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MONDO

Argentina, l’Encuentro si comprende e si sente a partire dal corpo-territorio

Il 36° Incontro Plurinazionale di Donne, Lesbiche, Travestis, Trans, Bisessuali, Intersessuali e Non Binariə si è tenuto a Bariloche, nel territorio ancestrale di Furilofche. La resilienza delle nostre lotte è tornata nuovamente a riunire e moltiplicare le discussioni e le contraddizioni, gli slogan e gli obiettivi, i piaceri e i desideri

Quando Bariloche è stata scelta come sede del 36° Encuentro Plurinazionale di Donne, Lesbiche, Travestis, Trans, Bisessuali, Intersessuali e Non Binariə, venivamo da un incontro conclusosi con una spaccatura. Dopo l’impatto che l’aver attraversato una pandemia ha avuto e continua ad avere, non è strano ritrovarci logorate nelle nostre differenze. Nonostante la divisione del 35° Incontro di San Luis [tenutosi ad ottobre 2022 nei territori huarpe, comechingon e ranquel della provincia di San Luis, nell’Argentina centrale – ndt], la resilienza delle nostre lotte è tornata nuovamente a riunire e moltiplicare le discussioni e le contraddizioni, gli slogan e gli obiettivi, i piaceri e i desideri.

Il territorio ancestrale di Furilofche è stata una scelta significativa dopo che il 4 ottobre dell’anno scorso, nei giorni precedenti l’Incontro, sette donne mapuche vennero arrestate nella violenta repressione durante lo sgombero della comunità Lafken Winkul Mapu da Villa Mascardi [comunità per il recupero delle terre ancestrali a 35km a sud di Bariloche – ndt] eseguito dal Comando Unificato delle Forze di Sicurezza Federali. L’allora Ministra delle Donne, dei Generi e della Diversità, Elizabeth Gómez Alcorta, si dimise dal suo incarico e, sebbene le donne detenute abbiano ottenuto oggi la libertà condizionale, le promesse del governo riguardo alla costruzione di alloggi e al rispetto del Rewe [territorio sacro mapuche – ndt] come spazio cerimoniale sacro della comunità non sono state mantenute. Addirittura, Jessica Bonnefoi Carriqueo Antimil, una delle donne arrestate in quell’occasione, si trova ancora agli arresti domiciliari senza il diritto di poter stare con ə propriə figliə.

Stiamo calpestando questa terra con molto sangue

È la terza volta che l’Encuentro si tiene a San Carlos de Bariloche, che ha ospitato anche il 14° Encuentro nel 1999 e del 26° Encuentro nel 2011. L’ultima volta che questa città è stata sede dell’Encuentro, è stato dopo l’omicidio di quattro persone e la repressione nella zona di Libertador General San Martín, altra comunità mapuche in territorio patagonico.

I 112 laboratori sono stati raggruppati lungo 16 assi e anche noi, come molte altre, per incontrarci superiamo le distanze imposte dai nostri spostamenti e dalle nostre vite. Veniamo da La Plata, da Rosario e da Bologna, in Italia, veniamo dalla sopravvivenza alla violenza,  dall’accompagnamento all’interruzione volontaria di gravidanza, dall’interrogarci sulla cura che ci libera e ci lega, veniamo dal cambiare città e migrare attraversando le grandi distese d’acqua. Veniamo dal conoscerci e dal non riconoscerci nei femminismi, veniamo come amiche e come compagne.

Quanto mi è mancato l’abbraccio con il corpo, l’abbraccio che non lesina nel piegare la schiena, nel toccare la pelle tenuta al caldo, nell’appoggiarsi all’altra per scaricare il peso e il sorriso, un modo di presentarsi che è incontro.

Il laboratorio numero 15 “Territori plurinazionali e libera autodeterminazione dei popoli” non ha una coordinatrice designata. Non è qualcosa di strano che, con il passare degli anni, la crescita del movimento femminista e delle donne e l’allargamento delle condizioni che prima limitavano la partecipazione delle travestite, delle femminilità e mascolinità trans e delle identità non binarie, gli appelli dei comitati organizzatori per ricoprire i compiti di coordinamento all’interno dei laboratori non trovino risposta.

Il fatto che non ci sia chi coordina non impedisce che la voce circoli, che venga deciso un tempo per ogni intervento e che diverse compagne prendano appunti per i report e per la successiva elaborazione delle conclusioni. Ma il fatto che nel 2022 a San Luis, dopo due anni di pandemia e alcuni tentativi di incontro virtuale, l’incontro sia finito in una divisione, fa emergere nuove domande. Gli strali del colonialismo e del razzismo continuano ad apparire mentre continuiamo a scalfire la superficie della terra e della pelle.

Il paesaggio della Patagonia è ancora invernale. La primavera ha appena cominciato a germogliare e gli alberi caduti fanno parte della foresta. Le foglie cadute ora sono humus, concime, un materasso marrone sopra la terra. I rami spogli si protendono verso il cielo, formando una rete di escrescenze che si intersecano senza bloccare la luce solare.

Anche le nostre mani si alzano. I cellulari restano nelle tasche o negli zaini. Il freddo del mattino ci pizzica la punta delle dita, la punta del naso, le lacrime sono un po’ per il vento e un po’ per l’emozione. In silenzio, insieme, raccogliendo le erbe lungo le sponde del lago, con la testa coperta da pañuelos colorati, facendo uscire le nostre voci dal sogno, dalla notte, se non dalla vita e dalla sue durezze, seguendo il suono del tamburo, intrecciando le nostre mani tiepide e ghiacciate, in cerchio o strette l’un l’altra; infinitamente diverse veniamo a incontrarci.

Cos’è un territorio plurinazionale? Cosa non nominiamo quando rispettiamo i confini? Quante lingue e quanti segni sono necessari per tradurre la nostra unità? Come convive il tentativo di dare forma al buon vivere che sogniamo, con uno Stato nazionale che è all’origine dell’ecocidio e del genocidio dei popoli nativi delle nostre terre?

I confini nazionali non dovrebbero essere i nostri confini

«Dico che sono Mapurbe, mapuche dell’Urbe», dice la donna seduta nel cerchio che è andato allargandosi da quando abbiamo lasciato l’aula nel patio della scuola elementare n. 266 per, invece che svolgere il laboratorio numero 15, fare spazio alla richiesta delle donne indigene: «Vogliamo un solo butá. Butá significa grande raduno. Non possiamo suddividere il problema che abbiamo, dobbiamo discutere tutto attraverso il territorio. Non possiamo discutere di territorio e non discutere di spiritualità: non sono separate».

Al centro del cerchio, un’altra donna con la sua tiara d’argento espone la bandiera mapuche, la wiphala [la bandiera multicolore dei popoli andini – ndt] e la bandiera argentina una accanto all’altra, fissandole con delle pietre affinché il vento della Patagonia non le porti via.

La proposta genera reazioni: vogliamo abbandonare il metodo dei laboratori? È un affronto al comitato organizzatore?

Eppure, la parola circola senza grandi conflitti e compaiono le prime traduzioni.

La responsabile dell’ordine degli interventi segna il proprio nome e quando interviene dice: «Quando sporgiamo denunce alla magistratura, tutto è compartimentato, frammentano il conflitto: la stessa persona deve ripetere quello che sta denunciando in 20 uffici diversi».

Quanto abilista e bianco è questo modo di frammentare questioni e problemi?

Di quali condizioni abbiamo bisogno per ascoltarci a vicenda?

Una donna minuta e bruna entra nel cerchio: «Parlo piano, ecco perché vado al centro». Ci fa pensare che, invece di urlarci contro «Non si sente», come accade spesso nelle assemblee, forse c’è qualcosa di diverso che possiamo fare con i nostri corpi per farci ascoltare meglio. Una volta al centro si presenta: è la zia di Máximo Gerez, il ragazzo di 11 anni del quartiere Los Pumitas della comunità Qom di Rosario [nella provincia di Santa Fe, 300km a nord di Buenos Aires – ndt], assassinato durante una sparatoria. Non si sa da dove venga tanta forza mentre la sua vocina scandisce le parole. «Ci stanno uccidendo i figli. Abbiamo fatto chiudere 7 bunker [rifugi sotterranei del narcotraffico adibiti anche alla produzione di stupefacenti – ndt]. Non ho, come si suol dire, una vita normale. Vado, mi muovo, sono un’altra sorella».

Cos’è l’unità se proviamo a smettere di pensarla dalla prospettiva bianca, occidentale, europea? Può l’unità portarci ad abbracciare la complessità delle nostre differenze invece di annullare tutto ciò che non è all’altezza degli ideali etici e politici egemoni?

Se non esiste unità senza differenze, cos’è che unisce? Quali forme assume questa unità? Verso quali mondi ci conduce un «cammino di unità»? In che lingua è scritta questa nostra unità?

Invochiamo la memoria, la storia, il ventre e il sangue (Berta, figlia di Berta Cáceres)

¿Y nosotrxs con qué nos defendemos?

Los rezos traen la palabra dulce.

Con la palabra dulce.

Somos tejedoras,

Somos el sueño y la soñadora.

Cambia mi pensamiento a puro amor.

(Palabras en la Asamblea de feministas del Abya Yala)

E con cosa ci difendiamo? Con la dolce parola / Le preghiere portano la dolce parola / Siamo tessitrici, noi siamo il sogno e la sognatrice / Cambia il mio pensiero in puro amore. (Parole dall’Assemblea delle Femministe dell’Abya Yala)

Alla cerimonia di apertura dell’Assemblea Femminista di Abya Yala, con una forte presenza delle compagne della comunità mapuche-tehuelche, le donne machi ci hanno insegnato con le loro parole e i loro movimenti che la spiritualità è politica. È la connessione con gli elementi: «La terra ci guida e ci dice cosa fare, per questo difendiamo il Rewe, lo spazio cerimoniale sacro, perché è lì che risiede la terra saggia».

«La spiritualità è l’autonomia dei popoli» dice una di loro mentre il sole ci brucia il viso. Sento il bisogno di spostarmi in un’altra porzione di terra (parola che in questo Incontro diventa “catena montuosa” e “lago”). Non vedo la compagna che condivide il rituale perché ci sono tante donne, lesbiche, travestis, bisessuali, intersessuali e non binariə di fronte a me, a fianco, dietro di me: ma nonostante tutto la sento lo stesso. Capisco cosa dicono le sue parole e il suo corpo, così come capisco quanto le siano mancati questi abbracci che si trasformano in un cerchio che poga con la musica di Violeta Parra o che si agita al suono di una cumbia femminista al FestiTorta [Festival lesbico nell’ambito dell’Encuentro; in Argentina di definiscono Totas le lesbiche].

Ripeto mentalmente la frase che sento, «Diffondere con rispetto la conoscenza e le lotte dei popoli originari», e scopro la forza di quella richiesta a cuore aperto. Purtroppo non posso cambiare posto perché la piazza è strapiena, di terra e di noi/altre, come direbbe Gloria Anzaldúa [Scrittrice, femminista, queer e teorica culturale chicana – ndt]. Di quella diversità che sono le altre ma che siamo anche noi.

Questo spazio è sacro

Tutto intorno a me è energia che si espande, come quell’interrogativo sul valore dell’autonomia che mi pongo da quando vivo in Italia, in un movimento che spesso sento solo come un richiamo retorico senza terra. Perché quell’autonomia di cui parla la donna machi la trovo soltanto al mio ritorno: è un’autonomia permeata di strappi, di resistenze, di violenze, non è una parola che si riempie solo di cortei, assemblee e comunicati, ma è anche dolore, misticismo, lacrime ed aprirsi per condividere quello che non viene detto a voce alta, ma che per questo non deve essere una parola-spazio oscura.

L’autonomia in questo territorio ha corpo e peso, è colorata come la wiphala ed è infiammabile e si agita come le fiamme sulle quali bruciamo i nomi dei femminicidi, dei genocidi e degli ecocidi contro i quali difendiamo i nostri diritti e le nostre vite.

L’unità di questo incontro è quel miscuglio di lingue, organizzazioni, età, laboratori, eventi culturali e presentazioni di libri che si svolgono in contemporanea, di incontri che avvengono all’interno dell’Incontro stesso dove in tanti cantano, recitano, prendono la parola per la prima volta, indossano i propri abiti da lavoro come bandiere, le loro mansioni come elogi, le loro storie come esperienza e insegnamento, e con il desiderio che la violenza non trovi posto nei corpi degli altri così come loro hanno patito sui propri.

Unità sono le crepe che si sono aperte durante i tre giorni di incontro, mentre ci abbracciamo quando le parole non sono più sufficienti. L’unità è anche che ci sia uno spazio e ci sia ascolto, come nella lettura delle conclusioni dei laboratori quando le compagne discas [diversamente abili – ndt] dicono che tenere questo laboratorio in un ospedale fa parte della patologizzazione quotidiana che subiscono e mettono in discussione l’accessibilità dei laboratori e dei dibattiti; sono adolescenti che dicono di non volere la responsabilità di un futuro mentre gli adulti del presente stanno mandando tutto all’aria, né di voler fare da madri a fratelli, fidanzati e genitori; sono le donne machi che esigono maggior visibilità per la loro richiesta di solidarietà e di sostegno per portare avanti la carovana al Rewe e che questa avvenga con il supporto dell’Incontro, è la compagna pansessuale che dice «Come sempre, quando ascoltiamo orizzontalmente, ci ritroviamo con più domande che risposte».

DOV’È TEHUEL [Tehuel de la Torre è una persona trans desaparecida nel 2021]

È paradossale perché sembrerebbe che queste scene descrivano il contrario dell’unità. Tuttavia, le divergenze di opinioni ci permettono di pensare ad un’unità reale e sostenibile, senza discorsi totalizzanti cristallizzati in paradigmi inverosimili, violenti e snaturanti come quelli che vediamo spesso nei dibattiti elettorali.

Negli angoli più difficili del pianeta, le donne cantano.

Sólo vengo a decir que cantan

y que el mundo no se arrepiente

de sus gargantas infernales,

de sus corazones prohibidos.

(María Elena Walsh, “Las que cantan”, hecha vidalita por “Cantautoras en vuelo”, de SMA)

Vengo solo a dire che cantano e che il mondo non si pente delle proprie gole infernali, dei propri cuori proibiti. (María Elena Walsh, “Las que cantan”, realizzato vidalita da “Cantautoras en vuelo”, di SMA)

Le cime innevate si stagliano all’orizzonte tra il blu intenso del cielo e il blu-verde-turchese del Nahuel Huapi. Questo lago è un mare immenso. Di notte, le sue onde ruggiscono e le sue profondità spaventano. Ricordo le volte in cui ho provato a spiegare questa immensità alle mie amiche italiane: i nostri laghi di montagna sono come mari e non ho mai visto le stelle come dal suolo della Patagonia.

E anche i nostri cortei sono come mari: un mare che parte dalle montagne, scende come acqua di disgelo fino al lago, tocca le nostre prime file, canta, vibra, salta, corre, si estende fino all’altra parte della città e risale lungo quelle altre montagne della cordigliera andina. Fino al cielo che ha placato il freddo primaverile con uno splendido sole.

Da qui, i rituali che abbiamo condiviso in questi tre giorni invocando i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco diventano materia. La spiritualità è materiale. «Si tratta di fare, non di parlare». La coscienza dello spirito è tangibile, si vede con gli occhi e con il cuore quando contempliamo questo lago-mare. Mare come la marea che ci abbraccia la domenica mentre cantiamo la nostra resistenza, che è il newen (energia) di queste terre ancestrali mapuche, che si sente con il viso quando il vento gelido lo squarcia ad ogni viaggio verso il Velodromo: evento di apertura, FestiTorta, corteo contro travesticidi e transomicidi, il grande corteo di domenica e l’evento di chiusura.

È ora che il potere di questa verità (tanto in alto quanto in basso) diventa fiducia. Newen, questa forza, in lingua quechua si dice kallpa (come è dentro così è fuori): questo spazio circolare mi si sta creando in petto, lo porto con me, come queste montagne e il vento violento della mia infanzia nella steppa della Patagonia.

Nella continuità della catena montuosa che costeggia i confini imposti dallo Stato argentino (mentiamo aə nostrə figliə a scuola, i confini non devono dividerci), il 37° incontro si dirige verso Jujuy [provincia nel nord dell’Argentina al confine con la Bolivia – ndt], per gridare contro le riforme e la repressione del governo Morales [Gerardo Morales, Governatore della Provincia di Jujuy dal 2015 e responsabile di durissime repressioni contro i movimenti popolari e indigeni – ndt], contro l’estrattivismo e le mega-estrazioni minerarie e per abbracciare la resistenza degli insegnanti e del popolo.

Il newen, il kallpa dell’Incontro, è un’energia che ti prende a pesci in faccia, nessuna ritorna uguale: internamente, viviamo una sorta di disincrostazione a livello fisico.

Articolo pubblicato su enREDando. Traduzione a cura di Michele Fazioli per Dinamopress

Foto: Pablo Candamil / Julieta Bugacoff di Cobertura colaborativa, che ringraziamo per la disponibilità.

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