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ITALIA

«Civitavecchia ha vari progetti alternativi al fossile»: intervista a Riccardo Petrarolo

Una intervista sulla situazione di Civitavecchia tra porto, inquinamento fossile e mancata transizione, e quella di Piombino in vista della manifestazione dell’11 marzo nella città toscana contro il rigassificatore, lanciata dalla rete per il clima Fuori dal Fossile

«A Civitavecchia chi si muove contro il cambiamento climatico e contro l’inquinamento di prossimità lo fa nella consapevolezza che la lotta sociale sta dentro queste richieste. Parlare di buon lavoro, non di lavoro a tutti i costi e, oserei dire, di reddito è parte della lotta al cambiamento climatico, è parte della lotta contro l’inquinamento di prossimità. Il collettivo “No al fossile” e Fridays for Future Civitavecchia non fanno di questa cosa una questione marginale o da slogan, ne fanno un tratto distintivo: la nostra caratteristica è questa e ci teniamo tantissimo. La nostra è ancora una piccola realtà operaia e aver avuto in tante occasioni molti lavoratori, operai, compresi i lavoratori metalmeccanici, elettrici e portuali alle iniziative a rivendicare una giusta transizione che significa anche garanzie occupazionali e quindi sociali, per noi è motivo d’orgoglio».

L’intervista a Riccardo Petrarolo del Comitato No al fossile di Civitavecchia racconta il percorso militante e le rivendicazioni politiche.

Com’è nato il comitato no al fossile di Civitavecchia?

Questo comitato nasce nel 2019 durante una manifestazione del nodo locale di Fridays For Future Civitavecchia, nato a sua volta nel 2019.

Queste due realtà cominciano immediatamente a interagire nel 2019, con una differenza il comitato “No al fossile” ha al suo interno attivisti anagraficamente più grandi, ovviamente, che avevano già fatto percorsi di lotta sul territorio contro quella che nei primissimi anni del 2000 fu il processo di riconversione da olio combustibile a centrale a carbone della grande centrale di TVN – Torre Valdaliga Nord –, quindi avevano già un background di attivismo territoriale. Fridays For Future a Civitavecchia è chiaramente il nodo territoriale del movimento globale, però con l’interazione con il comitato “No al fossile” aggiunge alla tematica del cambiamento climatico – che è tematica globale – quella di immaginare una territorialità diversa e finalmente emancipata dai combustibili fossili. Quindi insieme ai ragazzi di Fridays For Future, il collettivo “No al fossile” comincia una serie di attività sia di contestazione che di proposta.

Hai parlato di quest’esperienza di lungo respiro nata all’inizio degli anni duemila. ad inizio anni duemila con la riconversione della centrale di Torrevaldaliga Nord c’è stata una promessa di lavoro per il territorio, coincidente col cosiddetto ricatto salute-lavoro? quali sono state le ricadute effettive di questa riconversione sui due ambiti?

A mo’ di premessa, Civitavecchia conosce il suo rapporto con le centrali termoelettriche dai primissimi anni ’50, addirittura la prima centrale a carbone di Civitavecchia viene costruita intercettando i fondi del piano Marshall, tanto per intenderci. Nei primi duemila, il polo energetico di Torrevaldaliga che aveva due centrali viene indicato dall’ENEL e autorizzata dal Governo a procedere a una riconversione di una delle due centrali – la più grande che è Torrevaldaliga Nord – da olio combustibile a carbone. Questo ha generato in città una fortissima opposizione popolare, da un lato, e una spaccatura dall’altro.

Se da una parte si è mobilitata gran parte della cittadinanza di Civitavecchia – non solo comitati, non solo attivisti e attiviste che fino a quel momento avevano denunciato il peso di queste fonti inquinanti sul territorio ma anche la cittadinanza –, dall’altra parte, il forte ricatto occupazionale di ENEL ha spaccato la città creando un fronte – che brutalmente potremmo definire operaio – che vedeva nella riconversione un’occasione di occupazione, stabilità e di tutela degli equilibri occupazionali nel ramo non solo degli elettrici ma anche dell’indotto metalmeccanico.

Questa spaccatura ha influito sulla paura di una parte di città che già stava ammalandosi di malattie respiratorie e malattie oncologiche aumentate radicalmente negli anni successivi alla riconversione a carbone. Sul piano della salute Civitavecchia sta pagando un prezzo altissimo: l’ultimo dato ufficiale che abbiamo è un dato della Regione Lazio del 2017 che ci parla in un solo anno di oltre 340 nuovi malati oncologici nella sola Civitavecchia, una città di 52mila abitanti che ogni anno conta decine se non centinaia di nuovi malati oncologici. A questi si aggiungono quelli che hanno patologie respiratorie, allergie e quanto altro. Civitavecchia, tra l’altro, non ha solo una fonte inquinante gigantesca legata alle centrali termoelettriche ma anche quella della sua portualità.

La novità degli ultimi anni, dal 2019 in poi, è che ENEL e il Governo – perchè c’era anche il PNIEC che indicava questa cosa – indicano alcune centrali, aree nazionali per la sostituzione della capacità a carbone con capacità di nuova generazione turbogas. Questa cosa ha consentito, non solo al nostro collettivo, ma anche alla cittadinanza attiva di Civitavecchia di mettere in discussione a 360 gradi questo passaggio inter-fossile, perchè la nuova centrale turbogas che ENEL stava proponendo a Civitavecchia non avrebbe garantito la tutela della salute pubblica, non avrebbe garantito nulla sul fronte del contrasto al cambiamento climatico  (perché il metano CH4 è comunque una fonte climalterante) e la nuova centrale non avrebbe neanche creato occupazione, anzi, avrebbe fatto diminuire i posti di lavoro. Quindi dal 2019 in poi quello che era il ricatto occupazionale di ENEL, che ha lacerato la città nei primi Duemila, è saltato in aria, è stato sbugiardato e ha consentito ai comitati ed alla cittadinanza attiva di Civitavecchia di ragionare anche su proposte alternative che stavolta avrebbero dato risposte a 360°: garanzie per la salute della cittadinanza – tema gigantesco, fondamentale e prioritario del cambiamento climatico, che ripeto è tema globale – e anche tema sociale e quindi legato alla buona occupazione – occupazione non precaria, legata a fonti rinnovabili e quindi poli industriali a emissioni zero.

Sotto questo punto di vista, facendo un attimo un passo intermedio, il passaggio dalla centrale a carbone alla centrale a gas non è stato finalizzato nell’autunno 2022 ma la centrale di Torrevaldaliga Nord continua a funzionare a carbone. C’è stata un’implementazione della produzione di energia a carbone nell’ultimo anno? Se sì, si notano altri aumenti di produzione di energia da combustione di carbone in altre centrali italiane?

La mancata realizzazione di nuove centrali turbogas e l’implementazione della produzione energetica con il carbone – che è di fatto un ritorno al passato – è strettamente collegata alla vicenda bellica russo-ucraina e con la conseguente crisi degli approvvigionamenti del gas russo da parte dell’Italia – gas che sul fabbisogno italiano incideva per quasi il 40%. Questa crisi viene aggredita dal Governo Draghi con un decreto che sostanzialmente consente alle centrali termoelettriche a olio combustibile e a carbone già operative di operare a pieno regime. Una delle centrali indicate per l’interesse nazionale come centrale da far funzionare a pieno regime è proprio quella di Torrevaldaliga Nord di Civitavecchia alla quale si affiancano quella di Brindisi, Fusina e altre – non La Spezia che nel frattempo è stata chiusa. La tematica mette al centro varie questioni: il fatto che per anni lo Stato ha sperperato soldi pubblici non investendo nell’ottimizzazione della rete nazionale, non investendo soldi pubblici per un sistema di produzione energetica decentrato – che non sia necessariamente un pachiderma di produzione energetica ma sia legato alle comunità energetiche territoriali e non solo, alle tecnologie che servono ad accumulare energia rinnovabile. Su questo non si è investito, quindi giocoforza, nel momento in cui per un motivo o per un altro viene meno una delle fonti fossili che produce oggi energia, si ritorna al passato e dal progetto del turbogas siamo tornati al carbone.

Hai citato prima dei progetti costruiti dal basso per la città, ma prima di arrivare a questo punto, quali sono state le risposte da parte delle istituzioni più vicine come Comune e Regione Lazio?

Civitavecchia ha introdotto vari progetti alternativi al fossile. Innanzitutto, il piano di ambientalizzazione del porto con un progetto molto ambizioso ma anche tecnologicamente percorribile chiamato “Civitavecchia bene comune” legato a una visione del porto come isola energetica territoriale. Questo permetterebbe la creazione di un grande polo di logistica portuale che sganciato dalla rete elettrica nazionale e autosufficiente grazie all’uso di pannelli fotovoltaici, eolico offshore e accumuli con idrogeno verde – che non ha nulla a che fare con il progetto di ENI del CCS di Ravenna, questa nota è fondamentale per noi.

Questo è uno dei giganteschi progetti introdotti da Civitavecchia. Assieme a questo c’è il progetto del Polo di produzione energetica eolica offshore galleggiante, anche questo legato alla portualità ma non solo, che ha visto la regione Lazio – per onestà intellettuale devo dire che l’interessamento c’è stato soprattutto dall’ex-assessorato alla transizione energetica guidato dalla Lombardi – manifestare interesse per la realizzazione di questi due progetti.

Questa cosa però fa a cazzotti con il fatto che la Regione Lazio sulla questione legata al ciclo dei rifiuti punta su tecnologie che secondo noi sono non solo anacronistiche, ma anche assolutamente piegate all’interesse dei privati. Mi riferisco all’inceneritore – che non è un termovalorizzatore – di Roma e il bio-digestore, che non chiude il ciclo dei rifiuti in maniera virtuosa ed è funzionale alla produzione del biometano. Su questo, c’è da dire che Civitavecchia produce circa 7mila tonnellate di rifiuti umidi l’anno e con il progetto ne vogliono portare 120mila: ciò comporterebbe l’arrivo in città di centinaia di Tir, quindi produzione di ulteriore particolato, ulteriori polveri sottili, ulteriori fonti inquinanti e la chiusura non virtuosa del ciclo dei rifiuti. C’è una duplice faccia della regione: da una parte un assessorato alla transizione ecologica che fino a quando era in piedi ha mostrato interesse ai nostri progetti alternativi. Sottolineo che, da una parte, sono progetti alternativi industriali a emissioni zero che hanno trovato anche nel contesto sindacale forte consenso  e che, dall’altra c’è stata una Regione prona agli interessi privati sia dal punto di vista del ciclo dei rifiuti, sia per gli investimenti sulle comunità energetiche territoriali e sulla produzione di poli energetici a emissioni zero.

La nostra azione in questo senso è sempre stata duplice: pungolare anche con forza e anche con la piazza le istituzioni, e prima creare e poi mantenere in piedi una rete di saperi che dal basso hanno prima immaginato questi progetti alternativi e poi li hanno argomentati nelle sedi istituzionali – mi riferisco a quella cerchia di ingegneri, tecnici e chimici che hanno lavorato insieme a noi per promuovere questi progetti alternativi, che hanno un po’ distinto Civitavecchia dalle altre realtà.

C’è un ecosistema della produzione di inquinamento che si viene a creare: con produzione fossile in senso stretto, e settori di portualità e logistica.

Civitavecchia è un porto particolare che non ha cantieristica navale ma ha gran parte delle sue banchine date in concessione a Roma cruise terminal che mette insieme i colossi del crocierismo mediterraneo – MSC, Royal Caribeean e Costa Crociere.

L’elettrificazione delle banchine in questo senso garantirebbe banalmente il fatto che questi giganti del mare invece di fumare h24 a ridosso dei condomini spengano finalmente i motori. Tra l’altro l’inquinamento che arriva nei quartieri a ridosso del porto a Civitavecchia è pesantissimo e andrebbe monitorato con estrema serietà. In un porto dove non c’è troppo spazio per i container, dove le navi sono soprattutto quelle del crocierismo o del traffico Ro-Pax o Ro-Ro – quindi rispettivamente di passeggeri e rimorchi – spegnere quei motori significherebbe salvare vite, significherebbe abbassare l’incidenza delle malattie oncologiche per i tanti che soffrono già questo supplizio.

dall’altro punto di vista è vero che la logistica è un pezzo importante del porto del futuro, e non solo del porto del futuro. anche ENEL sta iniziando a investire molto sulla logistica tant’è che c’è una branca aziendale che si chiama ENEL logistic la quale ha mostrato un crescente interesse su Civitavecchia.

A oggi, tornando alla prima domanda, elettrificare le banchine, non è un’operazione da poco perché non si tratta solo di elettrificare le banchine ma anche le navi devono avere la tecnologia per poi usufruire della banchina elettrificata, altrimenti succede che tu stai tecnologicamente avanti in banchina e poi però la nave non si può connettere e torna a bruciare carburante ventiquattro ore su ventiquattro.

Aggiungo che i giganti della logistica via mare stanno attuando una strategia di rescaling delle navi porta-container da parte dei colossi dello shipping – ad es. Maersk, Cosco, MSC, Evergiven – che sta portando a un ampliamento degli investimenti nei “porti secondari”, soprattutto nella fascia adriatica. Quindi anche questi piccoli spostamenti, anche ad esempio con ENEL Logistics, che passa da essere estrattore, fornitore e distributore di energia, a essere anche un trust che vuole accaparrarsi una fetta consistente di potere economico-commerciale mondiale. La mossa di ENEL Logistic influisce anche sulla questione dei contenitori, andandosi a immettere nel mercato del trasporto dell’energia in questa fase.

Su questa questione l’Italia è in una sorta di periodo di incubazione perchè gli armatori da te citati adesso si scontrano ma cercano di crearsi porti quasi privatizzati e quindi non è un caso che nel DL Concorrenza abbiano puntato all’accumulo delle concessioni. Il porto è demanio pubblico però con la l.84/1994 ti possono dare in concessione una banchina per un traffico specifico, l’accumulo di concessioni avrebbe consentito a un’armatore di prendersi tutto il porto. a questo dovremmo aggiungere anche che questi puntano all’autoproduzione, all’autogestione che non è quella che abbiamo conosciuto negli anni ’90 alla quale guardiamo con estrema simpatia ed amore: è l’autoproduzione che ti mette in conflitto le compagnie portuali, le cooperative di “scaricatori di porto” che poi fanno tanto altro, con i marittimi che sono sottopagati o ti abbassano la tariffa di chi storicamente scarica o movimenta merci nei porti oppure li sostituisce con un abbassamento del costo del lavoro che fa gola agli armatori e contemporaneamente devasta il contesto sociale delle città. Per non parlare pure dei marittimi. È ovvio che qui abbiamo di fronte poteri giganteschi, e non voglio essere retorico ma MSC conta come l’ENEL e il fatto che l’ENEL si stia cercando una fetta di mercato anche in quel contesto ci dà la misura di quanto capitale si stia concentrando in queste questioni.

I container, con la catena del caldo o del freddo, l’utilizzo del retroporto come polo industriale che trasforma quello che arriva e poi distribuisce, mette i grossi player nelle condizioni di immaginarsi come gestori di tutta la filiera: dalla produzione al trasporto, dallo stoccaggio alla trasformazione ed alla ridistribuzione. Qui si gioca molto sia dal punto di vista dell’attivismo per il clima che dal punto di vista dell’attivismo per la giustizia sociale. In questo senso Civitavecchia è stata un laboratorio interessante perchè costruiamo da anni iniziative sul campo con il sindacalismo di base e contemporaneamente,  grazie alle dimensioni  della città che è molto piccola, con chi nelle banchine carbonifere ci lavora, chi lavora nelle stive delle carboniere o sulle banchine che movimentano macchine o container; ci parliamo, costruiamo narrazione, immaginiamo una Civitavecchia diversa, chiediamo alle insensibili e talvolta complici con le multinazionali istituzioni di stare al passo coi tempi. Non abbiamo mai avuto il piacere o dispiacere di interagire col sedicente ministro della transizione ecologica che fu, ossia Cingolani, perchè evidentemente era più interessato a parlare con Confindustria ed ENI, però abbiamo alzato l’asticella da questo punto di vista: noi abbiamo una visione a 360°. Il collettivo “No al fossile” e Fridays For Future Civitavecchia sono tutto tranne che NIMBY da questo punto di vista, con tutti i limiti che abbiamo che sono più limiti dettati dalle condizioni sociali che subiamo – nel senso che poi alla fine è difficile tenere dentro a un discorso di militanza persone che o vanno via da Civitavecchia o fanno i pendolari o hanno il contratto a chiamata.

Su questa vocazione non NIMBY di “No al fossile” e Fridays for Future Civitavecchia, come si sono costruite alleanze con Piombino e oltre Piombino?

Riccardo: ti faccio un quadro legato alla nomenclatura di tutte le cose discusse adesso: su Civitavecchia: stiamo parlando del collettivo “No al fossile” e Fridays for Future Civitavecchia, che nel corso di questi ultimi anni si sono legati al più variopinto mondo della campagna nazionale “per il clima fuori dal fossile”. “No al fossile” è il nodo locale che nasce nel 2019 che aderisce alla campagna nazionale “per il clima fuori dal fossile” perché noi siamo convinti che la filiera del fossile, che noi subiamo nell’ultimo passaggio stia tutta insieme: dall’estrazione – con le trivellazioni o quello che accade brutalmente nel delta del Niger, per arrivare oltre i confini nazionali – al trasporto degli idrocarburi, quindi TAP, Poseidon, allo stoccaggio, agli hub del gas, alcuni dei quali progettati in zone sismiche, fino all’ultimo passaggio che è quello della combustione che noi conosciamo bene.

La nostra era un’esigenza quasi naturale: metterci in rete con chi in altre situazioni usa le nostre stesse parole d’ordine e lo fa immaginando il proprio territorio finalmente emancipato dai combustibili fossili. E quindi Brindisi, Fusina, i comitati delle Marche e dell’Abruzzo, poi arriviamo a Piombino che è un po’ l’ultima situazione che abbiamo conosciuto.

Piombino ci dice tante cose. Una è altamente simbolica che mentre abbiamo perso tempo ad assecondare gli appetiti di ENEL, A2A, ENI, ecc… non migliorando la rete nazionale, non sviluppando le energie per gli accumuli, non creando isole energetiche territoriali ad emissioni zero. Siamo stati quasi costretti a tornare al carbone: il presente di quest’incapacità politica dei governi italiani ci ha regalato un presente legato al carbone, mentre il futuro è legato invece a queste navi che devono portare il GNL. Un presente nero di carbone, un futuro – e Piombino su questo è un primo passaggio molto simbolico – blu legato di nuovo al gas. Di nuovo un combustibile altamente climalterante, di nuovo investimenti o, nel caso italiano, autorizzazione rispetto a progetti assolutamente folli, nel caso di Piombino potenzialmente pericolosi anche a livello scenografico – se scoppia il rigassificatore di Piombino, Piombino viene cancellata dalle cartine geografiche. Quindi noi abbiamo quest’incapacità, o meglio complicità delle istituzioni, che ci ha regalato il pessimo presente e ci sta per regalare un pessimo futuro. Da qui l’esigenza di mettere ancora una volta Civitavecchia in connessione a un altro territorio che, dopo aver patito i mali delle acciaierie, ha pure l’incombere di queste navi, di questo rigassificatore galleggiante, offshore, che però non crea nemmeno occupazione: quindi di nuovo il tema occupazionale; quindi, di nuovo Civitavecchia riesce in maniera del tutto naturale a dialogare, a costruire percorsi di opposizione, di lotta e proposta con altri territori. In Italia ci sono territori che sono stati considerati per decenni, e lo sono ancora, da parte delle istituzioni come sacrificabili: che sia per la produzione dell’acciaio, che sia per la produzione energetica Taranto, Civitavecchia, Porto Marghera, Piombino, La Spezia, Brindisi sono territori considerati sacrificabili e rispetto ai quali neanche simbolicamente le istituzioni riescono a mettere in piedi iniziative per la bonifica e l’emancipazione –un termine che io forse uso troppo, però si tratta di quello – dalle fonti inquinanti.

Invece sul piano della giustizia sociale siete riusciti a trovare alleanze al di fuori del territorio cittadino?

Per esempio l’USB su Piombino e Civitavecchia ha fatto scioperi per la garanzia occupazionale e per produrre nuova occupazione a emissioni zero. questo ci ha consentito anche di metterci in relazione col mondo del lavoro. Dal punto di vista delle alleanze sociali, abbiamo costruito dei momenti fondamentali di confronto con chi in altri settori, come l’automotive, si è già mosso. Ad esempio, a Civitavecchia lo scorso anno abbiamo organizzato una assemblea nazionale sulla questione operaia legata alla transizione ecologica con GKN, interventi da Taranto, dal porto di Civitavecchia, ecc… Questo per dire che le due cose stanno insieme. Che poi la difficoltà di portare queste nostre analisi condivise non si traduca in un’interazione costruttiva e soprattutto strutturata con le istituzioni è un altro paio di maniche. Non c’è solo insensibilità, lì c’è semplicemente il fatto che i ministeri sono di fatto i passacarte dei grandi gruppi industriali e quindi difficilmente riesci a raggiungere un obiettivo anche in quella sede. purtroppo.

Ho un’ultima domanda sulla questione dei fondi del PNRR e transizione ecologica. le istituzioni a Civitavecchia quale atteggiamento hanno avuto rispetto all’uso di questi sul territorio? E invece quanto i vostri progetti per la città sarebbero attraenti per questi fondi?

Le istituzioni di prossimità – parlo della giunta comunale – oltre ai proclami e a tante chiacchiere ha fatto veramente poco. I fondi del PNRR sarebbero fondamentali proprio per dare respiro muscolatura, ossatura, concretezza e legittimità ai progetti che abbiamo messo in campo. Ad oggi però c’è molto poco e registro anche con rammarico che il dibattito sui fondi del PNRR a livello nazionale si sta un po’ spegnendo. Prima facevo riferimento al piano Marshall, senza iniziare a dare giudizi e fare analisi storiche, però quei fondi hanno consentito l’inizio dell’esperienza di produzione energetica a Civitavecchia; il PNRR – che poi è l’utilizzo del recovery fund italiano – è paragonabile al piano Marshall. Ci sono tre fasi storiche che possono essere paragonate tra di loro: new deal, piano Marshall e PNRR. Se tu perdi il treno del PNRR, lo hai perso per i prossimi 50 anni e il fatto che se ne stia parlando sempre meno mi fa pensare che il rischio che questi fondi si perdano in mille rivoli e rivoletti e che non si arrivi a una conclusione su nulla. Questo è più che un rischio e sta per diventare una certezza. Da questo punto di vista i comitati territoriali, ma anche le organizzazioni nazionali e in generale chi fa attivismo per il clima e per la giustizia sociale, dovrebbe ricominciare a pungolare e fare irruzione nel dibattito istituzionale affinché questi fondi vengano gestiti bene, per il bene collettivo pubblico e non, come sempre accade, per i privati e le multinazionali. Questo è uno dei compiti che dovrebbe avere l’appuntamento dell’11 marzo a Piombino, tornare a parlare di investimenti pubblici rispetto alle proposte che i territori dal basso mettono in piedi.

Su questo nell’ultimo periodo, vedo molto immobilismo.

Dalla campagna elettorale per le politiche non se ne parla molto, se non per le ZES – Zone Economiche Speciali –, combustibili fossili che non sono petrolio in senso stretto, e di grandi opere non s’è fatta parola. Le uniche questioni messe sul piatto in modo più pubblico stanno nei fondi per la digitalizzazione della PA, che significa esternalizzazione dei servizi pubblici.

Aggiungo che c’è qualcuno che si vanta del fatto che i bio-digestori possono intercettare i soldi del PNRR. Non va bene. Perchè se tu finanzi progetti di quel tipo con i soldi del PNRR, intanto stai bluffando, stai sottraendo soldi che potrebbero essere stanziati per ottimizzare questa rete nazionale energetica che fa acqua da tutte le parti; con quei soldi si potrebbero finanziare isole energetiche, comunità energetiche, idrogeno verde, tutta una serie di situazioni… Tra l’altro con il bio-digestore non si chiude nemmeno bene il ciclo dei rifiuti e si produce pochissima occupazione. Si occupa solo suolo, quindi fa acqua da tutte le parti questa cosa qua.

Immagine di copertina da wikipedia di Luca Aless