EUROPA

AntiTesi d’Aprile

Riceviamo e pubblichiamo una lunga riflessione sulla fase, lo sciopero e le prospettive di conflitto del collettivo Berlin Migrant Strikers. A partire dal centenario delle Tesi di Aprile di Lenin.

Abbiamo voluto ricordare anche noi le Tesi di Aprile di Lenin, di cui cadeva il centenario qualche giorno fa; così abbiamo provato a mettere a sistema 10 spunti di riflessioni fatte in questi ultimi mesi. Una sorta di aggiornamento rispetto al testo “Strike against the machine” dello scorso autunno. Una versione beta, instabile, assolutamente precaria. Diciamo subito infatti che più che delle tesi abbiamo scritto delle antitesi, delle domande, dei dubbi. Tra le quali a volte si possono anche intravedere dei desideri, degli auspici o delle suggestioni ma in modo poco organico e disordinato. Lo sforzo di mettere nero su bianco questi “meta pensieri” è risultato essere, tuttavia, uno sforzo utile nel progredire della nostra riflessione collettiva. Volevamo lasciare una traccia e ci pareva un modo corretto per essere esigenti verso noi stessi nel sistematizzare idee ancora così grezze, confrontarci con una ricorrenza così importante. Eccole qui, per chiunque le volesse leggere, commentare, condividere, criticare:

 

1) Della guerra

Mentre il mondo corre dietro le prove maschili e muscolari dei nuovi sovrani, ci interroghiamo sulla possibilità che esistano le premesse per il darsi di un movimento globale contro la guerra. Abbiamo ancora nella testa le piazze gremite che rispondevano alla furia della guerra permanente di Bush un decennio fa. Perché oggi che la guerra appare onnipresente e il re è nudo (il re, emblema del comando maschile, non più avvolto dal manto ideologico dei diritti umani e nemmeno celato dalla dissolvenza rassicurante della “Comunità internazionale”), non si dà un movimento contro la guerra? Quel fiume di pacifisti, talmente ampio da costituire la “seconda forza politica mondiale” non è semplicemente entrato in una fase carsica.

La guerra appare oggi come un fatto ineluttabile ma allo stesso tempo distante dalla nostra realtà. La guerra appare sullo schermo di uno smartphone e assistiamo ai massacri sgomenti ma circondati da una realtà che ci appare pacificata, anestetizzata, normale. Ma, nella ridefinizione che il capitale in crisi si dà, al di là della percezione delle nostre decorose città, la guerra è anche una traccia che collega in un’unica narrazione attori differenti. Come non notare la convergenza programmatica (“la simmetria del nemico”) tra Daesh e Marine Le Pen? Come non leggere come convergenti nei fatti l’esaltazione della guerra come forza creatrice di confini, regni, protettorati che seguano la linea Maginot o i confini di un Califfato? E di quale nemico si nutrono gli aspiranti sovrani o califfi esaltatori della guerra? Per cinico paradosso si nutrono delle maree di corpi che fuggono dalla guerra stessa. Che fuggono dalla violenza che i sovrani impongono per agire il palcoscenico della politica internazionale. Non si può più leggere quindi la guerra avulsa dai processi di migrazione. Proprio questa lettura anzi che divide i piani riproduce guerra, sovranismi, distacco, anacronistici campismi. Il piano della guerra è un piano che ormai è esclusivamente in mano al Capitale, ai sovrani appunto. Dove per sovrani non intendiamo imperatori di diversi imperi ma potenti che gestiscono le relazioni tra sfere di influenza del medesimo Impero. Ciò che non è la guerra tra nazioni e sovrani rimane passivizzato, svolgendo un ruolo che può muoversi “solo” tra la carne da cannone, la massa in fuga e la passiva tifoseria.

Ma quale paradigma spiega la guerra contemporanea? Di sicuro notiamo che è crollata l’impalcatura retorica dell’ossimoro “guerra umanitaria”. Pensiamo alla Libia, o alla Turchia o anche allo Yemen, o pensiamo al conflitto in Siria aperto da 6 anni, dove all’ordine del giorno non compare neanche vagamente la retorica dei diritti umani e dove non c’è stata alcuna risposta internazionale, neppure sul piano giuridico, per tutelare i civili. Se qualcuno urla “aiutiamoli a casa loro” può farlo anche perché non riusciamo a immaginare quello che sappiamo tutti, e cioè che non esiste più “una casa loro”. La guerra odierna non si può però nemmeno più interpretare come tipica guerra di interessi “occidentali”, attraverso le categorie classiche di “guerra coloniale”, “guerra imperialista”, ecc. A ben guardare, attraverso un’analisi economica dei conflitti, le interpretazioni di questo tipo risultano quantomeno incomplete e insufficienti, tanto da conferire ai vecchi tormentoni di movimento in stile “l’America vuole il petrolio” un tono anacronistico ai limiti del patetico.

Quindi, come si può capire questa guerra permanente a 16 anni dopo l’11 settembre? Quello che ci rimane è un nuovo/vecchio paradigma che semplicemente non prevede un’opposizione etica di massa perché gli attori dei conflitti sfuggono allo schema noto degli schieramenti e perché la caratteristica del capitalismo è quella di nascondere i suoi disfunzionamenti etici dietro un’economica non-normata, come fosse una sfera separata da tutte le altre sfere sociali. Presi a domandarci da che parte stare, ci si dimentica infine la barbarie intrinseca. La guerra è oggi nient’altro che articolazione estrema della politica internazionale (maschile, misurata sulla forza, o sull’astuzia, o sulla propaganda). “La guerra è il prosieguo della politica con altri mezzi”? Siamo andati oltre Von Clausewitz. Possiamo dire che la guerra è la forma suprema della politica nelle due facce della medesima medaglia: globalista o neo sovranista. É in questa relazione politica che si misura la cifra della guerra contemporanea, ci pare. I flussi di migranti trattati alla stregua di capitale umano (ma disumanizzato) diventano piú importanti dello spettacolo macabro di bambini morti in televisione all’ora di cena come arma di una guerra mediatica. Quando la guerra si normalizza, come espressione politica tra le altre, diventa molto più difficile ritrovare un sentire di massa contro la guerra, e si viene catapultati nel gioco delle parti, delle parzialità, come del resto ogni tensione politica richiede. La coincidenza di guerra e politica è però soltanto una mistificazione interna al capitalismo e alla sua struttura ideologica patriarcale. Rifiutare la guerra come politica e la politica della guerra, oggi è il primo passo per compiere una rottura ideologica col capitale.

 

2) Della libertà

Partiamo da una suggestione. La cifra della società neoliberale sta nell’ottimizzazione algoritmica delle relazioni, nella memificazione dell’opinione, nell’assunzione della virtualità social come habitat primario dell’esistenza umana. Una pervasiva forma di disciplinamento invisibile che non si cura più di punire o correggere le scelte sbagliate ma moltiplica all’infinito la percezione delle scelte possibili, creando una perversa sovrapposizione tra disciplinamento e libertà, la libertà neoliberale. La libertà “ottimizzata”, la libertà di autosfruttarsi. La tensione all’autosfruttamento propria del regime neoliberale investe tutte le classi, in questo sta la difficoltà di individuare la soggettività sfruttata. Questo occultamento dei ruoli produttivi, in favore di un unicum soggettivo che si articola in forma piramidale, rende oggi difficile organizzare lo scontro di classe. Allo stesso tempo l’autosfruttamento non permette alcuna solidarietà tra sfruttati e fa rivolgere l’odio di classe innanzitutto contro se stessi, in quanto attori primari della messa a valore. In questo dispositivo si genera la disperazione, la depressione, il suicidio, il bourn out, tutti cortocircuiti interni al sistema in rapida ottimizzazione da sfruttamento algoritmico. Forse una strada da percorrere è iniziare a riappropriarsi di concetti non semplificabili. Il tema della libertà in questo senso deve essere risignificato. Se il “nuovo Dio” del Capitale non consente espiazione ma solo colpa e debito e lo fa brandendo il vessillo della “libertà”, una traccia da seguire è proprio la liberazione dalla colpa e dal debito. La società neoliberale rende impossibile una relazione tra individui che sia priva di interesse. Priva cioè dalle costrizioni della colpa e del debito. Nell’indogermanico Freiheit, libertà, ha la stessa radice di Freund, amico (e di Freude, gioia). La libertà per la lingua dei barbari è essenzialmente quindi un termine di relazione e non di affermazione del singolo. Forse l’affermazione della libertà, non prevista dal regime neoliberale, passa dal sentirsi liberi dentro relazioni soddisfacenti basate sulla cura, sul disinteresse, sul non debito e sulla non colpa. Riappropriarsi della molteplicità di queste relazioni significa produrre una rottura con la retorica della libertà di sfruttare sé stessi.

 

3) Della polizia

Non ha senso considerare la società neoliberale come superamento drastico della società disciplinare di foucoultiana memoria, il procedere verso uno stato di psicopolizia non è un processo compiuto. La brutalità da colonia interna messa in campo dalla polizia francese (causando indignazione diffusa e alleanze inedite tra i banliesard e la gauche), i DASPO e gli arresti preventivi trasferiti dagli stadi alle piazze del dissenso politico in Italia, o l’estensione metropolitana delle “zone rosse” dove la polizia esercita poteri straordinari impedendo di manifestare in Germania, ci parlano di un dispiegamento massiccio di metodi repressivi che rievoca gli Stati autoritari del novecento. Quello però a cui si assiste è un superamento del processo censorio da “reato d’opinione”: si può notare un’ottimizzazione dello sforzo repressivo che si concentra sulla normalizzazione del campo del visibile (e quindi dell’esistente) di forme di vita “negative”, resistenti o, che è lo stesso, inadeguate. La repressione addirittura diventa un fatto “amministrativo” e utilizza i dispositivi del debito e del welfare come tiranti, al fine di raddrizzare quello che da diverse diciture ufficiali viene esplicitamente definito come “comportamento antisociale”. Ecco come scivola il diritto nella vecchia Europa: il diritto penale diventa a tutti gli effetti “codice marziale” da stato d’emergenza permanente, la repressione politica diventa preventiva e amministrativa e, a completare il quadro, infine il diritto del lavoro diventa diritto commerciale. Ci pare degna di nota però una curiosa circostanza che ha colpito la nostra attenzione: nell’annuale dossier redatto dai servizi segreti italiani e presentato al Parlamento dove vengono censiti i movimenti sociali e si monitora con ossessiva accuratezza qualunque forma di dissenso, gli algoritmi delle Questure, gli zelanti redattori delle Digos del Belpaese, non hanno menzionato la mobilitazione femminista NON UNA DI MENO. Un movimento che con 200.000 persone in piazza nel Novembre 2016 e lo sciopero dal basso costruito per l’8 Marzo di quest’anno, preceduto da assemblee nazionali con centinaia di partecipanti, è stato capace di prendersi la scena pubblica italiana in termini anche quantitativi e non solo qualitativi. Non ci sono state in Italia manifestazioni più larghe e diffuse di quelle femministe negli ultimi 5 anni. Ma di tutto questo non c’era traccia nell’ipertrofico dossier dei Servizi Italiani. Da qui la domanda se proprio in questo bug percettivo, in quella presenza politica che sfugge ai paradigmi maschili della repressione in una società disciplinare e autoritaria, non vada ricercata una via che sfugga alla polizia europea semplicemente perché la repressione ottimizzata non riesce a vederla.

 

4) Del prossimo G20 ad Amburgo

In un simile quadro tumultuoso, in cui in ogni istante e in luoghi diversi si verificano momenti di dominio e momenti di resistenza e in cui il discorso politico che faceva da cornice alla molteplicità di lotte del ciclo no global sembra essersi sfilacciato, prendere consapevolezza dell’impossibilità di costruire una narrazione organica è un atto di lucidità realista. Tuttavia uno sforzo importante da produrre, secondo noi, è quello di leggere ogni occasione di relazione transnazionale come una tappa di “sincronizzazione” di riflessioni non riconducibili ad un unicum ma espressioni di una tumultuosa complessità. In questo, in continuità con l’analisi dello scorso autunno, teniamo a ribadire come, nelle giornate del vertice G20 di Hamburg, intravediamo una possibilità. Vogliamo però essere chiari, non ci convince la logica del controvertice in cui si fa la rappresentazione di venti “potenti” che decidono le sorti del Pianeta contro cui si oppone l’assedio di Frankenhausen. Riteniamo sia da evitare, oggi più che mai, ogni rappresentazione mediatica del conflitto (del resto se la violenza della guerra stessa risulta rappresentazione effimera e distante, cosa pensiamo possa produrre in termini evocativi un simbolico assedio che denuncia l’assenza di spazi di presunta democrazia o l’estetica del riot che ammicca alle telecamere?). Quello che ci pare meritevole di investimento politico è rappresentato dallo slogan “DON’T FIGHT THE PLAYERS, FIGHT THE GAME”; per questo più che ad assedi e zone rosse guardiamo con interesse al blocco del porto, cioè a quella suggestione che, dentro una dinamica da controvertice, inserisce il rifiuto stesso del conflitto simbolico con i 20 “potenti” mediante la pratica di un blocco economico reale. Un blocco che si mostra come esercizio di un contropotere concreto a disposizione di tutti i soggetti subalterni, come la pratica dello sciopero sociale, politico, di genere. E ci interessa anche perché l’intersezionalità delle lotte nell’articolazione delle giornate del G20 potrà produrre non una modalità che riedita Genova o Hellingdamm, e neanche Francoforte, ma un patchwork complesso di pratiche conflittuali di soggettività transnazionali in dialogo e ascolto tra loro. Una manifestazione della complessità che è in grado di scompaginare la tensione all’ottimizzazione propria della linea di comando del capitale, rappresentato dai 20 chiusi nella zona rossa. In questo, ma lo diciamo ovviamente più con l’ottimismo della volontà che altro, ci aspettiamo da Hamburg qualcosa di simile alla complicità costituente di Occupy Wall Street o di Gezi Park e, anche se dentro la cornice di un controvertice e in modo limitato nel tempo, sincronizzazione delle eccedenze, riconoscimento ed esercizio di relazione come basi per la ricomposizione dentro una tensione che va verso lo sciopero sociale diffuso.

 

5)Dei femminismi

Non è nostro compito storicizzare in modo razionale un movimento complesso, articolato, vero come quello delle donne che dal Rojava all’8 Marzo passando per l’Argentina, gli Usa, l’Italia, la Polonia è apparso in contemporanea in contesti talmente lontani da imporre una ricerca seria e rigorosa, colma forse di autocritica, dei “perché così, qui ed ora” a politologi, attivisti, sindacati e partiti anticapitalisti. Ci limitiamo a invitare ognuno, a cominciare da noi, a non imporre un rigido schema di lettura noto – magari proprio del movimento operaio – a un movimento enorme e complesso che parla di una forma fondamentale di sfruttamento come quella sul corpo della donna. Se gli algoritmi della repressione, come dicevamo, sono incapaci di leggerlo almeno quanto i militanti dell’ISIS sono incapaci di fronteggiare le guerrigliere dell’YPG per il loro essere innanzitutto donne, evidentemente alcuni parametri dentro cui abbiamo formato la nostra analisi politica non risultano all’altezza di ciò che questo movimento indica in termini di potenza narrativa, di intelligenza tattica e di sperimentazione di pratiche. Non è secondo noi compito nostro costruire una narrazione che leghi un movimento così imponente a tutte le forme di resistenza che si danno nel mondo oggi, e non è nostro compito anche perché nell’esercitare una forma di intersezionalità con le istanze di tutti i movimenti sociali è il movimento femminista che costruisce una narrazione politica complessiva e non viceversa. Pensiamo tuttavia, che per intraprendere una trasformazione radicale sia fondamentale costruire relazione tra forme di vita divergenti che abitano il cuore della società, in questo la rottura dello schema patriarcale è il nucleo di ogni divergenza possibile, e il femminismo è la sostanza di questa relazione da costruire. Vogliamo affermare un disordine femminista che soverchi l’ordine patriarcale poiché tutte le caratteristiche e le attitudini attribuite al genere femminile in termini deterministici, sono in realtà l’universo etico acquisito dalla sua posizione di subalternità esistenziale, riconoscere che quei principi non sono una tensione biologica o una morale degli schiavi, ma le basi di una società egualitaria, è lo sforzo di demistificazione che ci si presenta all’orizzonte. Alla politica come guerra rispondiamo con la politica come relazione, e attraverso il blocco sociale e produttivo dello sciopero femminista intravediamo forme di organizzazione umana non patriarcali, e per questo in aperta contraddizione con la sopraffazione capitalista e con il linguaggio della guerra.

 

6) Delle forme di vita

Se la guerra appare quasi prolungamento naturale, razionale e maschile della politica e il regime neoliberale ottimizza lo sfruttamento dell’individuo e semplifica a poche variabili, da cui estrarre ricchezza, le relazioni possibili; se allo stesso tempo l’organizzazione femminile della società prima ancora che della lotta politica sembra essere l’unico orizzonte ricompositivo del conflitto presente, ci pare che un esercizio utile da praticare e diffondere sia l’inchiesta sulle migliaia di forme sperimentali, embrionali di organizzazione sociale, della produzione sociale e della relazione che esistono negli interstizi del capitalismo da guerra; un’inchiesta come strumento rivolto innanzitutto all’organizzazione di quelle “forme di vita” della classe. Indagare tutti i dispositivi di relazione, liberazione dallo sfruttamento che, su una scala microscopica come anche negli spazi larghi della geopolitica sovranazionale, si danno. Indagare le forme di vita in modo scientifico, provando a coglierne gli elementi potenzialmente riproducibili, quegli gli elementi che hanno in sé un’intrinseca capacità di essere inafferrabili alla sussunzione capitalistica, è un elemento conoscitivo che può costruire anche connessioni, appartenenze al campo degli “ingovernabili”. Farlo, e questo ci pare utile sottolinearlo, con tutta la potenza fredda ma immanente ai processi sociali dell”’inchiesta operaia” può essere utile per restituire una leggibilità e una legittimità politica delle scelte che investono l’esistenza soggettiva e collettiva per costruire reti di pratiche rivoluzionarie o convergenza di forme di vita affini e lontane. Per quanto ci riguarda un “partito” rivoluzionario non può più essere solo una struttura che narra i diversi processi restituendo un’analisi complessiva il quanto più possibile organica e che si fa carico di indicare un orizzonte strategico. Per noi un partito rivoluzionario è l’embrione stesso che pratica e diffonde le forme sociali, decisionali, relazionali della società che vogliamo costruire. Solo l’inchiesta sulle sperimentazioni esistenti e l’intelligenza collettiva possono inverare questa tensione ideale.

 

7) Dei flussi

Il dogma neoliberale ha intensificato, moltiplicato e approfondito le relazioni di scambio agendo sull’individuo proprietario una mutazione ontologica ma anche semplificando questa relazione lungo vettori di flusso di ricchezza, ottimizzando così la tensione monopolistica. Partendo da questo assunto, proviamo a individuare gli assi che definiscono il presente e le possibili linee di fuga da praticare limitandoci alla sola lettura dei flussi di capitale.

Ci concentriamo su questa lettura perché per noi, collettivo migrante leggerci innanzitutto come corpi, materia, massa che vive dentro il flusso di Capitale, è stato un esercizio che ha aperto insperate prospettive di lettura sul presente. Una lettura che quanto più si sforza di essere scientifica, meccanica, materialista tanto più è risultata convincente nel leggere le relazioni intracapitaliste e affermare forme potenti di conflitto anticapitalista. Abbiamo, quindi, un flusso innanzitutto a direzione verticale dal basso verso l’alto, dai proletari ai monopolisti. La strategia per interrompere questo flusso può essere, secondo noi, quella di individuare i “cali di tensione” che si verificano nel movimento trascendente proprio del capitale, una dissipazione di valore necessaria a trascendere i limiti che esso stesso si impone, e che si concretizza in una volatilità di ricchezza sociale al di fuori di questi flussi programmati. Il valore che viene dissipato diventa, per noi, immediatamente disponibile al “comune”. Abbiamo poi una dimensione orizzontale, territoriale del flusso di capitale; in questo caso, ma da una prospettiva interna al flusso stesso, anche nello sciopero, nel blocco stradale, nella riappropriazione di un territorio può concretizzarsi la trasformazione della ricchezza in movimento in ricchezza immediatamente disponibile al “comune” in sciopero. Da entrambi i punti di vista (dissipazione per trascendere un limite o blocco del movimento) avremo la messa a disponibilità di una ricchezza prima proprietaria in ricchezza socialmente accessibile, “comune”. Come individuiamo questo comune? Come lo pratichiamo? Come viene redistribuita? Quali forme di cooperazione, di mutualismo, di solidarietà possono essere all’altezza di queste possibilità? Queste sono tracce di lavoro materiale su cui ci piacerebbe confrontarci.

 

8)Dello sciopero

Un processo di risignificazione del concetto di sciopero è diventato, sopratutto grazie all’uso politico dello sciopero intrapreso dalla mobilitazione femminista in diversi luoghi del mondo, un orizzonte praticabile. Negli Stati Uniti si stanno costruendo alleanze tra il movimento Black Live Matters e il movimento per l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari, alleanze che iniziano a promuovere forme sociali, larghe e diffuse di blocco della produzione dentro e fuori i luoghi di lavoro.

 

Questi due fatti ci confermano quanto lo strumento dello sciopero sia, nel suo farsi sociale, nel suo traboccare ed stravolgere le determinazioni tradizionali legate a specifiche situazioni e figure lavorative, lo strumento che più di tutti è all’altezza delle sfide del presente capitalistico. Se l’intera vita, il tempo e il muoversi da luogo a luogo sono immediatamente messi a valore solo un blocco della produzione che sia il più largo e diffuso possibile può riconsegnare nelle mani dei soggetti subalterni un potere contrattuale efficace. In questo sottolineamo come il giorno dopo lo sciopero di genere dell’8 Marzo due voci, in Italia, espressioni l’una del sindacalismo tradizionale e l’altra del padronato, abbiano attaccato il movimento femminista proprio perché reo di aver utilizzato lo sciopero come strumento politico. Da una parte il sindacato confederale ha definito lo sciopero come esclusivo strumento del mondo del lavoro (subordinato e sempre più residuale) dentro una dinamica vertenziale interna alla concertazione aziendale. D’altra parte, il mondo dell’industria ha attaccato il movimento femminista perché usando in modo “improprio” lo sciopero ha depotenziato una lotta che ha a che fare con “diritti civili” più che con “diritti sociali” (distinzione perniciosa, marxianamente insensata, spesso utilizzata da cultori del populismo di “sinistra” o rossobruni per scatenare guerre tra poveri). In queste reazioni scomposte e nervose c’è la conferma di una potenzialità. Ma crediamo sia importante anche per questo che lo strumento dello sciopero sociale sia innanzitutto uno strumento a disposizione della società in ogni articolazione e che sia a disposizione dei movimenti sociali proprio perché è la politicizzazione dello sciopero un terreno su cui sfidare la governance del capitale e gli agenti della pacificazione sociale. Ci convince meno, l’inquadrare movimenti, soggettività, complessità che praticano questa nuova forma di sciopero dentro la cornice di un “movimento per lo sciopero”. Questa prospettiva rischia, secondo noi, di inseguire un feticismo dello strumento di lotta, di depotenziare le istanze sociali che i soggetti in conflitto agiscono e in qualche modo persino di sterilizzare l’efficacia espansiva dello sciopero sociale. È una forzatura nella lettura dell’evoluzione dello sciopero che rischia di sacrificare la bontà di un’intuizione in una foga deterministica intorno a una pratica che deve, secondo noi, rimanere disponibile al molteplice per poter essere completamente assunta come pratica centrale di lotta politica, con buona pace di sindacati confederali e organizzazioni padronali.

9)Del sindacato

Qual è la possibilità di riattivazione di un processo di sindacalizzazione e conflitto all’altezza di un mercato del lavoro così pulviscolare e precarizzato? Siamo partiti dall’osservare alcune lotte sindacali che abbiamo ritenuto particolarmente significative e avanzate perché agite in settori strategici dell’economia e in una situazione di difficoltà di soggettivazione da parte dei lavoratori dettata proprio da ritmi di sfruttamento e ostilità all’organizzazione sindacale (oltre che dall’assenza o marginalità in alcuni casi dell’intervento di sigle sindacali tradizionali). Abbiamo messo in correlazione le lotte dentro la Gig Economy (da Uber a Deliveroo e Foodora), le lotte nei magazzini di Amazon e le lotte nel settore della logistica nel nord Italia. Sono lotte in cui i lavoratori e le lavoratrici sono esposti ai processi di automazione della produzione, a turni massacranti, spesso a forme di repressione gravissima. In alcuni casi sono i settori dove l’ibridazione lavoratore/consumatore avviene attraverso una mutazione del diritto: dal diritto del lavoro a diritto commerciale. Sono però lotte che nella radicalità della pratica dei blocchi, dell’allargamento della base di solidarietà, dell’organizzazione collettiva hanno segnato vittorie efficaci e posto interessanti suggestioni sull’organizzazione del conflitto nel mondo del lavoro. Due sono gli elementi secondo noi da sottolineare di queste lotte che possono dare spunti interessanti per ogni possibile nuova articolazione di un sindacato all’altezza dei tempi. Il primo aspetto è che in tutte queste lotte ciò che era considerabile un limite all’organizzazione del conflitto è stato ribaltato come una possibilità. In questo la pratica del picchetto che blocca il flusso di capitale materiale nella logistica o la turnazione aziendale della gig economy che moltiplica cellule di organizzazione spostandosi da un’azienda all’altra per esempio indicano delle possibilità importanti. Il secondo significativo ha a che fare con la condizione soggettiva dei lavoratori e delle lavoratrici: migranti. Questo non è un aspetto marginale e non è ovviamente casuale. Dalla grande distribuzione alla logistica, cioè esattamente nei settori strategici della riarticolazione per flussi del capitale, la condizione migrante emerge proprio perché esposta maggiormente a una condizione di ricattabilità del singolo, che è una garanzia per il Capitale di non incorrere in conflitti sul lavoro. Ma esattamente come insegnano le esperienze di un secolo fa negli USA dell’IWW questo non è assolutamente scontato, anzi. Partendo da un punto di vista migrante, crediamo che la condizione migrante sia una condizione che da sfavorevole possa risultare favorevole al conflitto e al sindacato. Il migrante, sempre più in occidente, vive in una realtà, in cui l’immanenza del lavoro nel suo darsi in forma di sfruttamento risulta più evidente perché slegata da qualunque vincolo di natura etico/sociale/ambientale. Il migrante vive una condizione di doppia alienazione: ambientale e sul lavoro; in questo può produrre meccanismi di solidarietà duplici e in quanto migrante e in quanto classe lavoratrice. Dove risulta immediatamente evidente la fredda meccanica dello sfruttamento, è più forte la necessità di agire, qui ed ora, un conflitto per il miglioramento materiale delle condizioni sul lavoro. Questa immanenza, questo agire sul presente, rende la soggettività migrante una soggettività in grado di mettere in pratica in modo efficace nuove forme di soggettivazione e di sindacalizzazione. Se pensiamo inoltre a quanto nelle economie occidentali, dal mercato dei servizi, al lavoro di cura, al settore agroalimentare i migranti occupino nicchie lavorative sempre accomunate da elevati dispositivi di sfruttamento possiamo anche leggere un sindacato migrante come un sindacato in grado di svolgere una funzione ricompositiva anche oltre la figura del migrante allargandosi a tutti i lavoratori precari.

 

10) Del piano transnazionale

Come collettivo pratichiamo la piattaforma europea del Transnational Social Strike perché ne individuiamo le potenzialità come spazio di conricerca tra collettivi, sindacati, soggetti politici che provano a costruire alleanze sociali nello spazio europeo. In questo modo ci diamo non solo una lettura comune dei processi di ridefinizione della produzione capitalistica ma anche l’individuazione di un’orizzonte ricompositivo di lotta, quello dello sciopero sociale, come terreno di contropotere da costruire e di spazialità da ridefinire attraverso i conflitti, come quelli sul salario minimo, sul reddito universale e sulla libertà di movimento. Per noi si tratta di una piattaforma transnazionale che ridefinisce e scardina i confini dello spazio europeo come di quelli nazionali, un utile strumento di approfondimento e di azione politica comune, non troviamo utile immaginare questo spazio come una soggettività politica omogenea tanto meno come un’alleanza politica di scopo. Crediamo sia, almeno in questo momento, lo spazio transnazionale dove produrre uno sforzo utile in termini di inchiesta continua, di confronto politico, utile a definire una lettura materialista dello spazio e dei margini di efficacia del conflitto, con una prospettiva legata al tema dello sfruttamento del lavoro e del non lavoro, dell’Europa. Uno spazio dove partendo dalla meccanica dello sfruttamento si possa definire un campo di azione che non scivoli nel dibattito, per noi fuorviante, “Europa sì o europa no” oppure “populismo, sovranismo, elite finanziaria” oppure ancora dentro uno sforzo di costruzione di alleanze su base istituzionale e politica al fine di “democratizzare” l’Istituzione Europea. Per noi la pratica transnazionale definisce uno spazio comune di lotte partendo non dalla critica al processo di governance che l’UE si è data, o dal assumere in modo speculare i suoi confini come spazio della dialettica, ma nella correlazione che corre lungo la logistica dello sfruttamento e lungo i flussi di capitale da Est a Ovest, da Nord a Sud. La materialità di questa lettura e l’orizzonte dello sciopero come bussola per ricomporre e rafforzare le lotte, ci portano a una valorizzazione della piattaforma e dei suoi aspetti più pragmatici e spuri: definizione in chiave materialista dello spazio politico, orizzonte ricompositivo dei conflitti.