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Contro la società dell’intrattenimento: l’abgioia di Mark Fisher (nonostante tutto)

È uscito nelle scorse settimane “Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione”, secondo dei quattro volumi con cui Minimum Fax sta pubblicando la traduzione (a cura di Vincenzo Perna) degli scritti dello storico blog K-Punk di Fisher. Un’occasione per fare il punto sul cantiere teorico rappresentato dal pensiero di Fisher

1. «Perché ho aperto questo blog? Perché sembrava uno spazio – l’unico spazio in cui era possibile portare avanti il genere di discorso che era iniziato nella stampa musicale e nelle art school, ma che era quasi del tutto scomparso, con quelle che ritengo conseguenze culturali e politiche terribili».

Così comincia l’antologia in quattro volumi che raccoglie, oltre a qualche breve articolo apparso su riviste varie, i post di Mark Fisher sul suo storico blog K-punk. In Italia, il primo volume dedicato agli scritti politici, Il nostro desiderio è senza nome, è uscito all’inizio del 2020 e il secondo, Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione, poche settimane fa (in entrambi i casi la traduzione è di Vincenzo Perna per i tipi di minimum fax).

2. È impossibile negare che intorno alla CCRU – e a ciò che ne è seguito dopo la sua fine, blog di Fisher incluso – si è andata formando una mitologia che emana un vago sapore di cella frigorifera e di teatro anatomico. Anche nella coscienza culturale italiana, il gruppo para-accademico, nato in uno stanzino dell’università di Warwick e ucciso dal Millenium bug, sta diventando, con i suoi transfughi, discendenti ed epigoni, uno stimolo che evoca immediatamente associazioni molto specifiche: gli anni ’90 trasfigurati da uno sconvolgimento epocale, lo shock della realtà aumentata della e dalla rete, gli amen break, il cyberpunk di Ballard e Gibson, la morte della filosofia rispettabile sotto i colpi di una nuova teoria pulp

3. Queste associazioni, però, non ci pare affrontino il problema; stanno anzi diventando un ulteriore problema visto che ritornano sotto forma di cliché. Liberate progressivamente da ogni funzione connotativa e descrittiva, tali associazioni si stanno infatti trasformando, giorno dopo giorno, in un autentico luogo comune, fatto di corrispondenze immediate e irriflesse. Un ennesimo manierismo teorico, insomma, non dissimile dalla febbre epidemica scatenata dal Mal di Francoforte prima e dalla Sindrome della Decostruzione poi, febbre i cui miasmi ed effluvi minacciano di ammorbare – laddove non lo abbiano già fatto – l’atmosfera di aule universitarie, occupate o meno, virtuali o in presenza.

«La realtà ha subito un’alterazione fondamentale, e il problema va affrontato, non negato» (p. 240). In effetti, «campi di prigionia e caffetterie coesistono senza problemi» (p. 142).

«La “realtà” così definita è rilevante più per ciò di cui manca che per ogni altra proprietà positiva che si ritiene possegga. E ciò che manca è prima di tutto la fantasia. O meglio gli oggetti di fantasia. Un tempo guardavamo alla cultura di massa perché sapeva produrre oggetti di fantasia. Oggi invece ci viene chiesto di “identificarci con” il soggetto che fantastica» (p. 71).

4. Per quanto, per etichetta intellettuale, ci sentiamo in obbligo di denunciare questa sclerotizzazione, cercando di prendere congedo da pensieri tanto (poco) chiari e distinti – se non, addirittura, da riflesse tentazioni pavloviane –, non possiamo nascondere la fascinazione che proviamo di fronte all’immagine piatta e luccicante che ci viene restituita dai rituali macabri che celebrano la scomparsa della CCRU e la “diaspora” dei suoi membri sotto i colpi di un Capitale che, seppure forse già morto, come afferma Mckenzie Wark, è tuttavia ancora capace di sempre più veloci e letali mutazioni postume. Ci piacerebbe poter vivere – se solo fosse possibile – in questo algido simulacro intessuto dai fili di un racconto fantasy sorto dalle ceneri della CCRU, un racconto che intreccia alta definizione a modesta risoluzione («Il tardo capitalismo non è in grado di generare molte idee originali, ma sforna con facilità upgrade tecnologici», p. 201).

Libero dagli attriti, questo luogo comune, questo spazio liscio, suscita in noi l’insana speranza che possa prosperare, o quantomeno sopravvivere, all’usura del tempo e così lasciar scorrere il godimento. In fondo, non siamo immuni – e perché mai dovremmo esserlo? – alle pulsioni mosse dal Grande Altro, a cui non cessiamo di addossare la responsabilità di produrre e riprodurre i conformismi che pretendiamo di riconoscere e, quindi, di rifiutare.

«Dio, il Grande Altro, il Simbolico non esiste: ma persiste attraverso la ripetizione di quei rituali. Il Padre è doppiamente morto. Afferma il suo potere soltanto quando è morto, ma il suo potere è esso stesso solo potere di morte: il potere di mortificare la carne vivente, di distruggere il godimento» (p. 133).

5. Questa immagine piatta, priva di asperità, è legata certamente una forma di nostalgia, per un tempo in cui il futuro ancora premeva alle porte del presente. Unheimlich (weird ed eerie), certo, fonte di delirio ma, al contempo, di speranza. In un certo senso, l’alone mitico che circonda il cadavere della CCRU ci incanta perché sembra il miraggio ingenuo e, oggi, esausto di una frontiera, di una linea all’orizzonte, sempre più differita e lontana. Un’esca banale, ma efficace. Era un’epoca quella della CCRU – un’epoca prolungatasi con coraggio fin dentro i codici di K-punk – che aveva compreso la taumaturgia capitalista – «l’ideologia del capitalismo è oggi “anticapitalista”» (p. 154) – e così poteva provare ad arginarne «l’eccitazione forzata» «per l’ultimo prodotto culturale tetro-patinato» (p. 123). Fino a sostenere quelle che oggi, nel tempo della più sfrenata restaurazione, verrebbero chiamate eresie.

«Il conflitto tra elitarismo e populismo è un’invenzione neoliberista […]. L’attacco dei neoliberisti alle “élites” culturali è andato di pari passo con il consolidamento e l’espansione dell’élite economica. Ma non c’è niente di “elitario” nel pensare che il pubblico sia dotato di intelligenza, proprio come non c’è niente di ammirevole nel “dare alla gente ciò che vuole”, come se il desiderio fosse un dato di fatto invece che il risultato di infinite mediazioni» (p. 197).

6. Il simbolo più acuto e più duraturo di questo sentimento di nostalgia per un future shock, per un contraccolpo radicale proveniente da un domani non troppo lontano, è Terminator, personaggio cult interpretato da Arnold Schwarzenegger a partire dalla pellicola omonima del 1984 e uno dei sintomi più vividi del futurismo profondo che innervava la CCRU.

Terminator è un cyborg proveniente dal futuro, capace di modificare il corso della storia in maniera radicale e totalmente imprevedibile. Assemblato a partire dai resti delle catene di montaggio fordiste e rappresentante degli stravolgimenti tecnologici che premevano alle porte, Terminator era il precipitato libidinale di un mondo aperto verso l’ignoto e l’improbabile. Un mondo in cui l’accelerazione dei flussi di merci, segni e corpi prometteva una deflagrazione così devastante da disfare e ritessere la trama del mondo. Terminator annunciava un’aurora liquida, un rinnovato cosmo orizzontale, in cui ogni oggetto sarebbe stato sciolto nell’acido corrosivo di un iperoggetto fatto di pile esauste e fiamme di silicio sature di informazioni. Al cospetto di questa scioccante meraviglia, Nick Land scriveva: «I film Terminator hanno come protagonista un artefatto bio-tecnico chiamato Arnold Schwarzenegger, coperto da strati e strati di artificialità, nei panni di un incubo da test di Turing retro-infiltrato fra gli umani per disarmarli contro l’invasione di neo-replicanti» (Fanged Noumena, p. 422).

Land, però, pare non considerare che Terminator – già con la seconda pellicola del 1991 – era diventato una saga e Terminator un esangue franchise hollywoodiano. Pur rimanendo un sintomo si è sviluppato come un sintomo altro (o un sintomo dell’Altro?), un sintomo cronicizzato, stagnante come i tempi che tuttora viviamo.

Fisher, però, non abbandonò mai l’abgioia, la sua disperata vitalità (per usare una rabbiosa terminologia pasoliniana). Fisher non ha mai smesso di tenere vive le perturbanti speranze del futurismo profondo nel bel mezzo del ciclone TINA – al cui centro vortica, immobile, la depressione edonica indotta da dipendenza al realismo capitalista. Proprio per questo, la sua presa di distanza da Terminator è il riconoscimento sconsolato, ma tutt’altro che domato, della vittoria di un presente in cui ogni novità è priva, o meglio, è stata privata di zanne e virulenza.

«A questo punto abbiamo già visto Arnie Terminator modello originale 1984 fatto fuori da un Terminator più anziano» (p. 253), un’«irritante combinazione di sufficienza caramellosa […] e di premonizione apocalittica» (pp. 252-253). «Nel 2015 quell’eccitazione è ormai morta e sepolta» (p. 254). Terminator sembra diventato un operatore di un qualche nonluogo «dove i lavoratori devono seguire comportamenti quasi-automatici […] rinunciare alla soggettività per trasformarsi in semplice appendice biolinguistica addetta alla ripetizione di frasi stereotipate» (p. 104).

7. Che Fisher continuasse a sentire la potenza liberatoria del primo Terminator, è mostrato dalla distanza che, anche in questo caso, inserisce tra sé e Land: «Il pirataggio landiano dei film Terminator, Blade Runner e Predator ha reso i suoi testi parte di una tendenza convergente – una cybercultura accelerazionista in cui la produzione di suoni digitali ha dischiuso un futuro inumano che andava assaporato invece che rigettato» (https://www.chaosmotics.com/it/sulla-critica-accelerazionista/terminator-vs-avatar).

Il che ci pare metta in gioco una questione teorica ancora più ampia: la concettualizzazione politica dell’iperstizione. Concettualizzazione che non ha mai smesso di legare/separare in un non/rapporto indissolubile Fisher e Land: la capacità di autoavverramento degli “oggetti culturali” genera un sentimento nostalgico in Fisher e una modalità nostalgica in Land. Sentimento nostalgico significa continuare a produrre, anche al culmine della disperazione, visioni del futuro che auspicabilmente questo stesso futuro sarà in grado di catturare; modalità nostalgica significa invece, anche allo zenit di una condizione che sfocia nella mania, continuare a immaginare l’irrimediabilmente perduto. In questo senso, Fisher è abgioiso e Land no.

«La modalità nostalgica implica l’incapacità di immaginare qualcosa di diverso dal passato, di generare forme in grado di affrontare il presente, e meno che mai il futuro» (p. 127). Ci pare, insomma, che Fisher, a differenza di Land, abbia compreso che non è possibile «rivivere un momento perduto», considerazione questa a cui aggiunge l’intuizione che, forse, «quel momento non è mai esistito» (p. 55)

8. Il grande pregio di Schermi, sogni e spettri – e in generale dei volumi K-punk – è proprio quello di incarnare il senso di sconfitta che Fisher metteva in luce nei fenomeni di massa a lui contemporanei e contro i quali, nonostante tutto, non ha mai cessato di battersi – con ostinazione critica e rigore morale. L’intero volume, infatti, è una sorta di schizoanalisi dolente del cinema, della cultura pop e, più genericamente, delle immagini del nostro presente, dissezionate come se fossero il ritorno zombie di un desiderio rattrappito e sfibrato. Si potrebbe dire che lo schermo cinematografico (o televisivo) protagonista di questo volume è una lamiera lucida di una ballardiana automobile post-traumatica su cui risplendono i sintomi d’ansia, di spaesamento e le derive paranoidi del presente – le chiusure identitarie e le menti infrante. Certamente non è una lettura piacevole, ma è istruttivo e utile – cioè potenzialmente trasformativo – sentire con tale grado di intensità fin dove si spingono la nostra tristezza e le nostre nevrosi.

«Oggi niente tragedie: solo spasmi d’indignazione di breve durata, eiaculazioni d’odio e sofferenze consumate in fretta come un fast food» (p. 261). Oppure: «L’ascesa del fantasy come genere negli ultimi venticinque anni si può direttamente correlare con il crollo […] di ogni efficace struttura di realtà alternativa al di fuori del capitalismo» (p. 58).

9. Crea, tuttavia, un certo disagio rileggere questi interventi “in presa diretta” all’interno di un libro che, volens nolens, riterritorializza i flussi deterritorializzanti delle diffrazioni di Fisher.

Tutti i pezzi che compongono Schermi, sogni e spettri e, più in generale, l’intera opera K-punk furono pensati come interventi su un blog, interventi immessi senza protezione – come sogni spettrali senza schermi – nel flusso magmatico della rete. Si trattava, insomma, di proiettili rivolti verso il presente in fieri, mossi dalla volontà di essere rapidi e circoscritti per colpire la carne dell’immaginario collettivo proprio là dove fa più male. In breve, interventi pensati per essere creature fragili, contingenti e letali. Non possiamo perciò non avvertire i pesanti effluvi di incenso che si spargono intorno a un’imbalsamazione precoce. Forse si tratta di un atto di riguardo verso scritti che, però, continuano a reclamare il loro diritto di poter morire insieme a ciò che criticavano o a ciò che celebravano.

Siamo consci, tuttavia, che l’estrazione di questi scritti da un blog che potrebbe sparire da un momento all’altro è un’operazione non priva di meriti. In altre parole, non vorremmo perdere per sempre la possibilità di leggere, per esempio, i referti diagnostici, fulminei e illuminanti, di Fisher: «Il fascismo postmoderno è un fascismo rinnegato. […] la strategia è quella di rifiutare l’identificazione con il fascismo e contemporaneamente perseguirne il programma politico» (p. 117). Oppure: «Sappiamo che le nostre ricchezze e comodità sono ottenute a prezzo delle sofferenze e dello sfruttamento di altri, che le nostre azioni più insignificanti contribuiscono alla catastrofe ecologica, ma le catene causali che connettono le nostre azioni alle loro conseguenze sono talmente complesse da non risultare mappabili: si trovano molto al di là della nostra esperienza e di ogni possibile esperienza (da qui l’inadeguatezza della politica “dal basso”)» (pp. 181-182). E ancora: «Il lavoro può benissimo essere affettivo e linguistico senza essere “cognitivo”: esattamente come un cameriere, un lavoratore di un call center può attivare l’attenzione senza essere costretto a pensare. Per questi lavoratori non-cognitivi, anzi, il pensiero è un privilegio al quale loro non hanno diritto» (p. 106).

L’ambivalenza tra affetto e cognizione – nei confronti di Fisher – dovrebbe suggerire un supplemento di riflessione per domandarci se sia davvero necessario impagliare ogni prodotto culturale o se non sia invece doveroso rispettarne la misteriosa e impalpabile volatilità.

«Una cultura che vive soltanto nei musei è già finita» (p. 145). Oppure: «Quanto può persistere una cultura in assenza del nuovo?» (p. 143).

10. Per finire, una nota di abgioia:

«L’unica domanda è come e quando avverrà la rivoluzione, non se debba avvenire o meno» (p. 213).