ITALIA

Cinque Referendum per strappare un pezzo di democrazia
Oggi è la festa delle lavoratrici e lavoratori: è arrivato il momento di investire sulla campagna referendaria per la cittadinanza e per migliorare le condizioni di lavoro in questo paese
Oggi è la festa delle lavoratrici e dei lavoratori. Alcuni, anche a sinistra, la vorrebbero chiamare festa del lavoro, e questo ci dice molto di come il processo di neoliberalizzazione abbia cambiato il modo di pensare, di organizzare e di regolamentare il mondo lavorativo. Oggi è una festa che molti ritengono desueta e che gli stessi sindacati confederali hanno, almeno in parte, contribuito a svuotare di senso, facendola diventare il giorno di un grande concerto. Ma il periodo storico che viviamo, quello in cui un nuovo blocco reazionario si affaccia al governo del mondo, richiede di riappropriarci in maniera radicale di vecchie e nuove sfide del movimento operaio, precario, femminista, transfemminista e ambientalista.
In tal senso, oggi è sicuramente uno dei giorni più indicati per iniziare a parlare dei cinque referendum dell’8 e 9 giugno. Il referendum è uno dei pochi strumenti effettivi di democrazia diretta del nostro ordinamento. Infatti, nella storia della Repubblica è stato un grande mezzo di riappropriazione dal basso di diritti e libertà attaccati dalle forze (neo)liberali e cattoliche reazionarie: come il referendum che ha confermato il divorzio (1974), l’aborto (1981) ma anche il referendum che ha negato la possibilità di far ricorso all’energia nucleare (1987 e 2011) e quello per la pubblicizzazione dell’acqua pubblica (2011). Ci sono stati, poi, referendum il cui esito ha segnato la storia del nostro Paese anche in maniera controversa, come i referendum per l’abrogazione del sistema proporzionale (1991 e 1993) e sul finanziamento pubblico ai partiti (1978 e 1993). Questi referendum condividono anche la necessaria vigilanza successiva al voto affinché non fosse completamente disatteso dal governo di turno.
Il primo week-end di giugno si andrà a votare per cinque quesiti, quattro sono questioni che riguardano il mondo del lavoro e uno l’acquisizione della cittadinanza italiana. I primi quattro quesiti sono stati proposti dalla CGIL (la Cisl è contraria e la Uil è solo parzialmente favorevole e non farà campagna referendaria), l’ultimo da un comitato composito tra cui l’associazione “Italiani senza cittadinanza”. Su questi referendum c’è ancora un silenzio stampa assordante da parte dei media mainstream e dei partiti di sinistra, ancora incerti sui quesiti, ma è ancora poco anche il coinvolgimento da parte dei sindacati di base, delle associazioni, dei collettivi studenteschi, dei centri sociali, dei movimenti precari, femministi, transfemministi e ambientalisti. È invece necessaria una campagna referendaria ampia, multiforme e diffusa, perché potrebbe essere un mezzo per la riappropriazione di diritti negati. Analizziamo i singoli quesiti.
Primo quesito: stop ai licenziamenti illegittimi
Il primo quesito si riferisce alle norme che riguardano i licenziamenti illegittimi nelle aziende con più di quindici dipendenti, così come prevista dal Jobs Act, nel cosiddetto contratto a “tutele crescenti”. Oggi chi è licenziato in maniera illegittima da una media e grande azienda in caso di impugnazione di fronte al giudice non può chiedere il reintegro nel posto di lavoro ma solo un’indennità risarcitoria, sulla cui quantificazione si è espressa più volte la Corte Costituzionale, allargando le maglie molto strette previste dal Jobs Act, ma che rimane molto restrittiva e differenziata soprattutto per ciò che riguarda i licenziamenti collettivi per motivazioni economiche.
Questo primo quesito, quindi, ripropone nel dibattito pubblico la questione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato prima dalla legge Fornero del 2012 e poi dal Jobs Act del 2015. Votando Sì si vota per l’abrogazione del decreto legislativo n. 23 del 2015 (parte della riforma del Jobs Act), e così a tutte le lavoratrici e i lavoratori dipendenti di imprese con più di quindici dipendenti, indifferentemente dalla data della loro assunzione, si applicherà l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori così come modificato dalla Legge Fornero, prevedendo la possibilità del reintegro in caso di licenziamento illegittimo.
Secondo quesito: più diritti per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese
Il secondo quesito ha l’obiettivo di aumentare le tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle imprese con meno di sedici dipendenti. Oggi in caso di licenziamento illegittimo queste persone possono chiedere al datore o datrice di lavoro un’indennità risarcitoria non maggiore di sei volte l’ultimo salario percepito, o di dieci volte se si è lavorato per più di dieci anni, o venti per anzianità di venti anni. Oggi la struttura delle piccole aziende italiane si è trasformata, rispetto alla fine degli anni ‘60, le aziende con meno di sedici dipendenti sono tante, e non sono più solo familiari, fanno largo uso di professionisti esternalizzati, con contratti atipici, e riescono ad avere profitti importanti. Anche la Corte Costituzionale si era espressa sulla questione dell’adeguatezza e congruenza dell’indennità, ma nessuna riforma normativa è stata proposta in seguito alla sentenza 183/2022 e così si è proceduto verso la strada referendaria.
Votando Sì al quesito si richiede di abrogare l’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, lasciando la libertà al giudice di decidere quanto sia l’ammontare congruo dell’indennità per un licenziamento illegittimo in una piccola impresa.
Terzo quesito: riduzione del lavoro precario
La storia della liberalizzazione dei contratti a tempo determinato è lunga e parte dalla metà degli anni ’80: la svolta avviene nel 2001 quando si consente l’utilizzo dei contratti a termine, se motivati da una ragione oggettiva. La legge Fornero del 2012 elimina anche la necessità di indicare una ragione per l’utilizzo del contratto a termine; nel 2014 si porrà il limite della reiterazione del contratto a termine fino a un massimo di 36 mesi, fino ad arrivare al Jobs Act, e successive modifiche del 2018.
Oggi il contratto a tempo determinato può avere una durata massima di 12 mesi (solo in alcuni casi e settori specifici può essere prorogato) e si prevedono delle condizioni molto ampie per il suo utilizzo. Sono circa 2 milioni e 300mila le persone che hanno contratti di lavoro a tempo determinato e non sempre questi si trasformano in contratti a tempo indeterminato, anzi. Il contratto a termine rende chi lavora più ricattabile e lo inserisce nella cosiddetta “economia della promessa”, dove si è sempre pronti a fare qualcosa in più nella speranza di un rinnovo o di un trasformazione a tempo indeterminato.
Questo quesito chiede di modificare parti dell’art. 19 e 21 del Decreto legislativo 81 del 2015, e parte dei vari decreti che compongono la riforma del Jobs Act, ripristinando l’obbligo di causali per il ricorso a contratti a tempo determinato.
Quarto quesito: aumentare la sicurezza sul lavoro negli appalti
In questa settimana è morto un operaio a Soresina di 35 anni, è morto un operaio di 59 anni sulle Alpi Apuane nelle cave del marmo, gravissimo un operaio di 44 anni nel frusinate, grave a Nemi un contadino di 64 dopo essere rimasto schiacciato da un trattore… e potremmo continuare. Le morti sul lavoro sono strazianti, spesso è difficile anche recuperare i corpi delle persone rimaste incastrate o schiacciate dalle macchine durante il loro turno di lavoro. E nelle ditte in alto e subappalto è difficile anche riuscire ad avere un pieno risarcimento del danno.
Questo quarto quesito vuole ristabilire la responsabilità nei confronti del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore, risalendo nella catena dell’appalto per la richiesta del danno. Infatti, con la normativa attuale queste società sono esonerate dal rispondere in via diretta, ma anche in solido, quando il danno è stato subito per un “rischio specifico” dell’ attività appaltata, poi subappaltata, risubappaltata…
Votando Sí si abroga parte dell’ art. 26 del decreto legislativo n.81/2008: l’obiettivo è garantire l’integrale risarcimento del danno delle vittime e non esonerare le imprese dalle proprie responsabilità.
Quinto quesito: diminuire i tempi per la richiesta di cittadinanza
Tra le leggi più inique del nostro paese rimane quella sulla cittadinanza. Al giorno d’oggi, per ottenere la cittadinanza, bisogna aspettare 10 anni di residenza e dimostrare di avere un reddito adeguato, anche per chi è nato qui e ha frequentato tutte le scuole nel nostro paese. Dopo anni di proposte e controproposte, cadute sempre nel vuoto, mentre la legislazione per richiedere i permessi di soggiorno è diventata più rigida e le Questure aumentano le misure vessatorie e inumane nei confronti di chi richiede i documenti per risiedere e lavorare legalmente nel nostro paese, si è deciso di passare alla via referendaria.
Votando Sí si richiede di modificare l’articolo 9 della legge 91/1992 e di diminuire gli anni di residenza per richiedere la cittadinanza da dieci a cinque, lasciando tutto il resto invariato. Un gesto minimo per due milioni e mezzo di cittadine e cittadini stranieri che qui crescono e vivono, ma che non possono godere degli stessi diritti dei propri pari.
I referendum dell’8 e 9 giugno arrivano in un periodo molto particolare e preoccupante per il nostro paese. L’Italia arretra in tutti gli indici che fotografano il funzionamento della democrazia: diminuisce la libertà di espressione; i processi nei tribunali sono sempre più lunghi; gli abusi di potere da parte delle forze dell’ordine non sono perseguiti; la divisione dei poteri è messa in questione dall’allargamento della decretazione d’urgenza e dell’utilizzo della questione di fiducia; i diritti delle persone migranti e delle minoranze sono sempre meno garantiti; la comunità LGBTQIA+ è sotto attacco; arretriamo nell’indice sulla parità di genere; la condizione carceraria è peggiorata, la diseguaglianza sociale è in aumento, così come la povertà relativa e assoluta … in estrema sintesi, il nostro paese sta scivolando verso una democrazia illiberale. In tale situazione, i referendum possono essere un mezzo per strappare pezzi di democrazia. Evidentemente non si risolvono tutte le questioni poste con cinque referendum, ma questi possono rappresentare un inizio, un buon inizio. Un primo passo per costruire un’ opposizione a questo blocco reazionario che abbiamo davanti e che sembra lasciarci senza respiro.
Di fronte al silenzio mediatico, assordante, nei confronti di questi referendum, siamo chiamate e chiamati non solo a votare, ma a fare campagna attiva, per strappare un piccolo pezzo di democrazia.
Per maggiori info:
Se sei fuori sede, hai tempo fino al 4 maggio per iscriverti per votare nel comune nel quale risiedi.
Immagini di copertina da WikiCommon
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