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Balla con Stalin. «Orsi danzanti» di Witold Szablowski

Orsi danzanti del polacco Witold Szablowski racconta della congiuntura tra orsi e comunismo. Cosa succede quando i primi non ballano più e il comunismo finisce?

C’è una barzelletta sovietica che fa più o meno così. Due signori che non si vedono da tanto tempo un bel giorno si incontrano per strada, si salutano e parlano un po’ del più e del meno. Al momento di congedarsi, uno fa: «Posso chiederti una cosa? Perché vai in giro mano nella mano con un orso». L’altro risponde: «Giuro che quando l’ho sposata non era così».

Il fatto è che, almeno fino all’inizio degli anni ’90, dai Balcani in avanti, trovare in giro persone a passeggio con un orso non era uno spettacolo così infrequente.

E la Russia, come paese, viene spesso associata agli orsi. Un’immagine che si ritrova in decine di vecchie vignette anticomuniste e pure in qualche cartolina di propaganda. Tutto nascerebbe da un episodio leggendario (e incerto) della prima guerra mondiale: durante una ritirata sul fronte orientale, capitò che un reggimento russo perse tutti i cavalli. I tedeschi pensavano di poterne approfittare e li attaccarono, ma furono sorpresi quando trovarono la cavalleria dello zar che si era riorganizzata e aveva montato le sue selle su degli orsi.

All’inevitabile vittoria russa seguirono grandi festeggiamenti con tanto di spettacolo circense a base di orsi che suonavano la balalaica e bevevano vodka. I tedeschi superstiti, una volta liberati, non vollero mai più tornare in Russia per tutto il resto della loro vita.

I migliori orsi del mondo, però, sono sempre stati in Bulgaria. Li addestravano gli zingari: gli cavavano tutti i denti, gli strappavano le unghie, li nutrivano a caramelle e alcolici, gli insegnavano a ballare a suon di bastonate. Quando però crollò il comunismo, insieme a tutto il resto, arrivarono anche le associazioni animaliste che bollarono l’addestramento degli orsi come pratica inaccettabile e cominciarono così a sequestrare le bestie per cercare di educarle alla libertà.

Operazione difficile: spesso e volentieri, infatti, gli orsi non volevano saperne di fare la vita che, almeno secondo i loro liberatori, avrebbero dovuto fare e, nei momenti difficili, quando cioè si tentava di portarli nei boschi, piangendo, ricominciavano a ballare, per la disperazione dei volontari animalisti e delle loro bellissime intenzioni.

In Orsi danzanti (Keller Editore, 2022, 282 pp, 18 euro, traduzione di Leonardo Masi), il polacco Witold Szablowski utilizza questa immagine come metafora della vita negli ex paesi rossi dopo la fine del comunismo. Apologia del si stava meglio quando si stava peggio? Non proprio, più un manuale delle istruzioni per capire che la libertà e la democrazia non sono abiti facili da indossare. E tra l’altro non è manco detto che piacciano a tutti quanti.

Certo, il comunismo era terribile: si era compagni nell’estrema miseria e l’immaginazione non può far altro che colorare tutto quel mondo di un grigio che sa di tristezza e immobilismo. E però dopo la fine dei regimi, il freddo è continuato a essere tale, così come la fame. Ed è arrivata pure la disoccupazione, che prima non si sapeva nemmeno cosa fosse.

Con lo sguardo del reporter e la penna illuminata dalla grazia, Szablowski ha girato mezzo mondo in autostop, a piedi, su improbabili autobus e su treni scassati per trovare persone che, più con rancore che con nostalgia, non rimpiangono tanto il comunismo quanto la vita sotto il comunismo. Non è solo una questione di ideali, è proprio un fatto di quotidianità, di aspettative, di vita che scorre e che, in qualche modo, trova compimento nella storia.

A Gori, in Georgia, al museo dedicato a Stalin, un gruppo di donne fa la guardia e descrive il dittatore non solo come uno statista, ma anche come una bravissima persona: modesto ma elegante, capace di prendersi cura di una donna e, non scontato, con un buon odore. Tutta un’altra cosa rispetto agli altri georgiani, e allora «Tania, perché diavolo devi stare con gli ubriaconi? Perché, se puoi vivere con Stalin?».

A Belgrado Szablowski va alla ricerca dell’abitazione di Radovan Karadzic, ex boia di guerra e poi medico naturista. I vicini di casa gli dicono tutti che è una persona speciale, un uomo meraviglioso e di ottima compagnia, sempre disponbile, oltre che un patriota e un curatore dotato di mani taumaturgiche.

Da una parte ci sono i crimini innegabili di certa gente, dall’altra però c’è la piena consapevolezza che il resto dell’umanità – quella che vive e pensa altrove – non può capire e, soprattutto, che nessuno può andare a dire a centinaia di milioni di persone che decenni della loro storia sono stati solo spazzatura, roba che va buttata e dimenticata per fare spazio al nuovo, patinato, scintillante mondo libero.

Il viaggio di Szablowski non riguarda solo le terre degli orsi danzanti, ma anche il resto del mondo: il socialismo reale sarà pure scomparso, ma i socialisti reali hanno soltanto subìto una diaspora. E allora a Cuba nel 2006, quando Fidel Castro stava male e la sua dipartita era attesa da un momento all’altro, il clima è sospeso tra paura e speranza. Paura che Fidel muoia e speranza che ce la faccia. «Non dicono che è morto perché temono il dolore della gente», dice l’immancabile tassista. Una donna per strada è dello stesso avviso: «È vissuto molto, ma spero possa vivere ancora altrettanto. Grazie a lui siamo l’ultimo paese che non si fa manipolare dagli Usa».

Szablowski osserva e annota, senza empatia e senza simpatia, con la mera curiosità dello scienziato che registra i risultati inaspettati del suo esperimento. E la metafora degli orsi torna spesso: cos’è la democrazia quando la pancia è vuota? Cos’è la libertà quando si è cresciuti a bastonate? Cosa vuol dire la fine del comunismo e l’inizio di una fase strana in cui ogni cosa ha un valore diverso, ovvero un prezzo, e le signore sono costrette a vendere i ninnoli per strada per mettere insieme i soldi per il pranzo?

La risposta non c’è, resta lo spettro di qualcosa che poteva essere e non è mai stato. E l’ombra di qualcosa che vorrebbe essere e non sarà mai.

Immagine di copertina da Wikimedia commons