di guerra” o “terza guerra mondiale”. Si tratta di una discussione aperta e che continuerà, di cui i report restituiscono alcuni elementi. L’uso di queste diverse formule non ha tuttavia impedito di puntare alla costruzione di un discorso comune: ciò su cui vogliamo porre l’accento è che registrare la centralità politica della guerra, del suo ritorno sulla scena mondiale, più che riattivare parallelismi storici, serve a indicare la condizione generale in cui ci troviamo, dove la guerra viene mobilitata come principio d’ordine, scontrandosi con l’instabilità irriducibile di ogni assetto sociale e politico

Nella drammaticità del momento, riconosciamo nella guerra una posta in gioco che chiama in causa i movimenti organizzati e chiunque voglia qualcosa di più della miseria di questo presente. Cogliere questa posta in gioco è oggi decisivo per non rimanere invischiati nella logica del nemico, nella geopolitica dei fronti e dei blocchi che fanno degli Stati, delle rappresentazioni omogenee e monolitiche dei popoli, delle identità, gli unici soggetti legittimi all’ombra del capitale.

Opporsi alla guerra e alle sue logiche è oggi il punto di partenza per ogni lotta che punti a non essere meramente residuale e reattiva: contrastare le pretese ordinatrici del militarismo, della violenza patriarcale, del razzismo, dello sfruttamento e della devastazione ambientale è il punto di partenza per fare della pace un orizzonte reale di lotta al di là di ogni condivisibile, ma insufficiente, evocazione morale. Serve dunque costruire praticamente una politica altra, che sappia finalmente produrre un piano di comunicazione tra soggetti sociali, precarie, migranti, donne e soggetti LGBTQI+ che subiscono ovunque gli effetti e i costi sociali della guerra e li rifiutano con i loro comportamenti e le loro rivendicazioni.

Organizzare l’opposizione alla guerra, imporre la sua fine, vuol dire per noi oggi rifiutare ogni arruolamento per affermare un terreno comune di lotte capaci di richiamarsi, sostenersi, rafforzarsi, allargarsi. Significa valorizzare ciò che c’è, al fine di superarlo e attivare altro, trovando parole condivise per produrre iniziativa e sapendo che la ricerca di queste parole può essere il terreno su cui scontare anche conflittualmente le nostre divergenze. Non ci serve richiamare parole d’ordine abusate, insufficienti quando non controproducenti, ma costruire un discorso e una pratica condivisi capaci di fare i conti con le differenze tra soggetti organizzati, condizioni sociali e geografiche. Sottrarsi, disertare, resistere, non è più sufficiente: ciò che è necessario è costruire le condizioni per le quali i soggetti colpiti dalla guerra e dalle sue logiche di sfruttamento, razzismo, patriarcato, devastazione ambientale possano convergere, acquisire potenza e sovvertire.

Ciò rende decisivo pensare oltre i confini nazionali, ripensare l’internazionalismo oltre la tradizione dell’internazionalismo stesso. Per quanto possiamo considerare odiose e bisognose di risposta le politiche portate avanti dal governo o le condizioni che dobbiamo affrontare nei territori e negli spazi metropolitani, infatti, non è più rinviabile riconquistare una capacità di immaginazione e azione transnazionale. Ciò non significa solo riconoscere che tutte e tutti siamo presi in processi che agiscono su questa dimensione, ma anche comprendere che è su questo piano che possiamo trovare la forza necessaria per contrastare quei processi, a partire dalla dimensione europea. Alla sterile opposizione tra europeisti e non europeisti dobbiamo opporre una politica in grado di rovesciare un’Europa di guerra che va ben oltre il piano di riarmo e si profila come spazio in cui il comando sul lavoro vivo diventa sempre più violento, sotto il segno dell’autoritarismo, del patriarcato, del razzismo e dello sfruttamento. Essere parte dell’elaborazione di un discorso e di una pratica di lotta transnazionali ed europei, capaci di guardare l’Europa oltre i suoi confini istituzionali, è parte integrante dell’opposizione alla guerra.

Per andare in questa direzione – oltre a continuare a stare nei percorsi e nelle mobilitazioni in cui siamo impegnat* e a cui parteciperemo nei prossimi mesi portando l’approccio che ha caratterizzato la residenza – vogliamo promuovere ulteriori incontri aperti di discussione che permettano di approfondire le ipotesi e i temi qui sollevati.

Non vogliamo aggiungere date a calendari già pieni di scadenze che ci vedono in molte occasioni coinvolt*, ma riaprire un terreno di confronto e discussione per alimentare un processo di accumulo di capacità di comunicazione e organizzazione.

Chiamiamo sciopero questo processo organizzativo, dal momento che deve essere in grado di interrompere le logiche di sfruttamento, razzismo, patriarcato e devastazione ambientale che la guerra estende a tutta la società. Interrompere non significa inseguire momenti decisivi, ma fare di ogni momento una possibilità affinché chi è più colpito da questo presente di violenza e sfruttamento possa riconoscersi in una condizione comune e tornare a cospirare insieme.

Immagini di copertina e nel corpo del testo di Andrea Tedone, manifestazione a Coltano, giugno 2022

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