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MONDO

I combustibili fossili sono una minaccia per l’umanità

Un Panel Intergovernativo delle Nazioni Unite rivela che senza provvedimenti urgenti la vita sul pianeta terra è seriamente a rischio a causa del riscaldamento globale. Ancora una volta la notizia scompare dai media italiani. A seguire un approfondimento da The Intercept

A metà del secolo scorso, si scoprì che il DDT poneva un rischio alla salute umana e animale. La risposta finale a questa notizia – dopo una lotta prolungata tra ambientalisti e industria chimica, fu un bando federale per tutti gli usi della sostanza ritenuta insicura.

L’8 ottobre il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico dell’ONU (IPCC) ha distribuito un inquietante report che suggerisce che stiamo, al momento, correndo verso i 3 gradi di riscaldamento causati da emissione di gas serra. Gli autori dell’IPCC stimano che vedremo città della costa inghiottite dal mare, diminuzione della produzione globale di cibo e 54 miliardi di costi associati al clima non più tardi del 2040.

Questa catastrofe che si avvicina velocemente è la ragione delle richieste degli abitanti delle zone del Sud del mondo e dei loro alleati, per i quali la crescita delle maree e le tempeste sono già una realtà.

Hanno a lungo invocato «1,5 gradi per sopravvivere» attraverso le negoziazioni sul clima dell’ONU e questo nuovo report – che definisce strade per limitare il riscaldamento al grado e mezzo Celsius – è un testamento di quel lavoro. La stima è in linea con il target «ben sotto i 2 gradi» degli Accordi sul Cima di Parigi, e, secondo il co-presidente di uno dei gruppi di lavoro che ha costruito il rapporto, Jim Skea, raggiungere quel target «è possibile all’interno delle leggi della fisica e della chimica».

Una reazione sociale di pari proporzioni all’approccio al DDT, in altre parole, potrebbe ancora salvare l’umanità. Sarà enormemente difficile – molto più che ottenere il bando su una sostanza chimica. E dovremo alla fine farlo ovunque. Il capitalismo, inoltre, non era costruito attorno al DDT in modo simile a quanto invece è costruito attorno ai combustibili fossili. «Limitare il riscaldamento a 1,5 non è impossibile» ha detto nella conferenza stampa Hoesung Lee, il direttore dell’IPCC, «ma richiederà transizioni in tutti gli aspetti della società mai avute prima».

Riuscire a liberarsi dalla dipendenza da combustibili fossili non è un atto senza precedenti. Il Costa Rica sta assumendo il «compito titanico e bello di abolire l’uso dei combustibili fossili dalla nostra economia», secondo il trentottenne primo ministro Carlos Alvarado. In Nuova Zelanda, il primo ministro Jacinda Ardens del governo dei Labour ha messo al bando le nuove esplorazioni di petrolio sempre sulla strada verso una economia priva di carbonio.

Tuttavia, molte delle conversazioni dei decisori politici sul tema della riduzione delle emissioni di gas serra si focalizzano su come incentivare i produttori di combustibili fossili a ridurre gradualmente la propria produzione attraverso meccanismi legati al prezzo, piuttosto che di discutere di quella sorta di fuoriuscita a rotta di collo che eviterebbe la rovina economica e ambientale.

Le compagnie petrolifere – felici di rappresentarsi come alleate nella lotta climatica – danno il benvenuto all’approccio della politica. Molti produttori di combustibili fossili stanno ora sponsorizzando sforzi come quelli del Climate Leadership Council (CLC) e il suo piano di “carbon tax”, che metterebbe in ginocchio la capacità del governo di regolare il diossido di carbonio in modo diretto mentre imporrebbe una modesta tassa sulle emissioni – abbastanza alta da continuare a disincentivare il carbone, ma troppo bassa per porre una minaccia al petrolio e al gas. Il piano produrrebbe 2000 dollari annui di dividendi a individui negli USA senza usare profitti per finanziare infrastrutture verdi, o ricerca e sviluppo.

 

Nella prospettiva agghiacciante e tenebrosa che di solito accompagna le storie sul cambiamento climatico, accade che sia facile dimenticare chi è soprattutto responsabile del disastro di oggi e chi dovrebbe pagare il prezzo più alto.

 

«Almeno il 50% delle emissioni di carbonio è generata da attività di circa il 10% della popolazione globale, e la percentuale si innalza al 70% di emissioni da appena il 20% di cittadini» ha scritto lo scienziato Kevin Anderson in una risposta al nuovo report. «Imporre un limite alla percentuale a persona di impronta di carbone fino al 10% di emissioni globali, equivalente a quello di un cittadino europeo medio e le emissioni globali potrebbero essere ridotte di un terzo nel giro di un anno o due». Per curiosità solo 100 multinazionali sono responsabili del 71 percento di emissioni di gas serra dal 1988.

Anderson aggiunge che «per ridurre in modo genuino le emissioni in linea con il limite del riscaldamento di 2 gradi, è necessaria una trasformazione della capacità produttiva di una società, che ricorda quella del Piano Marshall» e che non dovrebbero esserci «enormi seconde case, SUV, voli in classe business o alti livelli di consumo».

Al contrario dell’Accordo di Parigi – che non menziona mai i combustibili fossili – questo nuovo report dell’IPCC rende dolorosamente ovvio che evitare quel destino e incontrare gli obiettivi di Parigi si basa essenzialmente su due cose: incrementare risorse energetiche a zero immissioni di Co2, e riuscire a uscire rapidamente dal carbone, dal petrolio e dal gas. In una conferenza stampa che annuncia il report domenica, Skea ha risposto ad una domanda di The Intercept «penso che il messaggio sia abbastanza chiaro. Abbiamo quattro modi che illustrano come i governi potrebbero pensare come mantenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi, e tutti questi coinvolgono cambiamenti abbastanza significativi nello schema di utilizzo dei combustibili fossili». […]

 

«Le strade che limitano il riscaldamento globale a 1,5 gradi con limitate trasgressioni» conclude il report «richiederebbero rapide transizioni nell’energia, la terra, le infrastrutture urbane (inclusi trasporti e abitazioni) e in sistemi industriali. Queste transizioni di sistema non hanno precedenti in termini di scala ma non necessariamente in termini di velocità e impiegherebbero profonde riduzioni delle emissioni in tutti i settori».

 

 

Quanto meno dobbiamo abbandonare i combustibili fossili per avere un risultato decente capace di evitare la catastrofe planetaria quanto più in fretta possibile. «Mantienili sotto terra» è stata per anni una richiesta di attivisti e ambientalisti in lotta contro progetti di infrastrutture come il Keystone XL e il Dakota Access Pipelines. Qualunque lettura onesta del report dell’IPCC suggerisce che chiunque sia impegnato a mantenere la terra abitabile dovrebbe essere d’accordo con questa richiesta.

Nick Schulz, direttore di relazione con stakeholders presso Exxon mi ha detto alla fine di un evento sponsorizzato da CLC il mese scorso: «Se cerchi una soluzione politica vuoi la più efficiente ed efficace. Se parli con economisti ti diranno che la carbon tax è il meglio che puoi fare». Il fondatore di CLC Ted Halstead ha chiamato il suo piano una “Killer App” per le policy sul clima, definendola la «più efficace soluzione climatica». In un editoriale su Fortune, lui e il precedente presidente della Federal Reserve Janet Yellen hanno ribadito che «il piano si basa su una carbon tax basata sul mercato che la rende la più efficace a livello di costi nella percezione di economisti di ogni tipo» rafforzando il supporto che il piano del CLD gode da BP, Exxon Mobil e Shell.

Interpellato sull’argomento, Peter Erickson, scienziato all’Istituto ambientale di Stoccolma non era così disposto a prendere la saggezza degli economisti ad un valore di facciata.

 

«Se sei veramente agnostico da non sapere chi paga il costo e da dove la riduzione di emissioni proviene, allora è efficiente la carbon tax. Ma parlando di efficacia la questione è ben diversa. Abbiamo vite da salvare. Dobbiamo avere un pianeta vivibile».

 

«Non è detto che saremo capaci di arrivarci con la più efficiente modalità disegnata dagli economisti usando gli stessi strumenti che hanno utilizzato per decenni. Abbiamo un sacco di esperienza con questi – e dovremmo continuare a provare – ma non dovremmo essere ciechi sul pensare che questo è l’unico modo per arrivare a quel risultato», ha aggiunto. «Cerco di approcciare la questione pensando a che cosa abbiamo bisogno per mantenere una terra vivibile per l’umanità, non che cosa c’è bisogno per far piacere alla comunità degli affari. In una prospettiva scientifica e basata sull’uguaglianza devi dirigere politiche per liberarti dai combustibili fossili. Abbiamo bisogno di più in termini di sussidi ai veicoli elettrici, ma anche messe al bando di veicoli a combustione, come hanno detto che stanno per fare in Cina. Abbiamo bisogno di bandi su nuove espansioni dei combustibili fossili».

C’è anche motivo di sospettare che approcci più indiretti semplicemente non stanno prendendo il comando. Un report recente dell’OCSE ha rivelato che i prezzi del carbonio nel mondo sono pericolosamente sotto quanto dovrebbero essere per riuscire a determinare un ostacolo serio alle emissioni. Annunciando questo report il segretario dell’OCSE Josè Angel Gurria ha minacciato che «il divario tra i prezzi del carbonio di oggi e l’attuale costo delle emissioni nel nostro pianeta è inaccettabile» [..].

Il bando diffuso sul DDT che è passato negli USA alla fine è arrivato in UK. Riflettendo sulle lotte lì, Martin Harper della Società Reale di Protezione degli Uccelli ha detto recentemente al Guardian «abbiamo impiegato 10 anni per ottenere un bando al DDT dopo che i suoi effetti erano già stati dimostrati. In modo simile oggi, già avvisati di un pericolo chimico, i governi aspettano finché i risultati delle analisi siano inequivocabili. Poi suggeriscono che l’industria prenda azione volontaria. Solo quando questo fallisce, istituiscono un bando, quando già si è molti anni in ritardo».

 

Articolo apparso sul sito The Intercept

Traduzione a cura di DINAMOpress